“Veneto 2050” è un testo normativo la cui lettura suscita vari quesiti interpretativi. Nell’ottimo intento di fornire utili indicazioni agli operatori la Regione – all’interno dell’apposita sezione del sito istituzionale dedicata alla L.R. n. 14 del 2019 – ha attivato una scheda dedicata alle “risposte alle domande più frequenti”. Tra gli interrogativi pratici giudicati più usuali troviamo quelli inerenti alla corretta lettura applicativa della previsione dettata dal secondo comma dell’art. 11 della legge. Come noto, la disposizione prescrive che l’assenso ad interventi di particolare impatto venga rilasciato unicamente per il tramite di un permesso di costruire convenzionato.
L’istituto del permesso convenzionato introdotto dall’art. 17, comma 1, lett. q), del D.L. n. 133 del 2014 (conv. con L. n. 164 del 2014) e ora regolato dall’art. 28-bis del Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. n. 380 del 2001) risponde, pur in maniera semplificata, ad esigenze di urbanizzazione correlate alla particolare rilevanza dell’intervento (cfr., in termini, la circolare regionale n. 1 del 19 aprile 2021). La consistenza della trasformazione chiama in causa una valutazione superiore del progetto anche da parte dell’organo di governo. Detta consistenza – che attesta la “rilevanza” valorizzata dalla circolare – viene prospettata dalla legge per edificazioni caratterizzate da una incidenza qualificata, individuata in termini di volumetria sviluppata (superiore ai 2000 mc.) e di altezza raggiunta (superiore al 50%).
I dubbi sorgono nel momento in cui ci si addentra nell’analisi concreta dei parametri a cui il legislatore ha inteso vincolare la scelta di tale modalità procedimentale rafforzata.
Le FAQ regionali sposano una linea alquanto restrittiva concludendo che “la norma in esame fa riferimento alla consistenza finale del fabbricato una volta applicati all’edificio originario gli incrementi degli artt. 6 e 7 della Legge. Ove tale consistenza finale superi i limiti fissati dalla disposizione in esame rispetto alla consistenza originaria dell’edificio, l’intervento sarà assentito tramite il rilascio di permesso di costruire convenzionato ai sensi dell’art. 28 bis del DPR 380/2001 con previsioni planivolumetriche” (cfr. il punto D7 delle stesse).
In buona sostanza, qualsiasi sconfinamento, anche numericamente esiguo, oltre le soglie fissate dall’art. 11 della legge regionale n. 14 del 2019 scomoderebbe un pronunciamento dell’organo consiliare. È – quindi – evidente la diversità degli effetti applicativi che derivano da questa opzione interpretativa rispetto alla differente tesi che non considera il limite ex lege di 2000 mc. comprensivo del patrimonio edilizio in essere.
Nell’indagare se questa ultima tesi sia (o meno) del tutto priva di base giustificativa un ausilio risolutivo viene direttamente dato dalla stessa lettera dell’art. 11. Essa – nell’ambito di “interventi di cui agli articoli 6 e 7” – riferisce l’obbligo procedurale in questione alle realizzazioni “con volumetria superiore ai 2000 metri cubi o con un’altezza superiore al 50 per cento rispetto all’edificio oggetto dell’intervento”.
Se si pone la giusta sottolineatura sulla parte finale del periodo appena riportato, la disposizione si palesa di nitida applicazione in quanto la predetta rilevanza, vale a dire l’eccedenza che giustifica il passaggio deliberativo in Consiglio comunale (con quanto esso implica), va ponderata “rispetto all’edificio oggetto dell’intervento”. È dunque questo ultimo, cioè l’edificio preesistente, che nella sua conformazione costruttiva integra le misure di base in relazione alle quali soppesare l’incremento (volumetrico e di innalzamento). Ne avrebbe senso limitare il riferimento all’edificio “di partenza” al solo parametro dell’altezza in quanto si opererebbe una selezione escludente (“volume no, altezza si”) non espressa dal legislatore e di per sé immotivata.
La lettura prefigurata dal sito regionale, invece, ingloba nel computo pure quanto non viene realizzato in deroga (si pensi, a mente del terzo comma del medesimo art. 11, all’obbligatorio attingimento preventivo all’indice edilizio non utilizzato) e/o già legittimamente esistente. Al di là del rilievo se si tratti o meno di interpretazione coerente con il testo della norma, sono le conseguenze paradossali che ne derivano a metterne in luce la confliggenza con la logica urbanistica sottesa alla previsione.
In tal modo, ad esempio, ogni intervento che superasse i 2000 mc. anche se di riqualificazione di un fabbricato già di poco inferiore a detta quota numerica transiterebbe obbligatoriamente in Consiglio comunale, con il risultato di interessare inutilmente l’organo di governo del territorio a progetti inerenti incrementi del tutto modesti e trascurabili (magari di poche decine di metri cubi rispetto alla costruzione di partenza), i quali in nulla alterano quanto già programmato in sede di strumento urbanistico generale.
Il permesso convenzionato costituisce un istituto che assolve ad esigenze di urbanizzazione e c’è da chiedersi dove riposino tali esigenze laddove, in zona già pienamente infrastrutturata, si ponga mano alla riqualificazione di un fabbricato combinata con un ampliamento del tutto limitato.
Se, come rimarca la citata circolare regionale, il coinvolgimento del Consiglio comporta “valutazioni che assumono un carattere pianificatorio” (donde pure il dovere di produrre all’organo – in una con la convenzione – un elaborato planivolumetrico), è fisiologico escludere valutazioni del pianificatore comunale per deroghe che in modo autonomo non raggiungono il limite di accrescimento stabilito dal legislatore.
Diversamente, si irrigidisce l’applicazione entro le maglie strette di un aggravio procedimentale estraneo agli obbiettivi di fattiva premialità enunciati all’art. 1 della L.R. n. 14, costringendo l’organo consiliare a ponderazioni eccentriche rispetto alle competenze di programmazione generale che gli sono proprie.
Riesce pertanto problematica una adesione (quantomeno acritica) alla risposta promossa dagli Uffici lagunari.
L’Amministrazione regionale, nell’apertura della sezione del sito, si premura di chiarire che le FAQ non possono “essere assimilate a una fonte del diritto, né primaria, né secondaria. Neppure possono essere considerate affini alle circolari, dal momento che non costituiscono un obbligo interno per gli organi amministrativi. In difetto dei necessari presupposti legali, esse non possono costituire neppure atti di interpretazione autentica (Cons. Stato, Sezione I, parere 20 luglio 2021, n. 1275)”.
Il richiamo è pertinente ed opportuno ma altrettanto appropriato è focalizzare ulteriori passaggi di quella medesima pronuncia del Consiglio di Stato (reperibile in www.giustamm.it) ove si precisa che “per quanto non vincolanti, le FAQ orientano i comportamenti degli interessati e non possono essere considerate tamquam non essent”. Anzi, la pronuncia in esame ha sottolineato che “non può essere sottovalutato l’effetto che le risposte alle FAQ producono sui destinatari, a partire dall’affidamento nei confronti di chi (l’amministrazione) fornisce le risposte. In definitiva, le risposte alle FAQ, pur nella loro atipicità, si pongono a metà strada tra le disposizioni di carattere normativo, per loro natura (almeno di regola) generali e astratte e inidonee quindi a prevedere ogni loro possibile applicazione concreta, e il singolo esercizio della funzione amministrativa da parte di una pubblica amministrazione. Essenziali criteri di affidamento del cittadino nella pubblica amministrazione richiedono di tenere conto dell’attività svolta dall’amministrazione stessa con la pubblicazione delle FAQ sul proprio sito istituzionale”.
Si è indugiato sul richiamo di questi passi altrettanto significativi per evidenziare l’esigenza che (anche) la fissazione delle FAQ possa maturare all’esito di un ampio confronto partecipativo che intercetti la ricchezza plurale delle tante voci degli operatori del settore e che ne consenta una formulazione sottratta a disamine preventivamente unilaterali.
Enrico Gaz