1- Saluti

Buon pomeriggio a tutti.

Saluto e ringrazio gli organizzatori del Convegno, e mi unisco, insieme a tutti i partecipanti, al ricordo degli Avv.ti Leopoldo e Francesco Mazzarolli, alla memoria dei quali è dedicata l’odierna giornata di studio.

Saluto e ringrazio in modo particolare l’avv. Primo Michielan, per avermi invitato a presiedere la sessione pomeridiana di questa importante iniziativa di approfondimento e di confronto sul provvedimento legislativo di maggiore rilevanza pratica del momento, che involge da vicino gli interessi e le posizioni di gran parte dei cittadini italiani, ed a svolgere la relazione conclusiva.

Per me è un onore ed un privilegio essere qui tra Voi.

Devo confessare che è la prima volta che assumo questo ruolo presidenziale, al di fuori di un’Aula di udienza, in una dimensione convegnistica che non conosco abitualmente.

Vi chiedo scusa in anticipo per tutte le mie inadeguatezze.

 

2- Premessa (inquadramento storico-giuridico)

Prima di entrare nel merito delle considerazioni strettamente attinenti all’oggetto del tema odierno, vorrei fare una premessa di carattere generale.

La Regione Veneto, per quanto riguarda la materia della tutela del territorio nell’interesse delle generazioni future e del consumo di suolo, ha giocato d’anticipo rispetto alle altre Regioni d’Italia e rispetto allo stesso Stato italiano.

La Regione Veneto è stata infatti una delle prime Regioni d’Italia, se non la prima in assoluto, ad affrontare tali questioni.

Ciò è avvenuto con la Legge regionale 6 giugno 2017, n. 14, con la quale è stato affermato che <<il suolo, risorsa limitata e non rinnovabile, è bene comune di fondamentale importanza per la qualità della vita delle generazioni attuali e future…>> (art. 1) e che <<il consumo di suolo è gradualmente ridotto nel corso del tempo ed è soggetto a programmazione regionale e comunale …, in coerenza con l’obiettivo comunitario di azzerarlo entro il 2050>> (art. 4).

Per la prima volta si parla in Italia di generazioni future e si introduce il concetto di responsabilità intergenerazionale in materia di territorio e ambiente (alla luce di quanto proclamato in ambito europeo dalla Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., Carta di Nizza del 7/12/2000).

Così come per la prima volta viene posto l’obiettivo di azzeramento totale del consumo di suolo entro il 2050 (in ossequio a quanto già affermato anche in tal caso in sede europea, dalla Commissione U.E. con la comunicazione del 20/9/2011, rivolta al Consiglio e al Parlamento, e poi ribadito varie volte in altri atti successivi), da realizzare gradualmente nel tempo, sulla base di misure di programmazione (attuate attraverso delibere della Giunta Regionale, che stabiliscono la quantità massima di consumo di suolo ammesso nel territorio regionale nel periodo considerato, ripartita tra i vari Comuni della Regione).

In realtà, bisogna anche dire che la L.R. n. 14/2017 prevede non poche deroghe al divieto di consumo di nuovo suolo, che ne compromettono le finalità complessive e che quindi andrebbero forse eliminate o ampiamente delimitate (come per gli interventi di edilizia produttiva di cui all’art. 12, p. 1, lett. d), L.R. n. 55/2012).

Tuttavia, rappresenta il punto di partenza verso una nuova visione della politica del territorio aderente alla mutata realtà globale, in cui, anche per i cambiamenti climatici in atto, occorre apprestare la massima cura al suolo e all’ambiente.

Nell’ordinamento statuale, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi nell’interesse delle generazioni future è stata espressamente introdotta, accanto alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico-artistico della Nazione, qualche anno dopo, nel 2022, con la legge costituzionale n. 1 dell’11 febbraio 2022 (che ha in tal senso integrato l’art. 9 della Costituzione, nonché l’art. 41).

Con tale legge di riforma costituzionale, la tutela dell’ambiente (che già formava oggetto di previsione costituzionale sotto forma di materia riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, ex art. 117, comma 2, lett. “s”, Cost.), viene ora contemplata ed annoverata tra i principi fondamentali della Costituzione (tra l’altro, è la prima volta nella storia della Repubblica che vengono modificati i Principi Fondamentali della Costituzione). La Repubblica <<tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni>> (art. 9, comma terzo, primo periodo, ora introdotto ex novo dalla riforma costituzionale).

L’art. 9, comma terzo, ha una formulazione ampia, che consente di individuare una duplice dimensione, oggettiva e temporale, della tutela apprestata: la tutela riguarda, sul piano oggettivo, il clima (che, anche se non viene espressamente menzionato, è implicitamente ed unitariamente ricompreso nelle diverse componenti dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi); in secondo luogo, sul piano temporale, la tutela è finalizzata a preservare e non deteriorare le condizioni di benessere climatico nel futuro, per le generazioni che verranno dopo di noi, al fine di consentire loro di avere sempre una possibilità di scelta.

La norma costituzionale indica al legislatore ordinario, nonché ai giudici ed agli amministratori pubblici chiamati ad applicare ed interpretare le norme, la strada da seguire in materia di territorio, di ambiente e di clima.

La nuova configurazione della tutela ambientale come principio fondamentale della Costituzione, fonte di precisi obblighi per lo Stato (anche nella prospettiva intergenerazionale), è stata peraltro ora espressamente accolta dalla Corte costituzionale con la sentenza 13 giugno 2024, n. 105.

Con tale sentenza è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma del codice di procedura penale nella parte in cui non era stato previsto, in relazione ad impianti produttivi di interesse strategico nazionale sottoposti a sequestro giudiziario per reati ambientali, un termine massimo di durata delle misure adottabili dal Governo per garantire il contemperamento dell’attività produttiva con la tutela della salute e dell’ambiente.

La Corte Costituzionale ha affermato che la riforma intervenuta nel 2022 vincola tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della efficace tutela del territorio e dell’ambiente anche nell’interesse delle generazioni future, sussistendo un preciso dovere delle generazioni attuali di preservare l’integrità dei beni tutelati dalla norma costituzionale.

Alla luce dei principi enucleati dalla Corte Costituzionale, ed in presenza di una norma della Costituzione che tutela in via diretta l’ambiente e gli ecosistemi anche in ottica intergenerazionale, appare sempre più evidente che ora le scelte normative e le opzioni interpretative debbano probabilmente essere improntate al principio del massimo rispetto per il territorio, sino ad arrivare all’obiettivo tendenziale, di matrice europea, dell’azzeramento totale del consumo di suolo.

 

3- Il D.L. “Salva Casa” (D.L. 29 maggio 2024, n. 69, conv. L. 24 luglio 2024, n. 105)

In questo contesto storico-giuridico, interviene il D.L. “Salva Casa” (D.L. 29 maggio 2024, n. 69, conv. L. 24 luglio 2024, n. 105), recante “disposizioni urgenti in materia di semplificazione urbanistica e edilizia”, al fine di rilanciare, attraverso la semplificazione delle procedure, il mercato delle compravendite immobiliari e di attuare obiettivi di riduzione del consumo di suolo e di rigenerazione urbana.

L’interrogativo di fondo che ci dobbiamo porre è se la nuova normativa si pone, con disposizioni chiare e precise, in linea con gli obiettivi da essa stessa predefiniti ed in continuità con i principi affermati dalla Costituzione ed elaborati dalla Corte Costituzionale, in materia di tutela del territorio e di contenimento di consumo di suolo.

La risposta, anche alla luce degli ampi approfondimenti svolti nella odierna giornata di studio, non sembra che possa essere del tutto positiva.

Le norme del D.L. Salva Casa vanno, in gran parte, in direzione opposta a quella auspicata, aumentando dubbi interpretativi o fornendo discipline concrete che in taluni casi sembrano destinate a produrre effetti pregiudizievoli per il territorio.

Un primo dubbio generale riguarda, a monte, la decretazione d’urgenza.

Il motivo dichiarato in sede governativa per giustificare l’adozione della decretazione d’urgenza è l’inerzia del Parlamento.

Ma il fatto che il Parlamento non legiferi sul punto non può legittimare il Governo ad intervenire in via surrogatoria, anzi è la dimostrazione che urgenza non c’era.

Una cosa è l’inerzia e altra cosa è la straordinaria necessità ed urgenza di provvedere.

Il Governo ha probabilmente usurpato una prerogativa del Parlamento.

Un secondo problema, strettamente connesso al primo, è quello della possibilità che attraverso la decretazione d’urgenza siano introdotte norme aventi carattere condonistico (come forse sono alcune norme del D.L. Salva Casa, tra cui, in particolare, il nuovo art. 34 ter, disciplinante le varianti ante Bucalossi).

Come è noto, la Corte Costituzionale (con la sentenza n. 196/2004), in relazione al terzo condono (reso con D.L. n. 269/2003, conv. L. n. 326/2003), in realtà ha già stigmatizzato l’uso della decretazione d’urgenza, ritenuta non appropriata alla delicatezza della materia. La Corte, peraltro, non ebbe a riscontrare alcuna violazione dell’art. 77 Cost. perché, in quel caso particolare (D.L. n. 269/2003), le norme sul condono edilizio erano state inserite in un decreto legge avente un contesto più ampio, di carattere economico-finanziario di rilevante interesse dello Stato (“Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”), tale da giustificare, secondo la Corte, la decretazione d’urgenza.

Tuttavia, nel nostro caso, il D.L. “Salva Casa” non è inserito in alcun contesto normativo più ampio di rilevante interesse economico-finanziario per lo Stato, ma è un atto legislativo autonomo e fine a sé stesso.

Un terzo problema, strettamente connesso al secondo, riguarda la possibilità che sia introdotto comunque, a prescindere dalla fonte formale (decreto legge o legge ordinaria), un nuovo, ennesimo, condono, oltre i primi tre già disposti nel passato.

In tal caso, sarebbe da superare il divieto di nuove normative condonistiche posto dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n. 427/1995 sul secondo condono) sotto il profilo dell’irragionevolezza della scelta di perpetuare nel tempo un ordinamento legislativo straordinario, diverso e contrapposto rispetto a quello ordinario (divieto superato [meglio dire: aggirato] dalla stessa Corte con la citata sentenza n. 196/2004 sul terzo condono, con la quale è stato ritenuto che il terzo condono presentasse elementi di discontinuità rispetto ai primi due, individuati dall’entrata in vigore, nelle more, del Nuovo Titolo V della Costituzione e dalla stabilizzazione della normativa edilizia statale avvenuta con il DPR 380/2001): motivazione questa che però potrebbe non valere nel nostro caso, in cui non è dato riscontrare la presenza di sopravvenuti elementi di discontinuità normativa.

Ebbene, il D.L. Salva Casa, in almeno due disposizioni, sembra davvero introdurre nuove fattispecie di condono edilizio.

Ci riferiamo al nuovo art. 34 ter, disciplinante le varianti ante Bucalossi, ed al comma 1 bis dell’art. 34 bis, disciplinante le tolleranze costruttive realizzate entro il 24 maggio 2024.

L’art. 34 ter, comma 1, prevede la regolarizzazione degli interventi eseguiti in parziale difformità rispetto a titoli edilizi rilasciati prima della data di entrata in vigore della Legge “Bucalossi” (30/1/1977) e che non configurano tolleranze costruttive (salvo che l’amministrazione <<accerti l’interesse pubblico concreto e attuale alla rimozione delle opere>>, come previsto dal comma 3).

La Legge Bucalossi è presa a parametro temporale di riferimento perché è solo con tale legge che sono state disciplinate e graduate le variazioni (essenziali e non essenziali) rispetto ai titoli edilizi, con un differente regime giuridico. Prima della Legge Bucalossi, le varianti non erano disciplinate, e quindi erano tutte abusive.

Da notare, per incidens, che la norma in esame sembra in un certo senso essere improntata allo stesso intento regolarizzatorio che aveva mosso il legislatore della Regione Veneto con due disposizioni normative intervenute a breve distanza di tempo l’una dall’altra (L.R. n. 50/2019, artt. 1 e 2, e L.R. n. 19/2021, art. 7), con le quali aveva cercato di sanare le variazioni non essenziali relative a titoli rilasciati ante Bucalossi, nel primo caso prevedendone il recupero con una forma di sanatoria straordinaria tramite SCIA, e nel secondo semplificandone la dimostrazione dello stato legittimo attraverso il mero ricorso al certificato di abitabilità o di agibilità. Tuttavia, entrambe le norme regionali sono state poi dichiarate costituzionalmente illegittime dalla Corte Costituzionale (rispettivamente, con le sentenze n. 77/2021 e n. 217/2022): nel primo caso, è stato ritenuto che la regolarizzazione dell’abuso introdotta dalla norma regionale integrasse un’ipotesi di sanatoria straordinaria con un ambito di applicazione più ampio rispetto a quello stabilito dalle norme statali di principio (artt. 36 e 37 DPR 380), in quanto mancante del requisito della “doppia conformità”; nel secondo, per contrasto con il comma 1-bis dell’art. 9 bis DPR 380 (sulla prova dello stato legittimo, da fornire soltanto attraverso il ricorso ai titoli abilitativi ivi indicati), parimenti avente, secondo la Corte, natura di norma interposta, in quanto espressione di un principio fondamentale della materia edilizia, rientrante nella legislazione concorrente del territorio, <<che richiede una disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale>>.

Con l’art. 34-ter, adesso il legislatore statale prevede tout court la regolarizzazione di un’opera risalente nel tempo, dichiaratamente abusiva.

Si tratta di un abuso sostanziale, in quanto non coperto dal titolo edilizio all’epoca della sua realizzazione.

Si potrebbe quindi configurare l’introduzione di una forma (surrettizia) di condono (ancorata al dato temporale del 30 gennaio 1977), con tutti i problemi che ne scaturiscono, in termini di dubbi di costituzionalità.

Altra questione posta dalla norma in esame, riguarda la dimostrazione della data di realizzazione delle varianti.

Ai sensi del comma 2, <<nei casi in cui sia impossibile accertare l’epoca di realizzazione della variante mediante la documentazione …., il tecnico incaricato attesta la data di realizzazione con propria dichiarazione e sotto la propria responsabilità. In caso di dichiarazione falsa o mendace si applicano le sanzioni penali, …>>. Si tratta tuttavia di norma che desta forti perplessità, perché addossa sul (povero) tecnico di turno un onere probatorio che non si riesce a capire su quali basi oggettive possa essere assolto, perchè non si può fondare sull’esame degli atti (che per definizione mancano). È facile prevedere uno sviluppo del contenzioso su queste dichiarazioni, con risvolti anche penalistici (la cui eventualità probabilmente indurrà le parti a trovare tecnici benevolmente disposti ad affrontare tali rischi).

Analoga previsione è contenuta nel comma 3 dell’art. 36 bis per la prova della data dell’abuso oggetto del procedimento dell’accertamento di conformità ivi contemplato (che desta al riguardo analoghe perplessità).

Una seconda forma di condono edilizio, come dicevamo, è ipotizzabile per la norma (comma 1 bis dell’art. 34 bis), disciplinante le tolleranze costruttive realizzate entro il 24 maggio 2024.

Qui la norma stabilisce che, per gli interventi realizzati entro la suddetta data, le tolleranze costruttive (per quanto riguarda l’altezza, la cubatura, la superficie coperta) sono riparametrate in misura inversamente proporzionale alla superficie utile: minore è la superficie dell’unità immobiliare, maggiore è lo scostamento consentito (fino ad arrivare al 6% di tolleranza per superfici inferiori ai 60 mq.).

La tolleranza, in tal caso, superando il limite ordinario del 2% stabilito dal comma 1, potrebbe configurare una forma surrettizia di condono per l’eccedenza, la cui realizzazione è ancorata al dato temporale del 24 maggio 2024 (data che non ha alcuna logica giuridica evidente, in quanto si tratta semplicemente della data in cui lo schema di decreto legge è stato portato all’esame del Consiglio dei Ministri).

Quasi tutte le altre norme del D.L. “Salva Casa” comportano notevoli problemi interpretativi ed applicativi, come ampiamente dimostrato dalle relazioni odierne.

Tra tali norme, spicca sicuramente il nuovo art. 36 bis (“Accertamento di conformità nelle ipotesi di parziali difformità e di variazioni essenziali”).

Il comma 4 della norma in esame, nel prevedere l’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica anche quando siano stati creati incrementi plano-volumetrici, si pone in evidente distonia con l’art. 167 D. Lgs. n. 42/2004, che prevede tale possibilità di sanatoria soltanto per le opere eseguite in area vincolata che NON abbiano comportato la creazione di nuove superfici o nuovi volumi o aumento di quelli legittimamente assentiti.

La distonia riguarda anche la diversa configurazione del silenzio dell’autorità competente. L’art. 167, infatti, prescrive che l’autorità competente debba pronunciarsi entro il termine perentorio di 180 giorni (previo parere vincolante della Sovrintendenza da esprimersi entro il termine perentorio di 90 GIORNI), ma non contempla alcuna fattispecie di Silenzio Assenso (né di Sil. Rigetto).

Tuttavia, come oggi evidenziato dal Prof. Breganze, la giurisprudenza del Consiglio di Stato, che in un primo momento aveva ritenuto in tal caso formarsi un’ipotesi di silenzio rifiuto, emendabile con il rimedio di cui all’art. 31 c.p.a. (C.d.S., Sez. VI, n. 895/2019), ha poi mutato orientamento, ritenendo che alla fattispecie fosse applicabile la generale previsione di cui all’art. 17 bis L. n. 241/1990 e che quindi fosse configurabile un’ipotesi di Silenzio Assenso (C.d.S., Sez. VII, 2/2/2024, n. 1093, che ha richiamato il precedente costituito da C.d.S., Sez. IV, 2/10/2023, n. 8610, in relazione all’art. 146 D. Lgs. n. 42/2004).

Vorrei comunque evidenziare ulteriori difficoltà interpretative della norma in esame, in relazione a due profili in particolare:

1) il primo, concernente la differenza tra disciplina urbanistica e disciplina edilizia;

2) il secondo, riguardante il rapporto tra le variazioni essenziali su immobili sottoposti a vincolo (disciplinate dall’art. 32, comma 3) e l’accertamento postumo di compatibilità paesaggistica di cui al comma 4 dell’art. 36 bis.

Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre rilevare che fino ad ora, con la vigenza del solo art. 36 (che prevedeva la doppia conformità contestuale, sia alla disciplina urbanistica che a quella edilizia), non si era mai posta una reale necessità di capire con precisione a che cosa si riferisse l’una e a che cosa l’altra. Ma adesso che, con il nuovo art. 36 bis, i due concetti formano oggetto di una differente valutazione sul piano temporale, bisogna evidentemente delimitarne con esattezza i contenuti applicativi.

In mancanza di qualificazioni definitorie da parte del legislatore del 2024, dobbiamo probabilmente fare riferimento a quanto desumibile dal sistema.

Ci può essere d’aiuto la legge n. 1150/1942, la quale prevede, all’art. 4 (rubricato “Piani regolatori e norme sull’attività costruttiva”, norma ancora in vigore), che <<La disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori e delle norme sull’attività costruttiva edilizia>>.

In base a questa norma, la disciplina urbanistica comprende sia la normativa di PRG sia la normativa sulle costruzioni edilizie.

Le norme regolatrici dell’attività costruttiva edilizia (CAPO IV, Titolo II), comprendono l’obbligo per chi vuole costruire di chiedere la licenza edilizia (art. 31), nonché il dovere dell’autorità comunale di vigilare sulle costruzioni (art. 32) ed il potere di fissare le regole dell’attività edilizia mediante i regolamenti edilizi comunali (art. 33).

I regolamenti edilizi rientrano dunque nell’attività costruttiva edilizia e quindi, a fortiori, nella disciplina urbanistica.

L’art. 33 è stato abrogato dal DPR 380, ma è stato riprodotto nel nuovo art. 4, che non ne ha cambiato i contenuti sostanziali.

La conformità urbanistica sembra quindi ricomprendere una doppia valutazione, sia sulle norme di PRG che sulle norme dei regolamenti edilizi comunali.

La conformità edilizia attiene, invece, come ci dice il comma 3 dell’art. 36 bis, <<alle norme tecniche vigenti al momento della realizzazione dell’intervento>>.

Quali sono però queste norme tecniche?

In mancanza di una espressa definizione da parte della norma, dobbiamo probabilmente interrogarci sulla sua ratio, che appare essere quella di verificare la realizzazione “a regola d’arte” dell’immobile da sanare: l’importante, nella logica del 36 bis, è che il manufatto, all’epoca della sua realizzazione, pur se sostanzialmente abusivo, sia stato fatto bene, di modo tale che ne sia assicurata la stabilità e la sicurezza. Poi adesso, se consentito dalle norme urbanistiche vigenti, può essere sanato.

Le <<norme tecniche vigenti al momento della realizzazione dell’intervento>> sono quindi, probabilmente, quelle che regolano la sicurezza delle costruzioni (cioè le Norme Tecniche delle Costruzioni a tal fine stabilite dalla pertinente normativa ministeriale: attualmente, il D.M. MIT 17/1/2018).

Per quanto riguarda il secondo aspetto (variazioni essenziali su immobili sottoposti a vincolo ex art. 36 bis), occorre rilevare che, in sede di conversione, è stato leggermente modificato il comma 3 dell’art. 32, con la previsione che tutti i suddetti interventi integranti variazioni essenziali, se realizzati su immobili sottoposti a vincolo storico, artistico, architettonico, archeologico, paesistico, ambientale e idrogeologico, sono considerati in totale difformità dal permesso di costruire, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 31 (demolizione finalizzata all’acquisizione) e 44 (sanzioni penali).

Apparentemente, la norma in esame, nel disporre l’equiparazione tra variazione essenziale realizzata su immobile vincolato e intervento in totale difformità, sembrerebbe escludere che tale tipologia di abuso possa giovarsi della procedura di cui all’art. 36/bis, che riguarda solo le parziali difformità e le variazioni essenziali (non anche le totali difformità).

Tuttavia, potremmo dare anche una diversa lettura.

In primo luogo, la norma limita la configurazione delle variazioni essenziali come interventi in totale difformità (ove riguardanti immobili vincolati), solo <<ai fini di cui agli artt. 31 e 44>>, non anche per quelli di cui all’art. 36 bis. Sul piano strettamente letterale, l’interprete non sembra pertanto vincolato ad escludere, ai fini di cui all’art. 36 bis, le variazioni essenziali riguardanti immobili vincolati.

In secondo luogo, sul piano logico-giuridico, se la variazione essenziale realizzata su immobile vincolato non potesse giovarsi dell’art. 36 bis, allora non sarebbe spiegabile la ragione per la quale il comma 4 del medesimo art. 36 bis (che si riferisce testualmente anche alle variazioni essenziali) ne ha previsto in ogni caso l’accertamento di compatibilità paesaggistica. L’art. 36 bis, sotto tale profilo, sembra porre una disciplina speciale derogatoria e prevalente su quella generale di cui all’art. 32 comma 3, per cui la variazione essenziale su immobile vincolato, anche se si configura, agli effetti di cui agli artt. 31 e 44, come intervento in totale difformità, non muta natura giuridica ai fini di cui all’art. 36-bis e quindi può usufruire dell’accertamento di conformità ivi previsto.

La verità è che le due norme non sono ben coordinate tra di loro e questo perché entrambe sono state (frettolosamente) modificate in sede di conversione.

L’accertamento di conformità di cui all’art. 36 bis (con la possibilità dell’accertamento di compatibilità paesaggistica di cui al comma 4 per gli immobili vincolati) era stato inizialmente pensato solo per le parziali difformità (mentre le variazioni essenziali rimanevano nell’ambito di applicazione dell’art. 36): in relazione a questa ipotesi semplice, il tutto aveva un senso e le due norme quadravano perfettamente.

Con la dequotazione (in sede di conversione) delle variazioni essenziali in ambito di 36 bis, l’equilibrio è saltato, perché il 36 bis comma 4 ammette quello che il 32 comma 3 esclude.

Tra le norme che comportano rilevanti problemi interpretativi ed applicativi dobbiamo sicuramente annoverare l’art. 23 ter (“Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”).

La novità più importante è costituita dalla previsione di cui ai punti 1-ter e 1-quater, che pongono la seguente Regola Generale:

– il MdU tra tutte le categorie funzionali tranne quella rurale, è sempre consentito (con o senza opere, come specificato in sede di conversione) per gli immobili ricompresi nelle Zone Omogenee A, B, C. e non è assoggettato all’obbligo di reperimento di ulteriori aree per servizi di interesse generale previsti dal DM n. 1444/1968 e dalle disposizioni di legge regionale (standard urbanistici: attività collettive, verde pubblico, ecc.), né al vincolo della dotazione minima obbligatoria di parcheggi ex L. n. 1150/1942.

Le due disposizioni in esame prevedono tuttavia che il suddetto MdU è consentito:

– nel rispetto delle normative di settore e ferma restando la possibilità per gli strumenti urbanistici comunali di fissare specifiche condizioni.

È facile prevedere uno sviluppo del contenzioso amministrativo proprio in relazione all’individuazione concreta di tali limiti e alla loro idoneità o meno ad ostacolare il nuovo MdU.

È infatti vero che occorre comunque il rispetto delle normative di settore (ad esempio, leggi regionali in materia di Commercio), ma è anche vero che l’art. 23-ter prevede poi (al punto 3), che <<le Regioni adeguano la propria legislazione ai principi di cui al presente articolo, che trovano in ogni caso applicazione diretta, fatta salva la possibilità per le Regioni medesime di prevedere livelli ulteriori di semplificazione>>.

Se è così, anche le normative di settore regionali dovranno probabilmente essere adeguate alle previsioni della norma statale sul MdU (che hanno immediata applicazione).

Nella Regione Veneto, il MdU è disciplinato dall’art. 42 bis della L.R. n. 11/2004 (come introdotto dall’art. 5 L.R. n. 19/2021), in base al quale, tra l’altro, il MdU è consentito <<a condizione che sia garantito il rispetto degli standard previsti dallo strumento urbanistico, salva la possibilità qualora non siano reperibili gli spazi …, e il comune lo consenta, di prevederne la monetizzazione. I relativi proventi sono vincolati alla realizzazione dei medesimi standard su aree idonee esistenti nelle immediate adiacenze …>>.

Dovrà quindi, probabilmente procedersi ad un adeguamento di tale normativa regionale, che appare contrastante con quella statale in relazione alla configurazione (come obbligatoria nella prima e facoltativa nella seconda) degli standard (o sotto forma di aree da vincolare o sotto forma di monetizzazione).

Per quanto riguarda poi gli strumenti urbanistici comunali, questi, in base alla norma statale, possono fissare condizioni, non presupposti generali di applicazione del MdU.

Tra tali condizioni, la norma esemplificativamente contempla <<la finalizzazione del mutamento alla forma di utilizzo dell’unità immobiliare conforme a quella prevalente nelle altre unità presenti nell’immobile>> (comma 1 quater).

Ciò significa probabilmente che i Comuni non possono introdurre norme difformi da quelle statali in materia di MdU (coerentemente del resto con la previsione, contenuta nella stessa norma, della soggezione della legislazione regionale a quella statale, salva la possibilità di introdurre norme di ulteriore semplificazione, cioè di maggior favore), ma devono limitarsi a prevedere elementi di valutazione esterni alla nozione di MdU come configurata dalla norma statale, attinenti al contesto specifico del fabbricato in cui il mutamento si inserisce.

Si tratta peraltro di interpretazioni ad alto tasso di opinabilità, come dimostrato dal fatto che recentemente il Comune di Roma Capitale è intervenuto sul punto con una circolare (del 21 ottobre 2024), con la quale ha chiarito ai propri uffici interni che la deroga prevista dalla normativa statale in relazione all’obbligo di rispetto degli standard urbanistici può operare solo in carenza di specifiche disposizioni della pianificazione urbanistica. Ciò in quanto la norma statale, pur con una formulazione ritenuta ambigua (<<ferma restando la possibilità per gli strumenti urbanistici comunali di fissare specifiche condizioni>>), farebbe comunque salve le disposizioni della pianificazione urbanistica comunale in merito alle destinazioni d’uso e ai mutamenti di destinazione d’uso ammissibili. Nel caso del Comune di Roma, tali disposizioni sono presenti, per cui la normativa statale in deroga, secondo la circolare, non sarebbe applicabile.

Sarà evidentemente solo l’elaborazione giurisprudenziale a chiarire gli ambiti applicativi e le possibilità derogatorie di tale norma.

 

4- Conclusioni

La prima finalità dichiarata del D.L. Salva Casa è quella di risolvere il problema della commerciabilità degli immobili affetti da difformità non sanate, rispetto alle quali manca un reale interesse pubblico alla rimozione dell’abuso, al fine di rilanciare il mercato della compravendita immobiliare per far fronte al crescente fabbisogno abitativo.

Tuttavia, come emerso dalle relazioni odierne ed in particolare da quanto ci ha illustrato il Notaio Prof. Ceolin, questo forse non è più un problema così ampio e pertinente, in quanto la commerciabilità degli immobili, in base all’approdo ermeneutico costituito dalla sentenza Cass. SS.UU. n. 8230/2019, è esclusa (e l’atto è nullo) solo se manca nell’atto traslativo la dichiarazione della parte alienante degli estremi del titolo edilizio abilitativo dell’immobile. In presenza di tale dichiarazione, il contratto è comunque valido, a prescindere da ogni discorso sulla conformità o difformità dell’immobile rispetto al titolo abilitativo.

La seconda finalità dichiarata, è quella di apprestare misure atte a realizzare obiettivi di recupero e riutilizzo del patrimonio edilizio esistente, di riduzione del consumo di suolo, di rigenerazione urbana.

Si tratta, all’evidenza, di una finalità di carattere generale tesa ad attuare un intervento organico in materia edilizia ed urbanistica.

Finalità giusta e coerente con i cambiamenti di tutti i tipi che caratterizzano l’evoluzione storica della nostra società e con l’adattamento che il diritto deve continuamente effettuare per non trovarsi inadeguato ed impreparato a governare i nuovi fenomeni.

In questo momento storico, infatti, l’urbanistica è profondamente cambiata rispetto al recente passato. Negli anni del dopoguerra, l’urbanistica era una attività in espansione (per motivi economici, sociali, demografici e di sviluppo urbano delle grandi città). La legislazione urbanistica era la proiezione di quel momento storico.

Adesso non è più così.

Oggi non c’è più territorio da consumare, ma da rigenerare.

Gli obiettivi principali sono la riduzione del consumo di suolo, la rigenerazione urbana, il recupero del patrimonio edilizio esistente, l’efficientamento energetico degli edifici, la sicurezza antisismica.

Tutte le forze politiche hanno nei propri programmi i temi dell’edilizia, del recupero edilizio, della rigenerazione e del consumo di suolo.

È un tema nazionale.

Possiamo dire che effettivamente sussiste, rispetto ad una legislazione in materia urbanistica ed edilizia risalente nel tempo e caratterizzata da interventi tampone stratificatisi nel tempo, l’esigenza di nuove normative di carattere generale e unitario che diano risposte concrete ai problemi attuali.

Tuttavia, a fronte di tali esigenze, sono state introdotte con il D.L. “Salva Casa”, potremmo dire per l’ennesima volta (e peraltro con decretazione d’urgenza), ulteriori norme tampone, volte a regolamentare situazioni specifiche, senza un disegno unitario.

Inoltre, come si è visto dalle relazioni odierne, tutto ciò è avvenuto con enormi problemi interpretativi ed applicativi nei vari settori oggetto di intervento normativo, con grave vulnus dei principi di legittimo affidamento e di certezza del diritto, ma anche di tutela del suolo e dell’ambiente e più in generale dell’interesse dell’intera collettività.

Esemplificativamente:

– Art. 23 ter: con il D.L. Salva Casa, i Mutamenti di destinazione d’uso vengono ammessi praticamente in maniera indiscriminata, perché sono eliminati gli standard e i parcheggi, che sono presidio di ordinata regolamentazione delle attività umane sul territorio urbano. La considerazione dell’interesse generale della collettività, in relazione a tali profili, si mostra molto bassa, a tutto vantaggio dell’interesse dei privati proprietari. Inoltre, la normativa regionale deve sottostare a quella statale: il legislatore statale da regolatore della pianificazione diventa pianificatore. In un contesto storico caratterizzato dall’emancipazione delle autonomie, lo Stato entra a gamba tesa sulle prerogative delle Regioni e dei Comuni.

– Art. 24: nelle more della definizione dei requisiti igienico sanitari ai fini del certificato di agibilità (che risalgono al D.M. Sanità del 5/7/1975, non più modificato), sono state diminuite le altezze e le superfici degli appartamenti. Potremmo dire che invece di ridurre il consumo di suolo, lo Stato riduce gli appartamenti.

– Art. 34 ter: si introduce una forma surrettizia di condono per le varianti ante Bucalossi.

– Art. 36 bis: non sono chiari gli ambiti della conformità urbanistica e della conformità edilizia; è dubbia l’applicabilità del 36 bis per le variazioni essenziali su immobili vincolati; nel disciplinare aspetti urbanistico-edilizi, si incide fortemente sulla materia paesaggistica e si sterilizza il 167 D.Lgs. n. 42/2004, con la previsione della possibilità di accertamento di compatibilità paesaggistica ex post anche per incrementi plano-volumetrici.

Il giudizio sul D.L. Salva Casa, nonostante tutto, non può essere completamente negativo.

Ci sono infatti degli aspetti sicuramente positivi, come l’alleggerimento del regime probatorio dello stato legittimo degli immobili, che va incontro alle esigenze di una più facile circolazione dei beni, o l’introduzione della monoconformità urbanistica nel nuovo art. 36 bis, che riprende un orientamento sostanzialistico favorevole del Consiglio di Stato, addirittura risalente a una lontana pronuncia dell’Adunanza Plenaria (n. 5/1974) e che forse dovrebbe a questo punto essere esteso anche al sistema di cui all’art. 36.

Altri aspetti positivi, sono anche l’introduzione, nel procedimento ex art. 36 bis, della sanatoria condizionata per assicurare l’osservanza della normativa tecnica in materia di sicurezza e dell’autorizzazione sismica in sanatoria, nonché la configurazione del silenzio non più come silenzio rifiuto, ma come silenzio-assenso, in linea con la giurisprudenza più recente del Consiglio di Stato formatasi in relazione al silenzio di cui all’art. 167 D.Lgs. n. 42/2004 e con riferimento alla convergente ipotesi di cui all’art. 146 D.Lgs. n. 42/2004.

Potremmo menzionare, in un’ottica di semplificazione e di bilanciamento tra interesse privato e interesse pubblico, anche la cd. agibilità sanante (di cui all’art. 34-ter, comma 4) che comporta l’assoggettamento delle parziali difformità, accertate ma non sanzionate (e per le quali sia stato rilasciato il certificato di agibilità), al regime delle tolleranze costruttive.

Ma è anche vero che le nuove prospettive di sviluppo urbano, rivolte soprattutto al ripristino, alla rigenerazione, agli interventi sul patrimonio edilizio esistente, richiedono un quadro legislativo unitario ed organico, tramite legge dello Stato, dell’edilizia e urbanistica.

Il Decreto Salva Casa rappresenta un primo tentativo di riforma in questa direzione e può valere come testa di ponte per il futuro, ma non assolve alle esigenze presenti.

L’uso smodato del territorio dal dopoguerra ad oggi ha esaurito le nostre possibilità di espansione urbanistica.

Non c’è più territorio da urbanizzare, siamo in recessione demografica, c’è un’inversione di tendenza nello sviluppo delle grandi città (a favore delle città medio piccole e dei paesi, considerati più a misura d’uomo e quindi più vivibili).

Noi siamo adesso la generazione futura delle generazioni che ci hanno preceduto.

Se i nostri genitori ed i nostri nonni fosse stati più accorti nella gestione e nell’utilizzo del territorio e dell’ambiente, non ci saremmo trovati nell’attuale situazione.

Il cambiamento climatico, in gran parte antropogenico, in quanto causato dall’uomo, ha fatto il resto.

Abbiamo sempre minori possibilità di scelta.

Le nostre scelte in materia di uso del territorio si stanno sempre più limitando nel loro raggio d’azione rispetto a quelle che hanno avuto le precedenti generazioni nel recente passato.

Dobbiamo evitare che le prossime generazioni future, quelle dei nostri figli e dei nostri nipoti, non abbiano più alcuna possibilità di scelta.

Abbiamo il dovere di consegnare loro un territorio bello, sano, fertile, armonioso ed equilibrato.

In conclusione, non vogliamo che le prossime leggi sull’edilizia e l’urbanistica le scriva l’Intelligenza Artificiale, come pure qualche Autore ha detto, ma che le scriva un’Intelligenza Umana capace e competente, e che soprattutto lo faccia nell’interesse vero dell’Italia e degli italiani.

Grazie per l’attenzione e buona serata a tutti.

Leonardo Pasanisi

 

*Relazione conclusiva svolta al XXV Convegno di Studio tenutosi il 29 novembre 2024 a Castelfranco Veneto sul tema “La riqualificazione urbana e la mini-sanatoria edilizia ex D.L. n. 69/2024, conv. in Legge n. 105/2024, Decreto Salva Casa”, organizzato dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti, in ricordo del Prof. Avv. Leopoldo Mazzarolli e in memoria dell’avv. Francesco Mazzarolli

 

 

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