Sommario: 1 – Le linee di una tendenza.   2 – Il bisogno di “tecnica legale”.   3 –  In rapporto con il potere.   4 – Una nuova responsabilità sociale.

 

1 – Le linee di una tendenza.

Da più parti e sempre più frequentemente si sottolineano i cambiamenti in atto nel foro amministrativo.

In estrema sintesi, “l’attività dell’avvocato amministrativista sembra spostarsi dal patrocinio avanti al giudice amministrativo, all’assistenza giuridica in senso ampio” (così S. BIGOLARO, L’avvocato amministrativista, in Dizionario di giustizia amministrativa, a cura di U. FANTIGROSSI, Piacenza, 2019, p. 314). Del resto, venticinque anni fa, nel salutare l’introduzione della legge n. 241 del 1990, Feliciano Benvenuti scriveva che poteva ridimensionarsi la spinta del “cittadino a trovare la sua unica difesa, anziché all’interno dell’istituzione stessa, come avverrà con la partecipazione procedimentale, al suo esterno mediante il ricorso all’opera equilibratrice di un giudice” (F. BENVENUTI, Il nuovo cittadino, Venezia, 1994, p. 96). Avvantaggiati dal senno del poi, sappiamo che questa patologia non si è depotenziata e se l’approdo giurisdizionale sta diventando sempre più eccezionale lo si deve (purtroppo) a fattori diversi dall’efficacia dei meccanismi partecipativi.

Ad ogni buon conto, per usare una felice espressione di Ivone Cacciavillani (alla quale Alessandro Veronese ha dedicato il saggio L’avvocato ingegnere del procedimento, in Scritti in onore di Ivone Cacciavillani, Napoli, 2018, p. 427), la tendenza muove verso un ruolo di “ingegneria procedimentale”. Proprio Cacciavillani ha recentemente dipinto l’amministrativista di domani come uno specializzato nell’attività consultoria, scomodando persino la secolare distinzione interna alla Serenissima “tra Avogadori, gli operatori giuridici di consulto, e i Causidici gli operatori d’aula” (cfr. I. CACCIAVILLANI, Note minime sul quarantennale – Dall’Avvocatura all’Avogaria, in questa sezione).

In effetti, tornando alla sudata quotidianità professionale, non passa giorno in cui non si intercetti qualche atto generale, ad esempio di pianificazione o di programmazione (non necessariamente di natura urbanistica o paesaggistica), che vanti uno o più avvocati tra i membri del “gruppo di lavoro” che ne ha curato l’impostazione e la redazione; analogamente, è facile incappare in incarichi professionali che abbiano ad oggetto la stesura di una bozza di deliberato (di un bando, di un avviso …) o di un progetto di regolamento oppure di un disegno di legge, così come diventa sempre meno raro compulsare provvedimenti nella cui narrativa di premessa è possibile leggere il nome di questo o quel collega, in ragione del parere prestato, della diffida inoltrata, della consulenza resa et cetera.

Nel turbinio di una forte trasformazione in atto, l’avvocatura amministrativa sta dissodando terreni sempre meno causidici, che la allontanano dallo stereotipo di mezzo di tutela “dal” o “del” pubblico potere, attorno al quale si era costruita l’identità di questo foro specialistico all’indomani dell’introduzione dei T.A.R. Dall’avvocato si andava per chiedere riparazione di un torto o per difendersi da tale richiesta, non certo per condividere un percorso.

 

2 – Il bisogno di “tecnica legale”.

L’amministrazione pubblica e gli organi politici avvertono un bisogno inesausto di “tecnica legale”, cioè di competenza giuridico-amministrativa. Per converso, si accresce un identico bisogno anche tra cittadini, imprese, formazioni sociali. La macchina procedurale entro la quale è imbrigliato l’agire pubblico tocca materie ed interessi di alta tecnicità. L’elevata giuridificazione della vita rende il diritto amministrativo onnipresente. Resta valido l’antico adagio che non si delibera e non si governa senza diritto ma ora la sua declinazione sembra sbilanciata verso una ricerca spasmodica di competenza settoriale e altamente specialistica: non una conoscenza generale dei principi ma una mirata ed esperta preparazione tecnica.

Quanto all’amministrazione, di per sé essa dovrebbe avere (o trovare) al suo interno le risorse per provvedere, ricorrendo alla capacità di segretari, funzionari e dirigenti. Molti e diversi fattori rendono però meno scontato questo epilogo “fisiologico”: si va dal timore della burocrazia di avallare percorsi procedimentali poco sperimentati sino all’imperante e massiccio ricambio generazionale (favorito dalle recenti riforme previdenziali) che ha notevolmente indebolito gli organici e sta aprendo le porte a nuovi dipendenti di minore esperienza.

Ma spesso ciò che spinge gli amministratori a ricercare ausilio all’esterno è la presunta (o vera) rigidità degli apparati che induce a scovare altrove soluzioni e potenzialità più elastiche. Il ricorso al libero foro diventa – quindi – altrettanto fisiologico perché l’esigenza vitale del potere politico-amministrativo di dare forma giuridica alle proprie decisioni non può rimanere senza risposta. Rispetto ai burocrati gli avvocati sanno poi respirare anche con l’altro, essenziale, polmone, quello del contenzioso che li allena – tra le insidie del controvertere – a cogliere anche gli aspetti speculari e umbratili delle questioni.

Questo orientamento si rivela irto di insidie dal punto di vista pratico (basti pensare alla logora querelle sulle modalità di affidamento e/o di compenso degli incarichi legali) ma l’esigenza “tecnica” di chi governa costringe gli amministratori, ansiosi di competenza e capacità, a guardare extra moenia, attingendo sovente a forze rinvenute oltre il perimetro degli uffici.

 

3 –  In rapporto con il potere.

Gli amministrativisti sono sempre in rapporto con il potere. Questa asserzione non è né oltraggiosa né disonorante, né – tantomeno – moralmente riprovevole. Costituisce, anzi, il proprium del foro amministrativo (proprium secondo l’etimologia specifica del latino medioevale, vale a dire come “essenza”), che lo distingue e lo qualifica.  In particolare, lo chiama ad un surplus di indipendenza e di fedeltà perché su questo versante taluni canoni deontologici (come il dovere di evitare incompatibilità ex art. 6 o il conflitto di interessi ex art. 24 del C.D.F.) vanno vissuti in maniera ancor più rigorosa ed esigente.

Un foro che opera entrando in contatto diretto con l’interesse generale, sia all’interno delle istituzioni, sia dalla parte dei cittadini, difende non la libertà di qualcuno ma la libertà di tutti. Incide, in altre parole, sul modo stesso di rapportarsi dell’amministrazione con gli amministrati ovvero sul “servizio esclusivo alla Nazione” (art. 98 Cost.) e sui modi in cui esso si esplica.

L’essere preparati in un dato ramo, il diventarne esperti, il collaborare in modo competente – o mettendosi al servizio di chi è chiamato a governare oppure pungolandolo perché ciò avvenga nel rispetto delle regole- sono tutte posture professionali che stanno assumendo una portata decisiva per la nostra realtà forense e per lo sviluppo stesso del rapporto tra cittadinanza e potere pubblico.

Non si tratta di selezionare i fini di una comunità, scelta che in democrazia tocca ad altri livelli, ma di adoperarsi perché quei fini, di cui il “tecnico” deve prendere atto, vengano perseguiti con modalità “legali”, prima della contesa giudiziale e, per così dire, a prescindere da essa.

E’ nota la lunga polemica sulla collaborazione alla redazione del codice di procedura civile da parte di Pietro Calamandrei, accusato di incoerente complicità con il regime, il quale però annotava nel suo diario: “potrei decentemente sottrarmi a questa consulenza tecnica se può servire a dare agli italiani un codice migliore?” (P. CALAMANDREI, Diario 1939-1945, Firenze, 1997, I, p. 139). Lo stesso Calamandrei confessava a Luigi Preti (parlamentare, ministro ma anche avvocato e docente di Istituzioni di diritto pubblico a Ferrara) che “il fascismo, quando aveva bisogno di studiosi seri, doveva andare a mendicarli fra gli antifascisti”.

 

4 – Una nuova responsabilità sociale.

La progressiva attrazione dell’attività del foro amministrativo nel campo dell’assistenza e della consulenza può avere un effetto novativo della sua responsabilità sociale, espressione più volte declamata ma che resta una sorta di oggetto misterioso (l’ordinamento forense è preposto alla “tutela dell’affidamento della collettività” e non solo della clientela: cfr. art. 1.2, lett. b), della L. n. 247 del 2012 e art. 1.3 del C.D.F.).

L’intensa frequentazione delle aule giudiziarie favoriva una idea della professione più atomizzata, da cui guardare alle dinamiche sociali alla stregua di tensioni tra soggetti separati e dove l’avvocato rivestiva una funzione servile dei conflitti in essere. L’odierna e profonda crisi/domanda di legalità (e di legalità “qualificata”) sollecita una visione più “di insieme”, da avvocato garante del diritto e della società, più che da avvocato servente.

Il civismo dell’avvocatura si è per lungo tempo espresso dentro le istituzioni pubbliche.

Ora, quella tensione si è notevolmente allentata e si acuisce nelle sedi istituzionali la carenza di competenze specifiche, i cui effetti deleteri vengono denunciati da più parti. Da qui, una sorta di chiamata all’avvocatura – ma, principalmente, all’avvocatura amministrativa – a riprendere ab externo centralità nella vita politico-amministrativa del paese. Un ruolo propulsivo diverso, però, rispetto al passato prossimo, impastato ora di “qualità tecnica”, cioè di assoluta capacità e di rigorosa competenza più che di foga oratoria.

Dall’unità alla seconda repubblica la quota di avvocati in Parlamento e negli organi di governo locale continuò ad aumentare, sia in termini assoluti che percentuali (F. TACCHI, Gli avvocati italiani dall’Unità alla Repubblica, Bologna, 2002), tanto che gli avvocati formarono l’ossatura del ceto politico-amministrativo: anzi, la professione forense diventava la premessa dell’attività pubblica (N. IRTI, Profilo dell’avvocatura nella società industriale, in Scuole e figure del diritto civile, Milano, 2002, p. 477).

Gli avvocati sono stati parte decisiva della classe di governo ed ora che la necessità di una presenza rinnovata si combatte sul piano della competenza si svela per il foro una freschezza di occasioni che lo pone in vantaggio.

Viene così tracciato il solco di un virtuoso canale di comunicazione tra società civile e istituzioni che valorizza appieno le caratteristiche dell’amministrativista, figura professionale ecclettica perché “divisa” tra attività private e funzione pubblica.

In un certo senso, è la strada per ri-diventare minoranza autorevole, capace di rigenerare la sua identità e la sua posizione nella società, vivificando un prestigio che il titolo ex se non assicura più.

All’orizzonte si intravede per l’avvocato amministrativista anche una nuova deontologia forense, non più racchiusa entro i confini dei consueti doveri del rapporto professionale e del processo. Essa trova spazi innovativi per ampliarsi verso i lidi dell’etica della professione nella quale, accanto agli obblighi strettamente concernenti il ruolo, emergono doveri nei confronti degli altri e della comunità in senso lato. Il che significa che l’impegnativo aggiornamento della qualità tecnica dovrà accompagnarsi al recupero di una più consapevole dimensione etica e culturale.

Enrico Gaz

 

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