Come si vedrà subito in dettaglio, il codice dei beni culturali non richiede alcun requisito soggettivo in capo all’impresa che esegue materialmente lavori di manutenzione ordinaria o straordinaria o anche di trasformazione di un bene, in conformità alla  necessaria (quella ovviamente sì) autorizzazione ex art. 21 d.lgs. 42/04. Precisiamo che ci si ai lavori materiali (non progettuali) che non interessino parti incorporate nell’edificio che presentino in sé valore artistico riconosciuto come fonte del vincolo, quali affreschi, statue, stucchi, decorazioni lignee, ecc.. Pensiamo, al contrario, agli interventi sulle parti spiccatamente e “ordinariamente” murarie, come il tetto, i muri portanti, le aperture, i pavimenti. In effetti, sono numerosi i beni di proprietà privata sottoposti a vincolo monumentale (artt. 10, comma 1, e 12 d.lgs. 42/04) pur non presentando particolari elementi di pregio, né singolari (es. affreschi) né complessivi (villa veneta o toscana). Basti, in effetti, pensare, che i vincoli permangono anche in caso di vendita, come avviene nel caso degli immobili di proprietà pubblica che sono vincolati per il solo fatto essere appartenuti alla pubblica amministrazione e di risalire ad un data di costruzione di una certa anteriorità (ora 70 anni): in caso di vendita, come risulta chiaramente dall’art. 55, d.lgs. 42/04, il vincolo si trasmette all’acquirente, che rimane soggetto a limitazioni e prescrizioni contenute nell’autorizzazione alla cessione, anche se l’edificio, una volta passato dalla mano pubblica a quella privata, non presenta né sul piano statico-architettonico-monumentale, né sul piano dinamico-funzionale di conservazione o valorizzazione.

Sta al ministero, in sede di autorizzazione, alleggerire le restrizioni in relazione al valore dell’immobile, fino anche alla sostanziale eliminazione.

D’altro canto, non è previsto espressamente alcun procedimento di rimozione di vincoli monumentali, non solo per quelli imposti per legge (art. 10, comma 2, in forza dell’art. 13, comma 1, d.lgs. 42/04) ma nemmeno per quelli derivanti da provvedimento amministrativo di dichiarazione espressa di interesse culturale (art. 13). La revoca di carattere generale appare di difficile applicabilità, richiedendo un interesse pubblico, come tutti i provvedimenti amministrativi ma la revoca beneficerebbe solo il privato. Analogamente, per il vincolo paesaggistico, dove alla rimozione è dedicata una norma speciale, limitata (come risulta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 135/22) si esclude l’operatività di un “principio di irrevocabilità” del vincolo ma non a caso è intervenuta la Corte per escluderlo ed è sicuramente in salita il provvedimento di rimozione di un vincolo pure agli effetti paesistici.

Come si accennava, e come risulta in particolare dal disposto degli artt. 9 bis e 29 del codice dei beni culturali, non vi sono previsioni di requisiti per gli operatori affidatari di lavori “murari” su edifici privati (ed invero, nel codice dei beni culturali medesimo, nemmeno pubblici).

Al contrario, nel codice dei contratti pubblici, in caso di committenza pubblica. è pacifica la necessità della qualificazione dell’esecutore dei lavori: la qualificazione è prevista e regolata specificamente dall’allegato II.18 “Qualificazione dei soggetti, progettazione e collaudo nel settore dei beni culturali”.

Proprio tale allegato del codice dei contratti pubblici, al contrario del codice sui beni culturali, nell’occuparsi di lavori su beni culturali, e della qualificazione necessaria, fa riferimento ai lavori svolti per conto di “committenti privati o in proprio”. La norma suggerisce una verifica del portato di tale previsione rispetto al tema della verifica della sussistenza o meno di un obbligo di qualificazione.

Esaminando in dettaglio il codice dei beni culturali per dimostrarne “l’indifferenza” rispetto al tema dei lavori puramente edilizi, si può notare che all’interno del codice medesimo, di requisiti soggettivi di esecutori di lavori sui beni predetti, a prescindere dalla relativa proprietà, parla, anzitutto, l’art. 9 bis, inserito dalla l. 110/2014, che richiede la responsabilità e l’attuazione di lavori sui predetti beni, da parte di “archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, restauratori di beni culturali e collaboratori restauratori di beni culturali, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte, in possesso di adeguata formazione ed esperienza professionale”. Nessun riferimento alla qualificazione SOA, notoriamente prevista e regolata dalla normativa sui contratti pubblici di appalto e concessione, sulla quale ci si soffermerà sotto.

La norma è significativa già nella sua rubrica, nella quale si fa riferimento a “professionisti” da coinvolgere in interventi su beni culturali, espressione (“professionisti”) che non allude certo alle figure che attuano lavori edilizi di manutenzione di edifici ma semmai agli specialisti, come si ricava dall’elenco dei professionisti stessi formulato nella norma, che intervengono in fasi dei lavori o in operazioni autonome che non hanno nulla a che fare con le attività comunemente identificate come edilizie, il cui concetto si chiarirà per esclusione,  a seguito dell’esame delle lavorazioni soggette non (secondo il codice in esame) alla qualificazione SOA ma alla qualificazione professionale di determinate figure che devono necessariamente intervenire in presenza di elementi correlati alle singole professionalità (es. l’archeologo interviene in presenza di elementi che inducono a ritenere l’ambito di interesse archeologico; il restauratore, in presenza di affreschi o beni mobili, ecc.).

Il riferimento a professionisti “intellettuali” e non ad operatori materiali risulta confermato dalla guida predisposta dal Ministero della Cultura- Direzione generale Educazione, ricerca e istituti culturali-Servizio I – Ufficio Studi- 2^ ed. aggiornata a luglio 2021, espressamente indicata  come attuativa  dell’art. 9 bis d.lgs. 42/04. Vi si legge: “L’articolo 9 bis fa riferimento agli operatori delle professioni già regolamentate: nell’ambito dei professionisti indicati, tra le professioni regolamentate rientrano i restauratori di beni culturali e i collaboratori restauratori di beni culturali, oggi tecnici del restauro di beni culturali. Queste categorie sono soggette a una disciplina più rigida: si intende infatti per professione regolamenta l’attività, o l’insieme delle attività, il cui esercizio è consentito solo a seguito di iscrizione in Ordini o Collegi o in albi, registri ed elenchi tenuti da amministrazioni o enti pubblici.

Le altre professioni, archeologi, archivisti, bibliotecari, demoetnoantropologi, antropologi fisici, esperti di diagnostica e di scienze e tecnologia applicate ai beni culturali e storici dell’arte, che non esauriscono il vasto panorama delle professioni dei beni culturali, ma che sono state individuate perché si esercitano in maniera esclusiva sul patrimonio culturale, rientrano invece nella categoria della formazione regolamentata, una formazione che, secondo le prescrizioni vigenti, è specificamente orientata all’esercizio di una determinata professione e consiste in un ciclo di studi completato, eventualmente, da una formazione professionale, un tirocinio professionale o una pratica professionale, secondo modalità stabilite dalla legge”. Chiara, si ribadisce, l’esclusione di  imprese esecutrici di lavori.

Quanto al profilo oggettivo, delle attività identificate dalla norma predetta come soggette alla necessaria “responsabilità e attuazione” da parte di “professionisti”, si rileva che la norma parla genericamente di “interventi operativi di tutela, protezione e conservazione dei beni culturali nonche’ quelli relativi alla valorizzazione e alla fruizione dei beni stessi”. Tra questi “interventi” rientra evidentemente anche quello di manutenzione a fini di ripristino della funzione residenziale ma la tipizzazione delle professionalità il cui coinvolgimento è imposto dalla norma esclude in maniera evidente, per specchiate ragioni logico-testuali, la riferibilità della necessità del coinvolgimento stesso dei professionisti per tutto l’arco di lavori/interventi, richiedendolo solo per le fasi coerenti con le professionalità o per interventi autonomi connessi alla singola professionalità (es. il restauro di un affresco non richiede di certo l’intervento di impresa edile).

Infine, il citato art. 9 bis fa richiamo alle “professioni regolamentate” ulteriori rispetto a quelle menzionate. Anche tale richiamo esclude l’interessamento di imprese edilizie.

Altra norma rilevante in relazione ai requisiti soggettivi di operatori che intervengano su beni culturali è quella dell’art. 29 del medesimo codice.

Da tale disposizione e in particolare dal comma 6, si ricava, ad avviso di chi scrive, il quadro puntuale e specifico dell’ambito oggettivo di interventi su edifici vincolati rispetto al quale è richiesta dal codice una connotazione “soggettiva” degli operatori, pure da essa desumibili. In altre parole, si ricava da tale norma l’indicazione di quali interventi su beni culturali richiedono operatori specializzati e di quale specializzazione si tratti (esclusa comunque, diciamo subito, la SOA, mai menzionata).

La norma dispone: “6. Fermo quanto disposto dalla normativa in materia di progettazione ed esecuzione di opere su beni architettonici, gli interventi di manutenzione e restauro su beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici sono eseguiti in via esclusiva da coloro che sono restauratori di beni culturali ai sensi della normativa in materia”.

Va anzitutto notato che “beni architettonici” non è locuzione che riceva una definizione nel codice. Per tali, devono intendersi “edifici” oggetto di vincolo, in tutto o in parte. La norma, parlando di beni architettonici, si attaglia al caso qui di interesse. Orbene, in relazione a tale ambito di interventi/lavori (quelli incidenti su edifici vincolati), la qualificazione è richiesta solo per la manutenzione e il restauro di beni culturali “mobili” e di “superfici decorate”. Tali interventi, di manutenzione e restauro, sono eseguiti (non solo diretti o svolti sotto responsabilità) di restauratori di beni culturali.

Priva di qualsiasi rilevanza giuridica è la prescrizione per la quale resterebbe “Fermo quanto disposto dalla normativa in materia di progettazione ed esecuzione di opere su beni architettonici”, relativamente all’esecuzione. La disposizione ha senso invece in relazione alla progettazione, pure richiamata dalla stessa, alludendosi chiaramente alla riserva di competenza in parola (progettazione) a favore di “architetti”, con esclusione di competenza (progettuale) di altri professionisti, compresi gli ingegneri.

Ci si riferisce all’indirizzo giurisprudenziale che riserva, per l’appunto, ad architetti l’attività suddetta: “La riserva prevista dall’art. 52, comma 2, r.d. n. 2537 del 1925 a favore degli architetti delle opere di edilizia civile che presentano rilevante carattere artistico e del restauro e ripristino degli edifici di interesse storico artistico sussiste per ogni tipologia di intervento su immobili gravati da vincolo storico-artistico, ad eccezione delle attività propriamente tecniche di edilizia civile per le quali il citato art. 52 prevede la competenza anche degli ingegneri; la competenza degli architetti si estende anche agli interventi realizzati su immobili non assoggettati a vincolo quando presentino ‘rilevante interesse artistico’” (T.A.R. Napoli, (Campania) sez. I, 05/06/2018, n.3718).

Il riferimento ai beni mobili dopo quello ai beni architettonici (richiamati come oggetto della competenza specifica alla progettazione ed esecuzione), fa ritenere che i beni mobili a cui ci si riferisce nel contesto della norma siano quelli pertinenziali rispetto a beni architettonici. In ogni caso, che siano pertinenziali o meno, di certo nella fattispecie non vengono in rilievo siffatti beni (mobili) e quindi non scatta il primo presupposto della necessaria qualificazione soggettiva dell’esecutore dei lavori di manutenzione e restauro. In ogni caso, si ribadisce, la qualificazione soggettiva è quella di restauratore e non ha niente a che fare con quella di imprese edili regolata dal codice di contratti pubblici e traducentesi in certificazioni di “società organismo di attestazione – SOA”.

La conferma della restrizione, allo stato, in attesa di interventi normativi “forse” preannunciati dal d.lgs. 42/04 ma di certo  non intervenuti sul punto,  al restauro o manutenzione di  mobili e al  restauro di  pareti affrescati di una qualificazione necessaria, comunque non SOA, risulta  data dal modulo  predisposto dalla soprintendenza regionale veneta. In relazione alla voce  “impresa   esecutrice” la relativa  nota  esplicativa in calce n. 4  recita: “Ai sensi dell’art. 29 co.6 del d.lgs n. 42 del 2004 e s.m.i. gli interventi di manutenzione e restauro su beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici sono eseguiti in via esclusiva da coloro che sono restauratori di beni culturali ai sensi della normativa in materia”  (v. N_Modulo_art._21_Interventi_conservativi_volontari (beniculturali.it). Null’altro. Il modulo è identico a quello pubblicato  dalla soprintendenza del FVG, rispetto alla quale non è risultato reperibile un protocollo specifico che  risulta sottoscritto  dalla stessa con le rappresentanze regionali degli operatori dell’edilizia.

In conclusione, dal codice dei beni culturali si ricava che:

  1. La qualificazione “SOA”, in particolare quella di cui alle categorie OG 2, OS 2-A, OS 2-B, OS 25, non è richiesta da alcuna norma;
  2. La qualificazione soggettiva, diversa da quella rilasciata da SOA, è quella di restauratore per interventi di manutenzione e restauro di beni mobili e di affreschi ed è quella delle professioni liberali elencate nell’art. 9 bis, nessuna delle quali rileva agli effetti dei lavori edilizi su edifici vincolati (o beni architettonici).

§§§§

Quanto al codice dei contratti pubblici,  al quale si deve la disciplina della qualificazione SOA, si rileva quanto segue.

Il codice da poco abrogato, rappresentato dal d.lgs. 50/16, in scadenza al 30.6.2023, sostituito dal d.lgs. 36/23, si applica ai lavori (compresi quelli su beni culturali) affidati da amministrazioni aggiudicatrici.

In nessun caso si parla di lavori affidati da privati, salve le ipotesi del comma 2 dell’art. 1, qui non riscontrabili, non trattandosi di lavori di valore superiore ad euro 1.000.000 e finanziati per almeno il 50 % da amministrazioni aggiudicatrici.

Il codice attualmente vigente, recato dal d.lgs. 36/23, in vigore dal 1° luglio 2023, prevede la propria applicazione agli appalti e concessioni affidati da soggetti, pubblici o privati, tenuti comunque al rispetto del codice.

In nessuna norma del predetto d.lgs. 36 si rinviene una previsione che obblighi un soggetto privato ad affidare lavori scegliendo il contraente secondo le regole procedurali e soggettive (di qualificazione) contenute nel codice, ossia che obblighi al rispetto delle regole, tra l’altro, di concorrenza e di qualificazione necessaria degli esecutori  delle opere su beni culturali.

Orbene, il già citato art. 4, comma 3, dell’allegato II.18, che pure parla di lavori affidati (anche) da privati o eseguiti in proprio, si riferisce chiaramente al riconoscimento  dei lavori stessi ai fini del rilascio dell’attestazione di qualificazione nelle categorie che  interessano i lavori su beni  culturali   e cioè le categorie OG 2, OS 2-A, OS 2B, OS 24 e OS 25. La norma, infatti, è incentrata sulla “certificazione” che la soprintendenza competente  deve rilasciare all’esecutore  dei lavori affinchè il medesimo  possa far valere  l’esecuzione dei lavori “certificati” ai fini dell’attestazione di qualità in materia di lavori culturali da parte della società organismo di  attestazione – SOA: “Ai fini della  qualificazione  per  lavori  sui  beni  di  cui  al presente Titolo, relativi alle categorie OG 2, OS 2-A, OS 2-B, OS  24 e OS 25 di cui alla tabella A dell’allegato II.12 al codice, eseguiti per conto dei soggetti di cui all’ articolo 1, comma 1,  lettere  a), b), c), d) ed e), dell’allegato I.1 al codice, nonche’ di committenti privati o in proprio, quando i lavori hanno avuto a oggetto  beni  di cui all’articolo 1, comma 1, del presente allegato, la certificazione rilasciata ai soggetti esecutori  deve  contenere  anche  l’attestato dell’autorita’ preposta alla tutela del bene oggetto dei  lavori  del buon esito degli interventi eseguiti”. La norma, in sostanza, valorizza i lavori eseguiti correttamente per conto   anche di privati o addirittura in proprio (il  che rafforza il  convincimento dell’assenza di qualificazione soggettiva generale) e non solo di committenti pubblici, ai  fini della maturazione dei requisiti di qualificazione nelle categorie in discussione.

L’assenza di un obbligo di qualificazione sembra doversi affermare anche per la situazione peculiare dei beni culturali di proprietà pubblica oggetto di concessione di beni a favore di  privati. Posto che non va confusa la concessione di cui al codice dei contratti pubblici con la concessione “storica” di beni immobili, in funzione di attività privatistiche (es. ristorazione in immobili culturali), si può rilevare che il predetto codice dei contratti pubblici non parla dei concessionari di beni immobili ma solo della concessione a fini di realizzazione di opere o di espletamento di servizi, obbligando al rispetto delle norme del codice solo i concessionari (di lavori o servizi) che siano stazioni appaltanti (v. art. 186), e cioè che siano anche privati ma soggetti all’obbligo di rispettare il contratto. Si tratta invero di una evidente “spirale” non spiegata: il codice si applica obbligatoriamente ai privati obbligati ad applicarlo, senza che nessuna norma del codice (e nemmeno di altre fonti, come il codice del processo amministrativo) individui in nessun modo i presupposti dell’obbligo stesso.

Certo è che non si rinviene alcuna norma dell’ordinamento che obblighi i concessionari di beni immobili pubblici che siano soggetti privati al rispetto del codice dei contratti pubblici.

§§§

Posto  che né  il codice dei beni  culturali, né e tantomeno,  il codice  (o i codici,  neppure quello efficace dal 1° luglio 2023) prevedono un obbligo di  qualificazione qualsiasi per la mera esecuzione di interventi edilizi di  manutenzione o restauro  se  non di  pareti affrescate, si tratta  di esaminare  la questione se  sia legittima una eventuale prescrizione inserita  nel provvedimento di  autorizzazione  ai  lavori prevista  dall’art.  21 d.lgs. 42 (proprio  per la presentazione della  cui domanda è predisposto  il   modulo sopra  richiamato).

Al riguardo, si ritiene  che  sarebbe contra  legem e quindi illegittima l’imposizione dell’obbligo,  neanche se  motivato in  relazione a specifiche condizioni, che non siano già stata valorizzate  in  termini  di interventi   qualificati,  dall’atto  di  imposizione del vincolo. Si tratta eventualmente di una condizione che la soprintendenza qualifica come oggetto di una  valutazione di opportunità  da parte del  committente privato. Significativo il caso esaminato da Tar  Napoli N. 03718/2018, nel  quale, nell’autorizzazione ex art. 21, “l’amministrazione preposta alla tutela dei beni culturali rappresenta l’opportunità di affidare i lavori de quibus ad impresa qualificata per la categoria del restauro (OG2), dato l’interesse storico – artistico dell’immobile”.

Franco Botteon

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