Vi sono molteplici motivi per salutare con favore l’entrata in vigore, databile al 3 luglio scorso, della legge regionale n. 19 del 30 giugno 2021. In parte giovandosi degli spazi attuativi concessi dal Testo Unico dell’Edilizia, in parte facendo esercizio di autonomia normativa propria, la legge – titolata  “Semplificazioni in materia urbanistica ed edilizia per il rilancio del settore delle costruzioni e la promozione della rigenerazione urbana e del contenimento del consumo di suolo – “Veneto cantiere veloce”  – detta disposizioni molto innovative e per certi versi audaci che, in taluni casi, non mancheranno di sollecitare l’attenzione dello Stato (ai fini dell’art. 127, primo comma, della Costituzione).

Se dal punto di vista sostanziale è giustificato l’apprezzamento per lo sforzo profuso dal legislatore regionale suscitano – invece – disagio, per non dire sconforto, le scelte di tecnica legislativa operate. “Veneto cantiere veloce” risente in modo palese dei tempi concitati in cui è stata concepita, in una stagione nella quale la legislazione pare irreversibilmente condannata ad inseguire la contingenza, con una mutazione continua che elide la certezza e con organi legislativi che sembrano perennemente a corto di visioni prospettiche.

Anche la legge regionale n. 19 del 2021 asseconda questa deriva in cui la regolazione si disperde in un coacervo di norme, che – in assenza di una cornice sistematica – si rendono non solo mobili sotto il profilo applicativo ma (ancor prima) di ardua identificazione e di problematica comprensione.

Oramai da vent’anni il D.P.R. n. 380 del 6 giugno 2021 ci ha consegnato un Testo Unico dell’Edilizia. Dopo una prima fase (2001-2003) di incertezza e di attesa per il conseguente seguito regionale, si decise di “non scegliere” rinviando a data da destinarsi un intervento (del tipo … “fino a nuovo riordino della disciplina edilizia valgono in via esclusiva le disposizioni del D.P.R. …”) di chiarificazione. Poi, con la legge regionale n. 16 del 1 agosto 2003, all’art. 13 (tutt’ora in vigore) si stabilì che “Fino all’entrata in vigore della legge regionale di riordino della disciplina edilizia trovano applicazione le disposizioni di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia” e successive modificazioni, nonché le disposizioni della legge regionale 27 giugno 1985, n. 61 “Norme per l’assetto e l’uso del territorio” e successive modificazioni, che regolano la materia dell’edilizia in maniera differente dal testo unico e non siano in contrasto con i principi fondamentali desumibili dal testo unico medesimo”.

Di per sé, la norma dichiarava una assoluta ovvietà applicativa e non era di alcun ausilio concreto agli operatori, posti così di fronte a dilemmi pratici notevoli (emblematica la controversa questione, approdata in sede giudiziale, del rapporto tra art. 14 del D.P.R. n. 380 e art. 80 della L.R. n. 61 del 1985 sul permesso di costruire in deroga: si vedano T.A.R. Veneto, sez. II, 20 ottobre 2004 n. 3760 e Consiglio di Stato sez. IV, 14 ottobre 2005, n. 5725, quest’ultima anche in Foro Amm. CDS 2005, 10, p. 2901).

Nel 2004, varando una nuova legge sul governo del territorio (L.R. 23 aprile 2004, n. 11), si dispose l’abrogazione (cfr. art. 49.1, lett. e) dei soli articoli da 1 a 75 della L.R. n. 61 del 1985, da un lato confermando che il successivo Titolo V (artt. 76 e ss.) concernente la “Disciplina dell’attività edilizia” continuava a convivere con la legislazione sopravvenuta e, da altro lato, alimentando la legittima aspettativa di una prossima riforma organica (anche) della disciplina edilizia.

Seguirono lunghi anni di segnali contrastanti, costellati di ripetute modifiche del Titolo V (come, ad esempio, l’introduzione dell’art. 79 bis ad opera della L.R. 28 giugno 2008 n. 4 o la nuova definizione – alla lett. d) dell’art. 76.1 –  di “manutenzione straordinaria”, novellata dalla L.R. 10 agosto 2012, n. 34) e pure di conferme esplicite e rinnovate della necessità di riforme; sintomatico l’incipit del primo comma dell’art. 1 della legge regionale 23 dicembre 2019, n. 50 (poi annullata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 77 della primavera scorsa): “Nelle more dell’entrata in vigore della normativa regionale di riordino della disciplina edilizia, la Regione del Veneto …”.

Suscita, pertanto, forti perplessità che, dopo un ventennio, si perseveri ancora nella incisione scoordinata e – per così dire – “alla bisogna” di questa o quella disposizione del Titolo V in parola, come esattamente fa la recentissima legge regionale n. 19 la quale con l’art. 6 aggiunge un comma all’art. 93 della L.R. n. 61 del 1985 e con il successivo art. 7 introduce persino un art. 93 bis.

Le perplessità sono acuite da un rilievo ulteriore collegato all’art. 5 della legge in esame dove si definisce una vasta disciplina delle destinazioni d’uso in espressa attuazione dell’art. 23 ter del D.P.R. n. 380 del 2001. Questa nuova norma regionale assume la forma dell’inserimento di un articolo aggiuntivo – il 42 bis – all’interno però della L.R. n. 11 del 2004. Ne consegue che, nell’ambito della (diversa) disciplina deputata al governo del territorio continuano ad affastellarsi pure norme edilizie, dichiaratamente assunte in applicazione del Testo Unico, con una singolare e anomala sovrapposizione di testi e di settori a cui si somma la semina a macchia di leopardo di previsioni “integrative” (si pensi al noto art. 10 della L.R. n. 14 del 2009 in materia di “ristrutturazione edilizia”).

Sembra quantomeno maturo il momento per invocare un deciso cambio di passo che, tramite un indispensabile riordino complessivo, restituisca coerenza, ordine ed organicità alla disciplina veneta dell’edilizia.

Anche se in questi due decenni i variegati interventi statali sul Testo Unico non sono stati di buon esempio, non è ulteriormente sostenibile un processo regionale di stratificazione normativa in cui si aggiungono di continuo leggi nuove a leggi vecchie e sussistono insieme, senza un quadro unitario. Non si può resistere all’esigenza di potare l’albero, anche a costo che perda vitalità.

Enrico Gaz

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