SOMMARIO: 1.Cosa si intende per doppia tutela o doppio binario di tutela nei confronti dell’attività edificatoria del vicino? – 2. Le condizioni dell’azione (legittimazione e interesse) sono valutate diversamente (con minore o maggiore severità) dal giudice civile? La tutela dei propri diritti è sempre ammessa, anche per violazioni lievi, oppure subentra la valutazione del carattere emulativo della richiesta? – 3. Esistono situazioni nelle quali è ipotizzabile una tutela civilistica diversa da quelle in cui viene fatta valere la violazione delle distanze tra costruzioni? – 4. La violazione della distanza minima dal confine, sancita dallo strumento urbanistico, riceve tutela in sede civile? Come? – 5. Quando si può affermare di avere usucapito il diritto di veduta o di panorama? – 6. È possibile usucapire la servitù di mantenimento della costruzione realizzata in violazione della distanza dai confini? – 7. Si applica lo ius superveniens in materia di distanza dai confini? – 8. Che valore hanno le convenzioni tra privati che ampliano o restringono le facoltà edificatorie dei privati (es. con l’imposizione di servitù; lo stabilire una tipologia di edificazione non intensiva; lo stare ad una certa distanza, maggiore di quella normativamente prevista): possono tutelarsi mediante riduzione in pristino?

Slides 28.01.2022 – avv. Meneguzzo (Parte I)

  1. Cosa si intende per doppia tutela o doppio binario di tutela nei confronti dell’attività edificatoria del vicino?

Come noto, la norma di riferimento in materia di tutela avverso l’attività edificatoria dei terzi è l’art. 872 c.c.[1] (Violazione delle norme di edilizia). Al primo comma, si chiarisce che la violazione delle norme di edilizia e di ornato pubblico (art. 871 c.c.) sono sanzionate secondo le leggi speciali, con riferimento quindi all’ordinamento amministrativistico. Il privato leso potrà così far valere i propri interessi legittimi (verosimilmente, oppositivi rispetto ai provvedimenti favorevoli per i progetti di edificazione del terzo) esercitando l’azione di annullamento, l’azione risarcitoria o altra tutela innanzi al Giudice amministrativo (G.A.).

Il comma 2 dell’art. 872 c.c. afferma che queste medesime violazioni della disciplina urbanistico-edilizia possono anche trovare tutela innanzi al G.O., con l’attivazione in giudizio di un diritto soggettivo[2]. Le azioni civilistiche espressamente citate dall’art. 872, co. 2 c.c. sono due:

I. L’azione di riduzione in pristino – di natura ripristinatoria e reale – qualora risultino violate le norme della Sezione VI (Delle distanze nelle costruzioni, piantagioni e scavi, e dei muri, fossi e siepi interposti tra i fondi) del Capo I (Disposizioni generali) del Titolo II (Della proprietà) del Libro III (Della proprietà) del Codice civile, o norme ivi richiamate. A questa si potrà comunque aggiungere l’azione di risarcimento del danno per equivalente ex art. 2043 c.c.

II. La sola azione aquiliana in caso di violazione di ogni altra norma.

In linea generale, la tutela della rimessione in pristino è azionabile solamente per le norme in materia di distanza tra costruzioni, mentre non rilevano altri profili di illegittimità secondo il diritto amministrativo, quali ad esempio l’abusività della costruzione, l’insediamento in zona non consentita ecc.[3]. L’art. 873 c.c.[4] (Distanze nelle costruzioni) richiede che le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, mantengano la distanza di almeno tre metri, ovvero la maggior distanza prevista dai regolamenti locali. Le norme sulle distanze nelle costruzioni di cui trattasi sono in primo luogo quelle prescritte come spazio tra le medesime, ma la giurisprudenza ha precisato che vi rientrano anche quelle sul distacco dal confine, nonché quelle in rapporto con l’altezza delle costruzioni, ancorché inserite in un contesto normativo volto a tutelare il paesaggio o a regolare l’assetto del territorio. NON rientrano in questo novero le norme che hanno come scopo principale la tutela d’interessi generali urbanistici, ovvero disciplinano solo l’altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi: in tali casi, si potrà esperire la (mera) azione aquiliana[5]. Le violazioni inerenti le distanze danno diritto anche a una tutela risarcitoria, in cui il danno alla proprietà si presume, salva la dimostrazione contraria da parte del presunto danneggiante che per le peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il pregiudizio debba essere escluso[6].

  1. Le condizioni dell’azione (legittimazione e interesse) sono valutate diversamente (con minore o maggiore severità) dal giudice civile? La tutela dei propri diritti è sempre ammessa, anche per violazioni lievi, oppure subentra la valutazione del carattere emulativo della richiesta?

La giurisprudenza è piuttosto permissiva rispetto alla sussistenza delle condizioni dell’azione nelle azioni a tutela della proprietà avverso le violazioni delle norme sulle distanze: l’interesse ad agire si considera connaturato alla prospettazione, da parte del soggetto legittimato, di una lesione o sottoposizione a pericolo o discussione del diritto dominicale[7]. L’azione promossa dal proprietario del fondo per la demolizione delle parti di un fabbricato costruite dal vicino a distanza illegale, essendo per lui utile, non costituisce atto emulativo ex art. 833 c.c., il quale invece deve essere posto in essere al solo scopo di nuocere o arrecare molestia ad altri[8].

Perciò, in caso di violazione delle distanze legali tra le costruzioni è irrilevante l’accertamento della concreta pericolosità o dannosità delle intercapedini, essendo tale situazione presupposta dalle norme applicabili[9]. Né riveste carattere emulativo l’azione giudiziaria con cui il proprietario domanda l’eliminazione di una veduta aperta dal vicino a distanza illegale[10].

  1. Esistono situazioni nelle quali è ipotizzabile una tutela civilistica diversa da quelle in cui viene fatta valere la violazione delle distanze tra costruzioni?

È stata riconosciuta al privato leso dall’edificazione del vicino la tutela risarcitoria in caso di violazione dei vincoli imposti dai regolamenti edilizi comunali a tutela del paesaggio[11].

Si è poi riconosciuta l’astratta idoneità a fondare la (mera) pretesa risarcitoria nel caso si lamenti il preteso carattere abusivo della costruzione finitima, il suo insediamento in zona non consentita, la disomogeneità della sua destinazione rispetto a quella (legittimamente) conferita al fabbricato, la sua insuscettibilità di sanatoria amministrativa[12].

Ancora, si è espressamente esclusa la tutela ripristinatoria a favore di quella risarcitoria in caso di mancata realizzazione degli spazi destinati a parcheggio nei fabbricati di nuova costruzione ex art. 41-sexies l. 1150/1942, giacché solo l’effettiva esistenza di tali spazi è condizione per il riconoscimento giudiziale del diritto reale al loro uso da parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari del fabbricato[13].

Sia concessa una breve disamina dell’evoluzione normativa ed ermeneutica che ha riguardato l’art. 41-sexies cit.

L’art. 18, co. 1 l. 765/1967 ha introdotto l’art. 41-sexies l. 1150/1942 nel seguente testo: “Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni venti metri cubi di costruzione”.

In un primo momento, la giurisprudenza qualificava tale rapporto come “rapporto pertinenziale” derogabile dalle parti: si negava la sussistenza di un vincolo di natura soggettiva che prescrivesse una utilizzazione del parcheggio solo da parte dei proprietari delle unità immobiliari del fabbricato principale (cfr. sent. Cass. 16 novembre 1978, n. 5300).

Successivamente, la Suprema Corte ha riconosciuto la natura imperativa ed inderogabile della norma per i rapporti privatistici inerenti a tali spazi, con la conseguente radicale nullità degli atti di alienazione separata degli spazi stessi (cfr. sent. Cass. 25 gennaio 1982, n. 483). La norma opera anche nei rapporti privatistici inerenti gli spazi in oggetto, imponendo la loro destinazione ad uso delle persone che occupano stabilmente le costruzioni (cfr. sentt. Cass. SS.UU., nn. 6600-1-2/1984).

L’orientamento si è mantenuto fermo anche a seguito dell’art. 26, ult. co. l. 47/1985, secondo cui gli spazi per parcheggio “costituiscono pertinenze degli edifici, ai sensi degli artt. 817, 818 e 819 del codice civile”.

Con l’art. 2, co. 2 l. 122/1989 (legge Tognoli), l’art. 41-sexies l. 1150/1942 è stato così novellato: “Nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”. Inoltre, l’art. 9, co. 1 l. cit. ha concesso ai proprietari di immobili di realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché‚ non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici.

L’art. 9, co. 5 della legge Tognoli, come sostituito dall’art. 10, co. 1 l. 35/2012, afferma che i parcheggi realizzati ai sensi del precedente comma 4 non possono essere ceduti separatamente dall’unità immobiliare alla quale sono legati da vincolo pertinenziale e i relativi atti di cessione sono nulli, ad eccezione di espressa previsione contenuta nella convenzione stipulata con il comune, ovvero quando quest’ultimo abbia autorizzato l’atto di cessione.

Con la sent. Cass., SS.UU., n. 12793/2005, la Suprema Corte ha stabilito che i parcheggi realizzati in eccedenza rispetto allo spazio minimo richiesto dall’art. 18 l. 765/1967, non sono soggetti a vincolo pertinenziale a favore delle unità immobiliari del fabbricato, conseguentemente l’originario proprietario-costruttore del fabbricato può legittimamente riservarsi, o cedere a terzi, la proprietà di tali parcheggi, nel rispetto del vincolo di destinazione nascente da atto d’obbligo.

Con l’art. 12, co. 9 l. 246/2005, è stato introdotto il comma 2 dell’art. 41-sexies cit.: “Gli spazi per parcheggi realizzati in forza del primo comma non sono gravati da vincoli pertinenziali di sorta né da diritti d’uso a favore dei proprietari di altre unità immobiliari e sono trasferibili autonomamente da esse”.

Invece per i parcheggi di cui al successivo comma 2, non esiste un vincolo di pertinenzialità ex lege con la conseguenza che gli stessi vengono considerati come un bene autonomo rispetto alle unità immobiliari e, dunque, possono essere alienati separatamente da queste ultime. Tale norma ha definitivamente liberalizzato il regime di circolazione e trasferimento delle aree destinate a parcheggio, “ma con esclusivo riferimento al futuro, ovvero alle costruzioni non ancora realizzate e a quelle per le quali non sia ancora intervenuta la stipulazione delle vendite delle singole unità immobiliari, al momento della sua entrata in vigore” (cfr. sent. Cass., Sez. II, n. 21003/2008).

  1. La violazione della distanza minima dal confine, sancita dallo strumento urbanistico, riceve tutela in sede civile? Come?

Anche le distanze dai confini consentono di valersi della cd. doppia tutela: di impugnazione del titolo edilizio innanzi al G.A., o di rimessione in pristino e/o di risarcimento del danno innanzi al G.O.[14]. La distanza dai confini in genere è imposta dai regolamenti locali per mitigare l’effetto del cd. principio della prevenzione, secondo cui in caso di fondi confinanti inedificati, il primo proprietario che proceda a costruire può spingere il proprio fabbricato fino al confine, facendo sì che il titolare del fondo finitimo sia tenuto all’integrale rispetto della distanza tra costruzioni. In tale eventualità, se i fondi sono di limitata estensione e se è fissata un’elevata distanza tra costruzioni dai regolamenti locali in forza del rinvio ex art. 873 c.c., il proprietario che non abbia ancora costruito potrebbe incorrere in una sorta di “inedificabilità de facto”, a causa dell’obbligo di arretramento dalla costruzione preveniente. Tuttavia, qualora il regolamento locale imponga una distanza dai confini (in genere, la metà della distanza tra costruzioni), si ottiene l’effetto di ripartire tra i confinanti l’onere di arretrare la propria costruzione dal fondo altrui[15]. La distanza dai confini deve essere osservata, ad esempio, dalla piscina e relativa vasca di compensazione[16], nonché da scale esterne e terrazzi aggettanti[17]. Invece, NON deve essere rispettata dal muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno[18].

  1. Quando si può affermare di avere usucapito il diritto di veduta o di panorama?

Il diritto di veduta o di panorama configura la pretesa a non vedere pregiudicata la visuale all’infinito dal terrazzo dalla chioma di un albero piantato a distanza legale ed integra una servitù altius non tollendi. In base al principio per cui non sono usucapibili le servitù non apparenti, ex art. 1061 c.c., l’usucapione della servitù di veduta o panorama richiede l’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, nonché di opere visibili e permanenti, ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta[19].

  1. È possibile usucapire la servitù di mantenimento della costruzione realizzata in violazione della distanza dai confini?

La Corte di cassazione ammette l’usucapione della servitù di mantenere la costruzione edificata in violazione delle distanze dai confini, anche nel caso in cui la costruzione sia abusiva[20].

Anche il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana ha affermato la derogabilità delle distanze tra fabbricati e dai confini, purché sia intervenuta l’accertata usucapione[21].

In materia, vale il cd. principio della retroattività reale dell’usucapione, secondo cui l’usucapiente è ritenuto titolare del diritto di proprietà fin dal primo momento in cui abbia cominciato a possedere la cosa. Ciò permette di sanare o rendere certe e definitive le sole situazioni cui abbia dato luogo, con propri atti, l’usucapiente, non invece un terzo[22].

Il TAR Veneto, da parte sua, ha affermato che se lo strumento urbanistico richiede l’accordo con il privato confinante al fine di derogare alla distanza dai confini, l’usucapione non avrebbe valore ai fini di detta deroga[23].

  1. Si applica lo ius superveniens in materia di distanza dai confini?

Nei rapporti civilistici, si deve dare applicazione allo ius superveniens più favorevole al costruttore in materia di distanze nelle costruzioni: infatti, non opera il principio della doppia conformità e non rileva che in precedenza l’opera violasse le distanze e neanche che fosse abusiva. È fatto salvo, però, il diritto al risarcimento del danno maturato prima del sopraggiungere della nuova normativa[24].

  1. Che valore hanno le convenzioni tra privati che ampliano o restringono le facoltà edificatorie dei privati (es. con l’imposizione di servitù; lo stabilire una tipologia di edificazione non intensiva; lo stare ad una certa distanza, maggiore di quella normativamente prevista): possono tutelarsi mediante riduzione in pristino?

Le convenzioni tra privati che ampliano o restringono le facoltà edificatorie danno diritto, ove non rispettate, alla domanda di rimessione in pristino mediante demolizione: ciò perché esse restringono o ampliano definitivamente i poteri connessi alla proprietà, attribuendo a ciascun fondo un corrispondente vantaggio e onere che ad esso inerisce come qualitas fundi, ossia con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema delle servitù[25].

 

[1] Art. 872 c.c.: “1. Le conseguenze di carattere amministrativo della violazione delle norme indicate dall’articolo precedente sono stabilite da leggi speciali.
2.Colui che per effetto della violazione ha subito danno deve esserne risarcito, salva la facoltà di chiedere la riduzione in pristino quando si tratta della violazione delle norme contenute nella sezione seguente o da questa richiamate”.
[2] Ex multis, sent. TAR Veneto, Sez. II, 29/04/2014, n. 561: “Costituisce principio consolidato e pacifico che in tema di distanze fra costruzioni o di queste con i confini vige il regime della c.d. “doppia tutela”, per cui il soggetto che assume di essere stato danneggiato dalla violazione delle norme in materia è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell’autore dell’attività edilizia illecita (con competenza del  G.O.) e, dall’altra, dell’interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell’amministrazione, quando tale attività sia stata autorizzata, consentita e permessa (conosciuto dal G.A.). Pertanto, la controversia derivante dall’impugnazione di un permesso di costruire da parte del vicino che lamenti la violazione delle distanze legali costituisce una disputa non già tra privati ma tra privato e pubblica amministrazione, nella quale la posizione del primo si atteggia a interesse legittimo, con conseguente spettanza della giurisdizione al giudice amministrativo (cfr. da ultimo T.A.R. Veneto sez. II, 25 gennaio 2012, n. 43; Cons. Stato, sez. IV, 28.1. 2011 , n. 678)”.
[3] Ord. Cass., Sez. II, 04/02/2021, n. 2637: “9.2. Questa Corte, infatti, ha avuto più volte modo di affermare che la natura abusiva della costruzione (preventivamente realizzata) rileva unicamente nei rapporti con l’amministrazione pubblica e non anche ai fini del rispetto delle distanze legali (cfr., sul punto, Cass. n. 21354 del 2017, in motiv.). In effetti, le norme di cui all’art. 872 c.c., comma 2, in tema di distanze tra costruzioni nonchè quelle che in tale materia sono integrative del codice civile sono le uniche che consentano, in caso di loro violazione nell’ambito dei rapporti interprivatistici, la richiesta, oltre che del risarcimento del danno, anche della riduzione in pristino, a nulla rilevando, per converso, il preteso carattere abusivo della costruzione finitima, il suo insediamento in zona non consentita, la disomogeneità della sua destinazione rispetto a quella (legittimamente) conferita al fabbricato del privato istante in conformità con le disposizioni amministrative in materia e la sua insuscettibilità di sanatoria amministrativa, trattandosi di circostanze che, pur legittimando provvedimenti demolitori o ablativi da parte della pubblica amministrazione e pur essendo astrattamente idonee a fondare una pretesa risarcitoria in capo al presunto danneggiato, non integrano, in alcun modo, gli (indispensabili) estremi della violazione delle norme di cui agli artt. 873 c.c. e ss. (Cass. SU n. 5143 del 1998). Nello stesso modo, le disposizioni dettate dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici (C.d.S. n. 2086 del 2017, in motiv.). In effetti, in tema di distanze nelle costruzioni, il principio secondo cui la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati, deve essere inteso nel senso che il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell’opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia, perchè queste riguardano solo l’aspetto formale dell’attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l’aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sè la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni (Cass. n. 7563 del 2006…)”.
[4] Art. 873 c.c.: “Le costruzioni su fondi finitimi, se non sono unite o aderenti, devono essere tenute a distanza non minore di tre metri. Nei regolamenti locali può essere stabilita una distanza maggiore”.
[5] Ord. Cass., Sez. II, 19/05/2021, n. 13624: “In particolare, le disposizioni dei regolamenti edilizi locali relative alla determinazione della distanza tra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni sono da ritenere integrative delle norme del codice civile, mentre non lo sono le norme che, avendo come scopo principale la tutela d’interessi generali urbanistici, disciplinano solo l’altezza in sé degli edifici, senza nessun rapporto con le distanze intercorrenti tra gli stessi. Con la conseguenza che nel primo caso sussiste, in favore del danneggiato, il diritto alla riduzione in pristino, mentre nel secondo è ammessa la sola tutela risarcitoria (Cass. n. 1073 del 2009).
Nell’ambito delle norme dei regolamenti locali edilizi, pertanto, hanno carattere integrativo delle disposizioni dettate nelle materie disciplinate dagli artt. 873 c.c. e segg. quelle dirette a completare, rafforzare, armonizzare con il pubblico interesse di un ordinato assetto urbanistico la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato. Non rivestono invece tale carattere le norme che hanno come scopo principale la tutela di interessi generali urbanistici, quali la limitazione del volume, dell’altezza e della densità degli edifici, le esigenze dell’igiene, della viabilità, la conservazione dell’ambiente ed altro”.
E ancora, sent. Cass., Sez. II, 16/01/2009, n. 1073: “In proposito è appena il caso di segnalare che sono da ritenere integrative delle norme del codice civile solo le disposizioni relative alla determinazione della distanza fra i fabbricati in rapporto all’altezza e che regolino con qualsiasi criterio o modalità (quali la previsione di spazi liberi o il rapporto tra altezza e distanza tra edifici), la misura dello spazio che deve essere osservato tra le costruzioni: in tal caso le distanze legali sono calcolate con riferimento all’altezza dei fabbricati. Le norme che invece disciplinano solo l’altezza in sè degli edifici, a differenza di quelle che invece impongono l’altezza dei fabbricati in rapporto alla distanza intercorrente tra gli stessi, tutelano, oltre che l’interesse pubblico di ordine igienico ed estetico, esclusivamente il valore economico della proprietà dei vicini, per il che comportano, in caso di loro violazione, il solo risarcimento dei danni.
Pertanto, nell’ambito delle norme dei regolamenti locali edilizi, hanno carattere integrativo delle disposizioni dettate nelle materie disciplinate dagli artt. 873 c.c. e segg. quelle dirette a completare, rafforzare, armonizzare con il pubblico interesse di un ordinato assetto urbanistico la disciplina dei rapporti intersoggettivi di vicinato. Non rivestono invece tale carattere le norme che hanno come scopo principale la tutela di interessi generali urbanistici, quali la limitazione del volume, dell’altezza e della densità degli edifici, le esigenze dell’igiene, della viabilità, la conservazione dell’ambiente ed altro. In questa seconda ipotesi (che è quella che ricorre nel caso in esame tenuto conto che il giudice del merito ha in fatto accertato solo la violazione delle norme in tema di altezza e non di distanza) la tutela accordata al privato nel caso di violazione della norma rimane limitata al risarcimento del danno eventualmente subito”.
[6] Ord. Cass., Sez. VI, 09/11/2020, n. 25082: “Non incombe sul danneggiato l’onere di provare la sussistenza e l’entità del concreto pregiudizio patrimoniale subito, potendosi considerare il danno da risarcire come necessariamente compreso nella perpetrata violazione della prescrizione sulla distanza (cfr. ex multis Cass., sez. 2, sentenza n. 21501 del 31/08/2018; Cass., sez. 2, sentenza n. 25475 del 16/12/2010), potendosi intendere l’affermazione talvolta presente in giurisprudenza secondo cui si tratterebbe di un danno in re ipsa, nel senso che in presenza di un pregiudizio derivante dalla violazione delle distanze legali ed attesa la natura del bene giuridico leso, deve di norma presumersi esistente il pregiudizio al diritto di proprietà, fatta salva la possibilità per il preteso danneggiante di dimostrare che per le peculiarità dei luoghi o dei modi della lesione, il pregiudizio invece debba essere escluso”.
[7] Ord. Cass., Sez. II, 06/12/2021, n. 38640: “12.3. In effetti, come questa Corte ha ripetutamente affermato, l’obbligo di rispettare le distanze legali tra le costruzioni prescinde dalla dimostrazione, da parte del titolare del diritto dominicale leso, della sussistenza di un concreto pregiudizio della sua posizione giuridica, in quanto il legislatore, in relazione anche ad esigenze di sicurezza ed igiene, ha compiuto una astratta e generale valutazione dell’illegittimità della violazione delle distanze stesse. Ne’ può porsi un problema di interesse ad agire, questo essendo connaturato alla prospettazione, da parte del soggetto legittimato, di una lesione o sottoposizione a pericolo o discussione di un diritto (Cass. n. 10500 del 1994; Cass. n. 3886 del 1998). Nello stesso modo, in tema di osservanza delle distanze tra costruzioni, ove le stesse siano prescritte da un regolamento edilizio integrativo del codice civile, nessuna indagine deve essere svolta per accertare se dalla violazione della norma regolamentare sia derivato o meno un danno al fondo del vicino in quanto le disposizioni sulle distanze legali non lasciano al giudice alcun margine di valutazione in ordine ai pregiudizi prodotti dalla loro inosservanza, avuto riguardo alle finalità di natura pubblicistica cui dette disposizioni si ispirano (Cass. n. 12459 del 1995; Cass. n. 15367 del 2001)”.
[8] Sent. Cass., Sez. II, 23/05/2002, n. 7525: “L’azione promossa dal proprietario del fondo per la demolizione delle parti di un fabbricato costruite dal vicino a distanza illegale, essendo per lui utile, non costituisce atto emulativo il quale, ai sensi dell’art. 833 del codice civile, deve essere posto in essere al solo scopo di nuocere o arrecare molestia ad altri (sent. n. 3275 del 1999)”.
E ancora, sent. Cass., Sez. II, 03/12/1997, n. 12258: “D’altro canto, poiché, per aversi atto emulativo vietato dall’art. 833 cc, è necessario che l’atto di esercizio del diritto sia privo di utilità per chi lo compie e che sia stato posto in essere al solo scopo di nuocere o recare molestia ad altri, non è di certo riconducibile a tale categoria l’azione del proprietario che, come nel caso di specie, chiede la riduzione della costruzione realizzata dal vicino in violazione delle distanze legali (v. da ultima Cass. n. 301-96)”.
[9] Sent. Cass., Sez. II, 06/06/2016, n. 11567: “La soluzione sposata dal giudice di merito appare in aperto contrasto con la giurisprudenza di questa Corte, che in più occasioni ha avuto modo di affermare (cfr. Cass. n. 11948/1993) in caso di violazione delle distanze legali tra le costruzioni è irrilevante l’accertamento della concreta pericolosità o dannosità delle intercapedini, essendo tale situazione presupposta dalle norme applicabili. Del pari, tale accertamento non rileva nell’ipotesi di violazioni di limitazioni di edificabilità stabilite da privati contraenti a carico del fondo del compratore e a vantaggio di fondi ad esso limitrofi, nell’ambito della loro autonomia e libertà contrattuale e senza alcun riguardo all’esigenza di evitare la formazione di intercapedini anguste ed insalubri (in senso conforme Cass. n. 1267/1996, secondo cui non può qualificarsi come atto emulativo (vietato dall’art. 833 c.c.) la pretesa del proprietario di un fondo volta a far valere in giudizio contro il vicino il rispetto di un obbligo contrattuale, come l’osservanza nelle costruzioni della distanza pattiziamente stabilita, senza che rilevi che tale violazione non si sia tradotta in un danno concreto ed effettivo)”.
[10] Sent. Cass., Sez. II, 18/06/2020, n. 11845: “Quanto alla possibilità di qualificare come atto emulativo l’azione volta ad ottenere il rispetto della distanze si ricorda che (cfr. Cass. n. 3275/1999) per aversi atto emulativo vietato ai sensi dell’art. 833 c.c. è necessario che l’atto di esercizio del diritto sia privo di utilità per chi lo compie e sia posto in essere al solo scopo di nuocere o di recare molestia ad altri, per cui non è riconducibile a tale categoria di atti l’azione del proprietario che chieda l’eliminazione di una veduta aperta dal vicino a distanza illegale (conf. Cass. n. 6949/1999)”.
[11] Ord. Cass., Sez. II, 06/04/2018, n. 8532: “Va aggiunto che, a differenza dei vincoli imposti con singoli provvedimenti discrezionali dalla pubblica amministrazione a tutela delle bellezze naturali ai sensi della L. n. 1497 del 1939 (alla cui osservanza non possono configurarsi posizioni soggettive azionabili davanti al giudice ordinario), i vincoli imposti dai regolamenti edilizi comunali a tutela del paesaggio, stante la natura normativa dei regolamenti stessi ed alla duplice direzione della loro tutela (dell’interesse pubblico e di interessi privati), possono ingenerare diritti soggettivi a favore del proprietario del bene avvantaggiato dalla imposizione del vincolo. Esso proprietario può, pertanto, “se danneggiato dalla violazione del vincolo da parte del vicino”, convenire quest’ultimo davanti al giudice ordinario per il risarcimento e, se trattisi d’inosservanza di norma sulle distanze tra costruzioni (norma, come tale, integrativa del codice civile), anche per il ripristino (Sez. 2, Sentenza n. 3704 del 05/11/1975)”.
[12] Sent. Cass., Sez. II, 20/01/2022, n. 1764: “In effetti, le norme di cui all’art. 872 c.c., comma 2, in tema di distanze tra costruzioni nonché quelle che in tale materia sono integrative del codice civile sono le uniche che consentano, in caso di loro violazione nell’ambito dei rapporti interprivatistici, la richiesta, oltre che del risarcimento del danno, anche della riduzione in pristino, a nulla rilevando, per converso, il preteso carattere abusivo della costruzione finitima, il suo insediamento in zona non consentita, la disomogeneità della sua destinazione rispetto a quella (legittimamente) conferita al fabbricato del privato istante in conformità con le disposizioni amministrative in materia e la sua insuscettibilità di sanatoria amministrativa, trattandosi di circostanze che, pur legittimando provvedimenti demolitori o ablativi da parte della pubblica amministrazione e pur essendo astrattamente idonee a fondare una pretesa risarcitoria in capo al presunto danneggiato, non integrano, in alcun modo, gli (indispensabili) estremi della violazione delle norme di cui agli artt. 873 c.c. e segg. (Cass. SU n. 5143 del 1998)”.
[13] Sent. Cass., Sez. II, 18/01/2022, n. 1445: “15.3. Ora, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in tema di spazi destinati a parcheggio nei fabbricati di nuova costruzione e di cui della L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, l’effettiva esistenza di tali spazi è condizione per il riconoscimento giudiziale del diritto reale al loro uso da parte degli acquirenti delle singole unità immobiliari del fabbricato, ai quali altrimenti compete soltanto la possibilità di chiedere il risarcimento del danno conseguente all’indisponibilità degli spazi stessi. Tale riconoscimento, peraltro, può avere come oggetto soltanto le aree che siano state destinate allo scopo di cui si tratta nei provvedimenti abilitativi all’edificazione, senza possibilità di ubicazioni alternative (Cass. n. 3393 del 2009, la quale, in applicazione del principio esposto, ha cassato la sentenza della corte di merito che aveva dichiarato che la destinazione a parcheggio incideva sul cortile di proprietà dei costruttori, prescindendo dall’accertamento relativo alla reale destinazione a parcheggio del cortile in questione, da parte sia dei costruttori dello stabile sia della P.A., in sede di rilascio della concessione edilizia, eventualmente in sanatoria). In effetti, in tema di spazi riservati a parcheggio nei fabbricati di nuova costruzione, il vincolo previsto al riguardo della L. n. 1150 del 1942, art. 41 sexies, introdotto dalla L. n. 765 del 1967, art. 18, è subordinato alla condizione che l’area scoperta esista e non sia stata adibita ad un uso incompatibile con la sua destinazione, con la conseguenza che, al contrario, ove lo spazio, pur previsto nel progetto autorizzato, non sia stato riservato a parcheggio in corso di costruzione e sia stato, invece, utilizzato per realizzarvi manufatti od opere di altra natura, non può farsi ricorso alla tutela ripristinatoria di un rapporto giuridico mai sorto ma, eventualmente a quella risarcitoria, atteso che il contratto di trasferimento delle unità immobiliari non ha avuto ad oggetto alcuna porzione dello stesso ed il riconoscimento giudiziale del diritto reale d’uso degli spazi destinati a parcheggi può avere ad oggetto soltanto le aree che siano destinate allo scopo di cui si tratta nei provvedimenti abilitativi all’edificazione (Cass. n. 13210 del 2017)”.
[14] E ancora, sent. TAR Veneto, Sez. II, 10/01/2017, n. 24: “Per completezza va soggiunto che nelle controversie concernenti le distanze vige il regime della cd. “doppia tutela”, per la quale il soggetto che si ritiene danneggiato può ottenere dal giudice amministrativo solo l’eventuale rimozione del titolo edilizio che ha autorizzato lo svolgimento di un’attività in violazione di norme di legge, facendo valere la propria posizione che ha i caratteri propri dell’interesse legittimo, mentre ove voglia far valere il proprio diritto soggettivo al risarcimento o alla riduzione in pristino, deve rivolgersi al giudice ordinario che può eventualmente disapplicare il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell’art. 5 della legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E”.
[15] Sent. Cass., SS.UU., 19/05/2016, n. 10318: “Le norme dei regolamenti edilizi che fissano le distanze tra le costruzioni in misura diversa da quelle stabilite dal codice civile, infatti, in virtù del rinvio contenuto nell’art. 873 c.c., hanno portata integrativa delle disposizioni dettate in materia dal codice civile; e tale portata non si esaurisce nella sola deroga alle distanze minime previste dal codice, ma si estende all’intero impianto di regole e principi dallo stesso dettato per disciplinare la materia, compreso il meccanismo della prevenzione, che i regolamenti locali possono eventualmente escludere, prescrivendo una distanza minima delle costruzioni dal confine o negando espressamente la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza”.
[16] Sent. TAR Veneto, Sez. II, 19/05/2015, n. 535: “Sono state superate le precedenti distanze dal confine con dei manufatti, la vasca di compensazione e la piscina, creati artificialmente oltre l’originario profilo della balza, e che complessivamente emergono dal sottostante vialetto per circa 3,90 m.
Pertanto l’assunto secondo il quale tali opere non dovrebbero soggiacere alla disciplina sulle distanze dai confini perché completamente interrate è infondato.
La censura con la quale il ricorrente ritiene applicabili alla vasca di compensazione le distanze previste dall’art. 889 c.c. per pozzi, cisterne fossi e tubi deve essere respinta, perché nel caso all’esame, come appena evidenziato, il manufatto realizzato si sostanzia nella realizzazione di un opera corrispondente ad un muro di contenimento che ha sopravanzato l’originario profilo della balza del terreno, e in quanto tale deve essere qualificato come una costruzione, dato che, ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze, “la nozione di costruzione non si identifica con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che abbia i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell’opera” (per una fattispecie analoga cfr. Cassazione civile Sez. II 17 giugno 2011 n. 13389)”.
[17] Sent. TAR Toscana, Sez. III, 18/11/2020, n. 1416: “Secondo un pacifico orientamento della Corte di Cassazione “in materia di distanze legali fra edifici, se da un lato non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale o di rifinitura accessoria di limitata entità, come la mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, rientrano nel concetto civilistico di “costruzione” le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (cosiddetti “aggettanti”), che pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato. Di talché, agli effetti di cui all’art. 873 c.c., la nozione di “costruzione”, stabilita dalla legge statale, deve essere unica e non può essere derogata, sia pure al limitato fine del computo delle distanze, dalla normativa secondaria, giacché il rinvio contenuto nella seconda parte dell’art. 873 c.c., è limitato alla sola facoltà per i regolamenti locali di stabilire una distanza maggiore (tra edifici o dal confine) rispetto a quella codicistica (Cassazione civile sez. II, 29/01/2018, n.2093)”.
[18] Sent. TAR Piemonte, Sez. II, 11/02/2020, n. 124: “Secondo condivisibili principi giurisprudenziali, il muro di contenimento di una scarpata o di un terrapieno naturale non può considerarsi costruzione, agli effetti delle norme sulle distanze, dalle fondamenta al livello del fondo superiore, qualunque sia l’altezza della parete naturale o della scarpata o del terrapieno cui aderisce, impedendone lo smottamento (Cass. Civ., II, 11 gennaio 1992, n. 243); analogamente, è stato affermato che “in caso di fondi a dislivello, non può considerarsi “costruzione”, ai fini e per gli effetti dell’art. 873 c.c., il muro di contenimento realizzato per evitare smottamenti e frane” (Cass. Civ., II, 19 agosto 2002 n. 12239)”.
[19] Sent. Cass., Sez. II, 27/02/2012, n. 2973: “Nella fattispecie la sentenza ha riconosciuto un diritto di veduta che, siccome dalla stessa inteso come diritto a non vedere pregiudicata la visuale all’infinito dal terrazzo dalla chioma di un albero piantato a distanza legale, integra una servitù altius non tollendi, indicando la fonte del diritto nella preesistenza della visuale all’acquisto dell’immobile; orbene il riconoscimento del diritto in ragione della preesistenza della visuale all’acquisto dell’immobile viola il principio della tipicità dei modi di acquisto dei diritti reali, giacchè è vero che una servitù altius non tollendi può essere costituita oltre che negozialmente anche per destinazione del padre di famiglia od usucapione, ma tali modi di costituzione necessitano, non solo, a seconda dei casi, della destinazione conferita dall’originario unico proprietario o dell’esercizio ultraventennale di attività corrispondenti alla servitù, ma anche di opere visibili e permanenti, ulteriori rispetto a quelle che consentono la veduta” (cfr. Cass. sez. 2 n. 10.250 del 20.10.1997 a termini della quale “la cosiddetta servitù di panorama, consistente nella particolare amenità del fondo dominante per la visuale di cui gode, è una servitus altius non tollendi (sia costruzioni, sia alberi) che, per potersi acquistare per destinazione del padre di famiglia o per usucapione, necessita di opere visibili e permanenti, ulteriori rispetto a quelle che consentono la servitù di veduta, altrimenti questa comporterebbe sempre quella, e speficatamente destinate all’esercizio della servitù invocata””.
[20] Sent. Cass., Sez. II, 08/09/2014, n. 18888: “Invero la più recente elaborazione giurisprudenziale di questa Corte di legittimità è nel senso che, in materia di violazione delle distanze legali tra proprietà confinanti, deve ritenersi ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dalle norme del codice civile e da quelle dei regolamenti e degli strumenti urbanistici locali (cfr. Cass. 22.2.2010, n. 4240; Cass. 18.2.2013, n. 3979, secondo cui è ammissibile l’acquisto per usucapione di una servitù avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dal codice civile o dai regolamenti e dagli strumenti urbanistici, anche nel caso in cui la costruzione sia abusiva, atteso che il difetto della concessione edilizia esaurisce la sua rilevanza nell’ambito del rapporto pubblicistico, senza incidere sui requisiti del possesso ad usucapionem; Cass. 23.1.2012, n. 871; Cass. 7.9.2009, n. 19289)”.
[21] Sent. C.G.A.R.S., 09/07/2018, n. 395: “Sennonché, anche a voler seguire tale orientamento mitior, è incontrovertibile che l’esistenza di eventuali accordi tra proprietari di fondi finitimi, nel senso cioè della edificabilità anche in deroga alle distanze tra i confini, debba risultare da chiare pattuizioni o da atti di asservimento concordati per iscritto e non dalla mera acquiescenza del proprietario (a meno che non si sia perfezionata e non sia stata accertata l’usucapione). Diversamente la mera allegazione di detti accordi, conclusi verbalmente o tacitamente, non è opponibile all’Amministrazione, la quale – se il richiedente la sanatoria non sia in grado di fornire elementi seri a fondamento del suo diritto – non deve rilasciare il provvedimento abilitativo (Cons. Stato, sez. IV, 8 giugno 2007, n. 3027; sez. V, 7 luglio 2005, n. 3730)”.
[22] Sent. Cass., Sez. II, 23/12/2015, n. 25964: “Tale principio e la conseguente prospettata efficacia retroattiva trovano ragion d’essere nella ratio di sanare o rendere certe e definitive situazioni alle quali abbiano dato luogo atti intermedi compiuti dall’usucapiente. […]
Occorre, quindi, ribadendo il risalente e già enunciato dictum di questa stessa Sezione enunciare più compiutamente il seguente principio di diritto: “il principio della cosiddetta retroattività reale dell’usucapione comporta che l’usucapiente sia ritenuto titolare del diritto di proprietà fin dal primo momento in cui abbia cominciato a possedere la cosa. Tale principio si giustifica quando sussistano ragioni contingenti di necessità e di opportunità pratica per la sola l’ipotesi di sanare o rendere certe e definitive situazioni cui abbia dato luogo, con propri atti, l’usucapiente.
Il medesimo principio non ha eguale efficacia retroattiva nella fattispecie in cui si tratti di accertare e definire una situazione giuridica alla quale abbia dato luogo – in relazione al medesimo bene che si assume usucapito – l’atto non dell’usucapiente, ma di un terzo””.
[23] Cfr. ord. TAR Veneto, Sez. II, 24/05/2018, n. 195.
[24] Ord. Cass., Sez. II, 12/01/2022, n. 802: “7.1. Il ricorso principale non offre elementi per mutare la costante interpretazione giurisprudenziale secondo cui, in materia di distanze nelle costruzioni, qualora subentri una disposizione più favorevole al costruttore, si consolida – salvi gli effetti di un eventuale giudicato sull’illegittimità della costruzione – il diritto di quest’ultimo a mantenere l’opera alla distanza inferiore (tra le tante, da ultimo Cass. Sez. 2, 04/02/2021, n. 2640; Cass. Sez. 2, 26/07/2013, n. 18119). Il sopravvenire della disciplina normativa meno restrittiva comporta, invero, che l’edificio in contrasto con la regolamentazione in vigore al momento della sua ultimazione, ma conforme alla nuova, non può più essere ritenuto illegittimo, cosicché il confinante non può pretendere l’abbattimento o, comunque, la riduzione alle dimensioni previste dalle norme vigenti al momento della sua costruzione. Tale effetto deriva dal fatto che, pur rimanendo sussistente l’illecito di chi abbia costruito in violazione di norme giuridiche allora vigenti e la sua responsabilità per i danni subiti dal confinante fino all’entrata in vigore della normativa meno restrittiva, viene però meno l’illegittimità della situazione di fatto determinatasi con la costruzione, essendo questa conforme alla normativa successiva e, quindi, del tutto identica a quella delle costruzioni realizzate dopo la sua entrata in vigore (Cass. Sez. 2, 22/02/1996, n. 1368; Cass. Sez. 2, 15/06/2010, n. 14446; Cass. Sez. 2, 24/11/2020, n. 26713)”.
[25] Sent. Cass., Sez. II, 15/09/2021, n. 24940: “13.3. Questa Corte, invero, ha avuto più volte modo di affermare che le convenzioni tra privati, con le quali si stabiliscono reciproche limitazioni o vantaggi a favore e a carico delle rispettive proprietà individuali specie in ordine alle modalità di edificabilità, restringono o ampliano definitivamente i poteri connessi alla proprietà, attribuendo a ciascun fondo un corrispondente vantaggio e onere che ad esso inerisce come qualitas fundi, ossia con caratteristiche di realità inquadrabili nello schema delle servitù, senza che siffatto carattere venga meno qualora le parti non la menzionino espressamente, e che, pertanto, nell’ipotesi, come quella in esame, di (accertata) inosservanza della convenzione (contenuta, nella specie, nel regolamento consortile) limitativa, con carattere di realità (concernendo sin da subito i fondi confinanti), dell’edificabilità, il proprietario del fondo dominante può agire nei confronti del proprietario del fondo servente con azione di natura reale per chiedere ed ottenere la demolizione dell’opera abusiva, non diversamente dal proprietario danneggiato dalla violazione delle norme sulle distanze nelle costruzioni previste dagli artt. 872 e 873 c.c. (cfr. Cass. n. 4770 del 1996; Cass. n. 4624 del 1984)”.

*Il testo riproduce e amplia la prima parte dell’intervento tenuto dall’avv. Dario Meneguzzo durante il seminario dal titolo “La legittimazione attiva e l’interesse ad agire nelle impugnazioni “edilizie”” del 28 gennaio 2022 organizzato dall’Associazione Veneta Avvocati Amministrativisti.

Dario Meneguzzo

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