Da molti anni lo Stato italiano litiga con la scadenza e con la messa a gara delle attuali concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali.

Il sistema nazionale, poggiante di fatto su un regime di proroghe legali nell’attesa di una revisione complessiva che non arrivava mai, si è scontrato con la Direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi del mercato interno (cd. “Direttiva Bolkestein”), segnatamente coll’articolo 12 (“Selezione tra diversi candidati”), comma 1, che qui conviene riportare: “Qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, gli Stati membri applicano una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un’adeguata pubblicità dell’avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento”.

L’applicazione diretta di questa regola alle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali italiane è fuori discussione almeno dal 14.7.2016, data della pubblicazione della ormai celebre sentenza della Corte di Giustizia nelle cause riunite C-458/14 e C-67/15 (caso “Promoimpresa”), pronunciata su rinvio pregiudiziale del TAR Lombardia e del TAR Sardegna. La conseguente scadenza delle concessioni in essere rilasciate senza gara è un dato di fatto incontrovertibile, dopo che sono falliti – perché regolarmente disapplicati dai Giudici nazionali – anche gli ultimi tentativi di prorogarle per legge (la legge di bilancio n. 145/2018 disponeva una proroga di 15 anni). In particolare, sono note le sentenze “gemelle” n. 17 e 18 del 2021, con cui l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha tumulato la proroga disposta con la legge n. 145/2018 e deciso che “Al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative in essere, nonché di tener conto dei tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedure di gara richieste e, altresì, nell’auspicio che il legislatore intervenga a riordinare la materia in conformità ai principi di derivazione europea, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E.”.

A causa anche della legge n. 145/2018, lo Stato italiano è di nuovo sotto procedura di infrazione dal 3 dicembre 2020.

La legge annuale per la concorrenza n. 118/2022 emanata all’epoca del Governo Draghi aveva saputo prendere atto della situazione: confermava la scadenza del 31 dicembre 2023, salvo proroga tecnica al massimo di un altro anno “In presenza di ragioni oggettive che impediscono la conclusione della procedura selettiva entro il 31 dicembre 2023, connesse, a titolo esemplificativo, alla pendenza di un contenzioso o a difficoltà oggettive legate all’espletamento della procedura stessa” (art. 3, commi 1 e 3),  e delegava il Governo a stabilire regole di gara nel rispetto di alcuni principi e criteri direttivi, fra i quali la “definizione di criteri uniformi per la quantificazione dell’indennizzo da riconoscere al concessionario uscente, posto a carico del concessionario subentrante”. Tema quest’ultimo da sempre caro a molti gestori – propensi a riferirlo alle intere “aziende” perché storicamente tramandate di padre in figlio e comprendenti sia le abilità e le tecniche di gestione, sia gli investimenti in attrezzature, know-how, servizi e immobili – e però finora sposato solo da alcune leggi regionali, fra cui la legge del Veneto n. 33 del 2002 (art. 54) e la legge n. 31/2016 della Toscana (art. 2), sonoramente bocciate dalla Corte Costituzionale sul duplice assunto che l’indennizzo, incidendo sulla concorrenza, è materia del tutto riservata allo Stato ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. e) Cost. e non può mai costituire una barriera per un concessionario entrante né un vantaggio per il concessionario uscente (Corte Cost., sentenze n. 222/2020 e n. 157/2017).

Ma il Governo Draghi è caduto, e la delega non è stata esercitata.

L’attuale Governo, vicino come e forse più di altri alle istanze dei concessionari, ha utilizzato il decreto-legge “milleproroghe” (29 dicembre 2022, n. 198, convertito dalla legge 24 febbraio 2023, n. 14) per tentare una ennesima proroga apparentemente annuale ma di fatto “a data da destinarsi” delle concessioni in essere (art. 10-quater, comma 3), subito disapplicata in sede giurisdizionale (Cons. Stato, VI Sezione, 1° marzo 2023, n. 2192), e per istituire un “tavolo tecnico” atto a dimostrare alla Commissione europea, attraverso una “mappatura”, che a livello nazionale non c’è “scarsità delle risorse naturali”, condizione per applicare l’articolo 12 della Direttiva Bolkestein.

L’intenzione neanche troppo velata del Governo era di “aprire” ai bandi di gara solo per i tratti di costa attualmente liberi da concessioni, senza toccare quelli attualmente assegnati.

Il “Tavolo tecnico” ha concluso i lavori in ottobre ed è riuscito a includere nel novero delle “risorse naturali disponibili” anche coste rocciose, aree militari, aviosuperfici, il totale dei porti con funzioni commerciali, il totale delle aree industriali relative ad impianti petroliferi e di produzione di energia, le aree marine protette e i parchi nazionali, e a concludere su queste basi che in Italia c’è ancora un 67% di spiagge libere da mettere a gara. Secondo Legambiente, per dire, il dato va rovesciato: in regioni come Liguria, Emilia-Romagna e Campania “quasi il 70% delle spiagge è occupato da stabilimenti balneari“, e molti Comuni la percentuale di occupazione degli stabilimenti supera il 90% delle spiagge presenti.

Sfortunatamente, la Commissione europea non ha gradito né la nuova proroga legale, né i dati forniti dal “tavolo tecnico”: con parere motivato del 16 novembre 2023, per quanto interlocutorio e con possibilità di replica (art. 258 TFUE), ha assestato al Governo uno schiaffo epocale.

Nel parere leggiamo per esempio che “tale percentuale del 33 % sembra riferirsi a una valutazione globale compiuta solo a livello nazionale, in quanto non vi è alcuna indicazione del fatto che il “Tavolo tecnico” abbia preso in considerazione le situazioni specifiche delle regioni (e del fatto che, come indicato dal Consiglio di Stato, “in molte Regioni è previsto un limite quantitativo massimo di costa che può essere oggetto di concessione, che nella maggior parte dei casi coincide con la percentuale già assentita”, nonché le situazioni di singoli comuni (in particolare quelli più turistici) in cui tutte le possibili aree sfruttabili commercialmente potrebbero già essere oggetto di concessioni)”.

Ancora: “Il documento prevede inoltre che “in una fase successiva, collegata al completamento della mappatura relativa al dato lacuale, fluviale e alla pianificazione degli enti locali, si potranno individuare nuovi criteri eventualmente rivalutando specifiche situazioni territoriali” (sottolineatura aggiunta). Non è chiaro, tuttavia, se e quando ciò sarà effettivamente realizzato”.

Infine, quasi una sentenza: “In conclusione, poiché i risultati del “Tavolo tecnico” non sembrano pertinenti e considerando, al contrario, gli elementi individuati dalla CGUE e dal Consiglio di Stato, è opportuno ribadire la posizione della Commissione illustrata nella lettera di costituzione in mora, nel senso che è evidente che, quanto meno per una parte delle proprietà demaniali marittime, lacuali e fluviali disponibili per le attività ricreative e turistiche in cui sono rilasciate ‘concessioni balneari’, esiste un elemento di scarsità”.

Nel frattempo, incerti sulla scadenza, gli enti concedenti, in prevalenza Comuni, sono andati avanti in ordine sparso. Alcuni hanno avviato i procedimenti di gara. Altri sono rimasti in attesa di novelle da Roma, magari finalmente di una riforma seria, di cui talora sentivano parlare. Altri ancora hanno avviato ma subito sospeso le gare.

Come previsto dalle regole della procedura di infrazione, l’interlocuzione fra Governo e Commissione è proseguita, di fatto a cavallo delle elezioni del nuovo Parlamento europeo.

Non ne sono noti gli esiti ufficiali. È noto invece che, in questa situazione caotica e di incertezza che ha finito col danneggiare per primi proprio i concessionari, il Governo ha emanato il decreto-legge 16 settembre 2024, n. 131 per introdurre l’ennesima proroga, stavolta fino al 30 settembre 2027, e però anche criteri di gara di diretta applicazione, fra i quali un indennizzo al concessionario uscente corrispondente agli investimenti non ammortizzati e a una non meglio precisata “equa remunerazione” degli investimenti fatti negli ultimi 5 anni.

In teoria dovrebbe trattarsi di un abbozzo di riforma settoriale, frutto, secondo alcuni, di una intesa con la Commissione europea.

Può darsi che lo sia – chi scrive non ne è così convinto – ma nei fatti sembra profilarsi l’ennesima fonte di incertezza per i Comuni e per gli operatori, a cominciare naturalmente dalla proroga legale (“continuano ad avere efficacia fino al 30 settembre 2027 ovvero fino al termine di cui al comma 3, qualora successivo” …), che il Governo ha introdotto pur sapendola in frontale contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE e dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato. Tant’è che, nel caso evidentemente ritenuto non così improbabile di altra disapplicazione della proroga, il Governo ha stabilito uno scudo penale per i concessionari (“Fino a tale data l’occupazione dell’area demaniale da parte del concessionario uscente è comunque legittima anche in relazione all’articolo 1161 del codice della navigazione”).

La proroga perciò riporta direttamente al dovere di disapplicare la norma interna in contrasto con quella euro-unitaria, dovere che ricade, per pacifico orientamento giurisprudenziale, tanto sui giudici quanto sulla pubblica amministrazione (art. 288, comma 3, del Trattato dell’Unione).

Non va molto meglio, anzi, per la nuova regolazione dell’indennizzo ai concessionari uscenti, da porre a carico di quelli subentranti.

La disposizione da esaminare è il comma 9 del nuovo art. 4 che il decreto-legge “trapianta” nella legge n. 118/2022. È il caso di armarsi di pazienza e di riportarla per intero: “In caso di rilascio della concessione a favore di un nuovo concessionario, il concessionario uscente ha diritto al riconoscimento di un indennizzo a carico del concessionario subentrante pari al valore degli investimenti effettuati e non ancora ammortizzati al termine della concessione, ivi compresi gli investimenti effettuati in conseguenza di eventi calamitosi debitamente dichiarati dalle autorità competenti ovvero in conseguenza di sopravvenuti obblighi di legge, al netto di ogni misura di aiuto o sovvenzione pubblica eventualmente percepita e non rimborsata, nonché pari a quanto necessario per garantire al concessionario uscente un’equa remunerazione sugli investimenti effettuati negli ultimi cinque anni, stabilita sulla base di criteri previsti con decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze da adottarsi entro il 31 marzo 2025. Il valore degli investimenti effettuati e non ammortizzati e di quanto necessario a garantire un’equa remunerazione, ai sensi del primo periodo, è determinato con perizia acquisita dall’ente concedente prima della pubblicazione del bando di gara, rilasciata in forma asseverata e con esplicita dichiarazione di responsabilità da parte di un professionista nominato dal medesimo ente concedente tra cinque nominativi indicati dal Presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Le spese della perizia di cui al secondo periodo sono a carico del concessionario uscente. In caso di rilascio della concessione a favore di un nuovo concessionario, il perfezionamento del nuovo rapporto concessorio è subordinato all’avvenuto pagamento dell’indennizzo da parte del concessionario subentrante in misura non inferiore al venti per cento. Il mancato tempestivo pagamento di cui al quarto periodo è motivo di decadenza dalla concessione e non determina la prosecuzione, in qualsiasi forma o modalità comunque denominata, del precedente rapporto concessorio. Dopodiché, il comma 9 si chiude con l’ambigua previsione per cui “La mancata adozione del decreto di cui al primo periodo del presente comma non giustifica il mancato avvio della procedura di affidamento di cui ai commi 1 e 2.

Si tratta di previsioni incerte e di dubbia legittimità, per molte ragioni. Ne citiamo alcune.

In primo luogo, il decreto-legge fa esplicitamente salve le procedure selettive già avviate (si veda ancora il nuovo art. 4 che introduce nella l. n. 118/2022, al comma 13), col risultato di stabilire per legge una disparità di trattamento rispetto a gare avviate e magari ormai aggiudicate nelle quali l’indennizzo evidentemente non è stato previsto dagli enti concedenti – né poteva esserlo trattandosi, come detto, di prerogativa statale.

In secondo luogo, nel riferire l’indennizzo genericamente a investimenti non ammortizzati e agli investimenti tutti se effettuati “negli ultimi cinque anni”, il decreto legge si presta, almeno alla lettera, a includere un po’ di tutto: dagli investimenti in immobili o in attrezzature “non facilmente amovibili” (e ciò in deroga all’art. 49 del codice della navigazione, che continua a escludere ogni indennizzo), a quelli in attrezzature amovibili fra cui anche investimenti in attrezzature da spiaggia comodamente asportabili, beni aziendali che l’uscente tratterrebbe per sé e che non si vede per quale ragione il gestore subentrante dovrebbe essere costretto a “indennizzare” senza poterli né comprare né utilizzare; si presta a includere, in generale, ogni cespite materiale e immateriale dell’azienda, compresi gli investimenti in servizi, o ancora in avviamento e formazione; e per giunta può riferirsi a grandezze diverse, cioè a investimenti non ammortizzati sul piano fiscale o non ammortizzati sul piano commerciale.

Mancano poi regole certe per la quantificazione: si prevede di delegare a un “decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze da adottarsi entro il 31 marzo 2025” la fissazione dei relativi parametri e criteri, ma contemporaneamente e si aggiunge che “La mancata adozione del decreto di cui al primo periodo del presente comma non giustifica il mancato avvio della procedura di affidamento di cui ai commi 1 e 2”. Senza peraltro specificare se per “mancata adozione” debba intendersi la mancanza del decreto stesso o l’inutile scadenza del termine per emanarlo (31 marzo 2025: questa seconda soluzione interpretativa, più plausibile, implica il rinvio minimo delle gare a dopo il 31 marzo 2025).

Ma soprattutto, un indennizzo senza un oggetto definito e regole chiare rischia di riportarci al contrasto con “principi della libera concorrenza e della libertà di stabilimento, previsti dalla normativa comunitaria e nazionale» (Corte Cost., sentenze n. 86 del 2019 e n. 40 del 2017), vale a dire coi principi del trattato (artt. 49 e 56 TFUE) e ancora con la direttiva 2006/123/CE “Bolkestein” anche nella sua attuazione interna con l’art. 16 d.lgs. n. 59/2010, questi ultimi due a vietare che i criteri di gara attribuiscano “vantaggi al prestatore uscente”.

Per essere pienamente conforme al diritto comunitario e nazionale, l’indennizzo dovrebbe infatti rapportarsi salvo eccezioni alla (aspettativa) di durata naturale della concessione. L’art. 12 della direttiva “Bolkestein” prevede che “In particolare, la durata dell’autorizzazione concessa dovrebbe essere fissata in modo da non restringere o limitare la libera concorrenza al di là di quanto è necessario per garantire l’ammortamento degli investimenti e la remunerazione equa dei capitali investiti”. Indennizzo e affidamento sono, nel diritto comunitario, facce di una stessa medaglia, nel senso che il primo spetta solo a chi abbia potuto fare legittimo affidamento in una maggiore durata della concessione; tant’è che la Corte di Giustizia, nella citata sentenza 14 luglio 2016 in cause riunite C-458/14 e C-67/15, nota anche come “Promoimpresa”, pietra miliare dell’intera materia, afferma che si “richiede una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. Una siffatta giustificazione non può pertanto essere invocata validamente a sostegno di una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione”.

A dispetto di quanti hanno voluto leggervi qualcos’altro, anche per la giurisprudenza italiana l’indennizzo è una conseguenza di un legittimo affidamento: nelle due decisioni gemelle del 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato leggiamo che “L’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà, pertanto, ove ne ricorrano i presupposti, essere supportata dal riconoscimento di un indennizzo a tutela degli eventuali investimenti effettuati dai concessionari uscenti, essendo tale meccanismo indispensabile per tutelare l’affidamento degli stessi”.

In teoria, altri spazi per l’indennizzo si potrebbero aprire con una modifica al datato art. 49 del codice della navigazione, recentemente passato indenne al vaglio di conformità coll’art. 49 TFUE operato dalla Corte di Giustizia (sentenza 11 luglio 2024, in C-598/22), il quale al momento continua a prevedere che a fine concessione, salvo sia diversamente stabilito dal titolo, le “opere non amovibili” costruite sul demanio passino allo Stato senza alcun compenso o rimborso; o ancora, cercando di dare forma e sostanza economica all’avviamento, tema tanto complesso e sfumato quanto ineludibile e concreto nel settore del turismo balneare (ebbene sì: tantissimi operatori sono molto bravi nel loro mestiere e il flusso turistico è anche merito loro).

Il decreto-legge sembra invece voler svincolare l’indennizzo dal legittimo affidamento del gestore uscente sulla durata “naturale” della concessione, e renderlo sostanzialmente automatico, perché include indistintamente tutto quanto non ammortizzato (anche ciò che si sapeva non poterlo essere per via della durata della concessione) e in più una non ancora precisata (in attesa del decreto ministeriale) “equa remunerazione” di tutti gli investimenti effettuati “negli ultimi cinque anni”, periodo nel quale è dubbio che gli operatori abbiano davvero potuto fare legittimo affidamento su una maggior durata della loro concessione. Non sembra invece dare alcuna particolare rilevanza al principio dell’affidamento, né accennare al tema dell’avviamento.

Insomma, al di là delle bone intenzioni, il decreto-legge non riesce né a produrre una riforma organica del settore delle concessioni demaniali, né a stabilirvi le certezze di cui tanto c’è bisogno. Nel disporre l’ennesima proroga legale della durata delle concessioni, reitera un errore del passato riportando tutti, dirigenti e funzionari compresi, a confrontarsi con l’obbligo di disapplicazione; nel regolare in questo modo l’indennizzo ai gestori uscenti, prescinde da alcuni limiti tracciati dal diritto comunitario e lo fa in termini difficilmente emendabili o riducibili dal futuro decreto ministeriale (che è pur sempre fonte subordinata).

Non resta che attendere, non troppo fiduciosi, la legge di conversione, per poi affidarsi come sempre alla giurisprudenza.

Emilio Caucci

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