- L’avvocato amministrativista tra procedimento e processo
L’attività dell’avvocato amministrativista è peculiare perché riguarda l’esercizio di poteri autoritativi. Si tratta di verificare se il potere sia esercitato in conformità alla legge (o meglio, a una sterminata serie di regole in continuo cambiamento); e se sia esercitato in modo coerente e razionale (senza un “eccesso”).
L’oggetto del giudizio è di regola l’atto amministrativo. Nel corso del tempo si è peraltro diffuso il metodo chiamato “auto-amministrazione”: la p.a. non emana alcun atto, ed è invece il privato che assevera l’esistenza dei requisiti prescritti, dando vita a un “titolo” che non è un atto. L’esempio tipico ne è la SCIA. Di conseguenza, quando si deve proporre ricorso al TAR e cercando l’atto da impugnare non se ne trova nessuno, qualche problema si pone…
Con l’auto-amministrazione, gli uffici hanno l’impressione di non assumere alcun provvedimento e di non incorrere in alcuna responsabilità. Il che non è, perché sussiste comunque un dovere di vigilanza e controllo. Permane dunque il sindacato del giudice amministrativo; ed è da evitare che le modalità di proposizione della domanda giudiziaria limitino la tutela.
Un dato caratteristico degli avvocati amministrativisti è che possono assistere sia la parte privata sia la parte pubblica (non contemporaneamente, beninteso…).
Ci sono naturalmente gli avvocati dipendenti degli enti pubblici, in deroga alla regola che la professione di avvocato è incompatibile “con qualsiasi attività di lavoro subordinato“. E un mondo a sé, poi, è quello dell’Avvocatura dello Stato.
Ma non importa che si tratti di un avvocato del libero Foro o di un avvocato “interno” alla p.a.; importa che chi difende un’amministrazione finisce spesso per essere coinvolto nell’esercizio del potere amministrativo, a livello tecnico e talvolta anche a livello delle scelte amministrative. Succede anzi con una certa frequenza che lo stesso avvocato rediga gli atti amministrativi per l’ente che assiste e poi li difenda in giudizio.
In un certo senso, è la conferma del rapporto stretto che c’è tra procedimento e processo amministrativo. Si potrebbe dire che il processo è la prosecuzione del procedimento con altri mezzi. Ma anche viceversa, poiché il processo produce ordinanze e sentenze che conformano la successiva attività amministrativa.
In generale, l’attività dell’avvocato amministrativista riguarda entrambe le fasi; anzi – visto il costante calo del contenzioso – sembra spostarsi sempre più dal patrocinio in giudizio all’assistenza nella fase procedimentale.
L’attività di consulenza e assistenza tipica della professione forense, calata nella realtà delle amministrazioni pubbliche, acquista dunque un’ulteriore valenza e comporta un’ulteriore responsabilità: contribuisce alla costruzione di un procedimento amministrativo che per sua natura dev’essere corretto e funzionale.
E in questo senso il ruolo dell’avvocato amministrativista è stato definito di “ingegnere procedimentale”.
- Il linguaggio del procedimento amministrativo e quello del processo
Il linguaggio del procedimento e quello del processo hanno destinatari diversi.
Nei procedimenti amministrativi il destinatario è il cittadino, e dunque il linguaggio della pubblica amministrazione dovrebbe essere calibrato su di lui. Quindi dovrebbe essere semplice e comprensibile. C’è infatti un diritto di chi è destinatario di un atto a comprenderlo; ad esso corrisponde un dovere di chi forma l’atto di farsi capire. La violazione di questo rapporto determina il distacco dei cittadini nei confronti delle istituzioni. E per questo è importante ridurre la distanza tra il linguaggio dalle amministrazioni e quello comunemente usato.
Quanto invece agli atti del processo amministrativo, il destinatario è il giudice: è lui che – nella dialettica processuale – deve essere persuaso. Poiché il giudice amministrativo è un giudice tecnico, anche il discorso a lui diretto dovrebbe essere a sua volta tecnico e argomentativo, non genericamente suggestivo.
È nell’ordine delle cose che sia così. Il giudizio amministrativo ha propri metodi e propri contenuti. In fondo il fatto stesso che ci si debba rivolgere a un avvocato significa che c’è necessità di una sorta di “interprete” perché la vertenza venga compresa da chi vi è interessato.
Però, appunto, i livelli comunicativi sono sovrapposti – nei rapporti dell’avvocato con il giudice, con i propri clienti, con le controparti, con le amministrazioni – e le medesime parole possono rispondere a finalità diverse.
Il linguaggio – del procedimento e del giudizio amministrativo – può essere sia un modo per individuare e argomentare le determinazioni migliori; sia un modo per fare barriera a possibili contestazioni; sia un modo per nascondere la sostanza delle cose dietro a molte parole.
Le pubbliche amministrazioni, in particolare, sono progressivamente diventate dei produttori di parole su scala sempre più larga. Prima del 1990 non avevano l’obbligo di motivare i loro atti, né di coinvolgere i privati nei procedimenti. Ora l’obbligo di motivazione è imposto per legge, come quello di tener conto dell’apporto degli interessati. E i mezzi tecnici a disposizione rendono possibile redigere testi sempre più saturi di passaggi argomentativi.
Ma ciò che spesso si rende evidente è che la p.a. usa le parole come se fossero sufficienti di per sé, come se dovessero per forza corrispondere a elementi reali che però nella realtà non esistono. Una motivazione può anche essere scritta molto bene, ma se è vuota di contenuti resta vuota.
Il giudice amministrativo è in grado di accorgersene?
Se si ferma alle parole, no. Il giudice non può dunque limitarsi alle parole; non può ripetere le parole usate dall’amministrazione come se fossero di per sé sole, se ben dette, idonee a motivare anche la sua sentenza.
- Regole e limiti degli atti difensivi nel giudizio amministrativo
Gli atti difensivi hanno l’obbligo della chiarezza e sinteticità: un obbligo che nel processo amministrativo non è generico (almeno per quanto riguarda la sinteticità…).
Dispone l’art. 3, co, 2, del codice del processo amministrativo che “il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione”. E, tra queste ultime, l’art. 13 ter dispone che “le parti redigono il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato”.
Fondamentale risulta quindi il decreto 167/2012 del Presidente del Consiglio di Stato.
Il sistema è caratterizzato dalla possibilità che il giudice amministrativo autorizzi caso per caso il superamento del limite; e da una sanzione consistente nella facoltà del giudice di non leggere ciò che sta oltre i caratteri assentiti. Scelte che paiono peraltro opinabili, perché comportano l’attribuzione al giudice di un ruolo diverso e ulteriore rispetto alla decisione della causa.
La disciplina del processo amministrativo sul punto è stata il modello per il processo civile: in esso pure è stato introdotto l’obbligo di chiarezza e sinteticità – modificando l’art. 121 CPC – e le tecniche redazionali degli atti e i loro limiti dimensionali sono ora posti dal decreto del Ministro della Giustizia 7.8.2023 n. 110. Ma tale decreto, oltre a consentire un maggior numero di caratteri rispetto al processo amministrativo, non prevede meccanismi autorizzatori e non pone a rischio l’ammissibilità degli atti.
L’obbligo di rispettare i limiti dimensionali è certo discutibile, ma è chiaro. Un altro obbligo, invece, è molto meno facile da definire: l’obbligo della verità.
Nel codice deontologico – l’art. 50, intitolato appunto “Dovere di verità” – sembra più un divieto di falsità: “1. L’avvocato non deve introdurre nel procedimento prove, elementi di prova o documenti che sappia essere falsi. (…)”.
Il tema è da far tremare i polsi. Mi limito a ricordare ai nostri fini che il linguaggio è lo strumento che abbiamo a disposizione per ragionare e per cercare la verità.
Ma, in primo luogo, le parole non sono precise (anzi, sono suggestive, evocative, ambigue).
In secondo luogo, è tutta da verificare la nozione di verità nel diritto amministrativo. Certo, c’è la verità processuale data dalla sentenza. Ma non sembra aver a che fare con una verità esterna al diritto.
E infine, nel nostro mondo fatto di interessi pubblici e privati che coesistono e si rapportano tra loro, l’impressione è che in tutte le posizioni vi siano contemporaneamente torto e ragione, sia pure in percentuali diverse.
Però – con tutte queste riserve – vero e falso, torto e ragione non sono la stessa cosa. E, come avvocati, dobbiamo tenerne conto. Abbiamo infatti un obbligo di doppia fedeltà: al nostro cliente ma anche ai valori dell’ordinamento.
In questa doppia fedeltà, ci si può ad esempio chiedere se l’avvocato possa essere “cavilloso” quando ritenga che ciò sia utile al suo cliente.
Naturalmente tutto dipende da cosa si intende per cavilloso. Se, anche per la forza del soprannome, viene in mente l’Azzeccagarbugli manzoniano e il suo asservimento ai potenti, la questione non si pone neppure.
Ma un altro illustre esempio letterario rende l’idea. Pensiamo al mercante di Venezia, a Shylock, al suo diritto ad avere una libbra di carne del suo debitore. Quando gli si obbietta che va bene il diritto alla libbra di carne, ma che non c’è il diritto ad avere neanche una goccia di sangue, quella è un’argomentazione cavillosa? Direi di sì, e direi anche che porta a evitare un risultato iniquo.
Se dunque intendiamo l’essere cavilloso non come ingannare o falsificare, ma “giocare” con le parole e confondere le idee che sembrano chiare, ben venga essere cavillosi.
Anche perché il diritto amministrativo, con le innumerevoli regole di cui si compone, è un campo perfetto per esercitarsi ad essere cavillosi.
- Scritti e discussione orale nel giudizio amministrativo
Gli atti amministrativi sono di regola scritti, e anche il giudizio amministrativo è spesso soltanto scritto. Ma l’oralità è importante. Se non ci fosse la possibilità della discussione in udienza, qualcosa si bloccherebbe nel sistema del processo amministrativo.
C’è dunque la discussione cautelare, ed è il primo contatto con il giudice in una situazione di necessità.
E c’è la discussione finale. La struttura del giudizio amministrativo è basata sulla presentazione di un ricorso, su una costituzione in giudizio, su uno scambio contestuale di documenti memorie e repliche. Dopo, tutto ciò che resta – e che per questo deve essere mantenuto – è la possibilità del confronto in udienza.
Non che ogni giudizio amministrativo debba concludersi con una discussione finale. È la possibilità della discussione che deve essere assicurata. Perché l’esporre e il contraddire in udienza consentono appunto un confronto diretto tra le posizioni.
Nel processo amministrativo abbiamo conosciuto anche l’udienza telematica, da remoto, nel periodo COVID. Ha generalmente dato buona prova, e avrebbe meritato di restare. Invece oggi sopravvive – come scelta obbligata – solo nel caso dello smaltimento dell’arretrato. Mi sembra una limitazione ingiustificata: l’udienza telematica deve essere facoltativa e, su questa base, può essere generalmente consentita.
Quanto poi alla disciplina dello smaltimento dell’arretrato, la sua ratio – dato che parliamo qui di linguaggio – è resa chiara dalle parole usate: il termine “smaltimento” va bene anche per i rifiuti.
Stefano Bigolaro
* Il testo riproduce e riordina l’intervento svolto nel webinar sul linguaggio delle pubbliche amministrazioni e degli atti nel giudizio amministrativo, organizzato dall’Unione Triveneta dei Consigli degli Ordini degli Avvocati il 4 luglio 2024 (10^ incontro del ciclo di seminari sul linguaggio e la scrittura nei processi).