Anche per chi si è avviato alla professione nel secolo scorso inizia ad essere sbiadito il ricordo di lunghe giornate trascorse in T.A.R.
I ruoli cautelari a volte superavano le tre cifre e non era infrequente incappare in discussioni chiamate dopo il tramonto. Le ore trascorse assieme agli altri colleghi – e molto semplicemente i caffè, i panini … – creavano le condizioni per vivere il foro e per radicare un senso profondo di appartenenza.
Da quelle attese prolungate – a volte prevedibili nella loro durata, a volte impreviste – si generava un otium professionale in cui era facile miscelare aneddoti di vita professionale, ricordi sui Maestri del passato, commenti a sentenze poco “scontate”, richieste di aiuto nell’inquadrare questioni delicate, quesiti deontologici, azzardi interpretativi su normative nuove e complesse e via discorrendo.
In chi si è affacciato di recente alla professione tutto questo può avere il sapore passatista di un racconto dei tempi andati.
Non si tratta, però, di alimentare nostalgie o di coltivare rimpianti ma di comparare “allora” con “ora”, per meglio comprendere quanto ci chiede il presente.
Il consolidarsi delle udienze “da remoto”, il contingentamento delle discussioni in fasce orarie, il crollo numerico del contenzioso, una sempre più marcata inclinazione alla trattazione solo scritta e altre condizioni simili (compresa la domanda crescente di consulenze preventive) stanno creando una situazione inedita.
Come sottolineato da Stefano Bigolaro, “l’attività dell’avvocato amministrativista sembra spostarsi dal patrocinio avanti al giudice amministrativo, all’assistenza giuridica in senso ampio”[1]. Uno degli effetti più diretti è la mancanza di momenti professionali comuni per “formarci” come foro, per modellarci nella nostra identità, per acquisire una consapevolezza “di noi”.
Del resto, trent’anni anni fa, nel salutare l’introduzione della legge n. 241 del 1990, Feliciano Benvenuti scriveva che poteva ridimensionarsi la spinta del “cittadino a trovare la sua unica difesa, anziché all’interno dell’istituzione stessa, come avverrà con la partecipazione procedimentale, al suo esterno mediante il ricorso all’opera equilibratrice di un giudice”[2]. Questa tendenza verso un ruolo – per usare una felice espressione di Ivone Cacciavillani[3] – di “ingegneria procedimentale” porta l’avvocatura amministrativa a dissodare terreni sempre meno causidici e a frequentare sporadicamente le aule dei Tribunali.
C’è il rischio di disperdere una benefica coscienza “esistenziale”?
Quella, per intenderci, che accompagna(va) l’avvocato amministrativista per tutta la vita professionale ed entra(va) a fare parte della sua personalità, nutrendo una rassicurante appartenenza.
La progressiva attrazione dell’attività nel campo dell’assistenza e della consulenza avrà un effetto novativo sul vivere la colleganza nel foro amministrativo.
L’intensa frequentazione delle sedi giudiziarie favoriva una certa idea della professione, principalmente – se non esclusivamente – forgiata nella fornace processuale. Ora si aprono spazi innovativi.
Sono spazi da frequentare con un supplemento di spirito associativo in cui irrobustirci in quella dimensione etica e culturale che nasce nella relazione tra colleghi, nei legami interni ad un sodalizio, nella contaminazione tra vissuti professionali.
L’identità che passa attraverso la concretezza delle relazioni perché, etimologicamente, “concretezza” traduce il cum crescere, il “crescere insieme”.
Le associazioni nate nei decenni scorsi come “un di più”, lungimirante ma opzionale, diventano ora indispensabili per assolvere ad un ruolo che gli Ordini – per dimensioni e funzioni – non riescono ad interpretare.
L’associazionismo forense viene spesso derubricato, soprattutto da chi ci conosce meno, ad opzione corporativa. Questa riduzione “sindacale” dell’esperienza associativa ne oblitera la qualità sociale. Cooperare tra avvocati significa, in fondo, “collocare la comunità” nella vita repubblicana.
Enrico Gaz
[1] S. BIGOLARO, “L’avvocato amministrativista”, in “Dizionario di giustizia amministrativa”, a cura di U. FANTIGROSSI, Piacenza, 2019, p. 314.
[2] F. BENVENUTI, “Il nuovo cittadino”, Venezia, 1994, p. 96
[3] Alla quale A. VERONESE ha dedicato il saggio “L’avvocato ingegnere del procedimento”, in “Scritti in onore di Ivone Cacciavillani”, Napoli, 2018, p. 427