Sommario: 1. Premesse – 2. L’ambito oggettivo dell’art.93 ultimo comma LR 61/85; 2.1. L’origine della disposizione; 2.2. I casi di applicazione; 2.3. Gli ambiti esclusi; 2.4. Altri dubbi interpretativi – 3. L’ambito soggettivo – 4. L’istanza; 4.1. La eliminazione delle opere difformi; 4.2. La conformità urbanistica; 4.3. Il termine finale; 4.4. Il mancato rispetto delle condizioni; 4.5. Altre considerazioni sulla pars construens – 5. Come classificare l’intervento? – 6. Conclusioni.

 

  1. PREMESSE

Nell’ambito di una iniziativa legislativa sfociata nella Legge n.19 del 2021, ambiziosamente definita “Veneto cantiere veloce”, la Regione Veneto ha approvato una peculiare disposizione all’art.6, intitolata “Modifica dell’articolo 93 della legge regionale 27 giugno 1985 n.61 “Norme per l’assetto e l’uso del territorio”, secondo cui “Alla fine dell’articolo 93 della legge regionale 27 giugno 1985, n.61, è inserito il seguente comma: “Nei casi previsti dall’art.34, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n.380 “Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, l’interessato può chiedere di eliminare le opere abusive mediante la loro demolizione nel contesto di uno degli interventi di cui all’articolo 3, comma 1, lettere d) ed e), del medesimo decreto, a condizione che l’intervento sia conforme agli strumenti urbanistici ed eseguito entro un termine fissato dal Comune”.

L’art.93 LR 61/85, a sua volta, risulta essere intitolato “Sanzioni amministrative per interventi in parziale difformità e ristrutturazioni abusive”.

Non è stata poca la sorpresa al comparire di nuove disposizioni all’ultimo comma dell’art.93 LR 61/85, tanto che alcuni commentatori hanno evocato una sorta di “resurrezione” dell’intero art.93 LR 61/85 che, giusto il richiamo svolto all’art.13 LR 16/03, era, secondo alcuni, a seguito della entrata in vigore del DPR 380/01, una disposizione da ritenersi implicitamente abrogata per incompatibilità; nella fattispecie, quindi, non solo la norma viene ritenuta vigente, ma viene – addirittura – arricchita di un nuovo comma, alla fine del testo normativo.

La nuova disposizione prevede un peculiare intervento edilizio che, come si apprende dalla Relazione allegata al disegno di legge regionale, assume una dimensione particolare, in quanto la norma in questione “.. detta disposizioni in merito alle modalità per l’eliminazione degli abusi relativi ad interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire di cui all’art.34 del TUE ..”.

Si tratterebbe, ad una prima lettura, di una norma latamente riguardante l’ambito sanzionatorio, come volta ad eliminare un abuso edilizio, senza applicare sanzioni dirette, invero al contempo autorizzando una trasformazione, alle previste condizioni, del medesimo immobile abusivo.

E’ di immediata percezione la portata innovativa della disposizione, e ciò sotto molteplici punti di vista, perché a fronte di quella che appare, da una prima lettura, come una previsione alquanto semplice e lineare, nella realtà pone vari interrogativi, non solo di ordine sistematico e classificatorio, ma anche avendo a riguardo alla sua compatibilità con vari principi come elaborati nel tempo dalla giurisprudenza amministrativa (e non solo) e che, nel corso del tempo, sono divenuti capisaldi del diritto dell’urbanistica e dell’edilizia, ferma restando la questione della sua “tenuta” nell’ordinamento, considerando che si tratta, a quanto consta, di una disposizione il cui contenuto non ha riscontro nella disciplina statale di settore, evidenziando quindi in rilievo un primo aspetto di potenziale incostituzionalità della stessa previsione.

Per altro verso, come noto, sono ormai molteplici le iniziative delle varie Regioni per ovviare alle diffuse difformità che presenta il costruito nel nostro Paese, alcune anche assunte in passato dalla Regione Veneto, che – al pari di quanto accaduto per altre regioni – sono divenute il bersaglio di pronunce di illegittimità costituzionale, come avvenuto, ad esempio, anche con la sentenza n.77 del 21.04.21 (con cui è stata censurata la LR 50/19 e le misure di regolarizzazione regionale ivi previste), in un panorama normativo governato dalla rigida applicazione da parte della Corte Costituzionale delle disposizioni del Testo Unico dell’Edilizia che, seppure non siano una fonte costituzionale diretta, sono assurte a norme fondamentali della materia edilizia, integrando i parametri di valutazione della compatibilità costituzionale delle disposizioni regionali in materia, in quanto “norme dalla diversa estensione, sorrette da rationes distinte ed infungibili, ma caratterizzate dalla comune finalità di offrire a beni non frazionabili una protezione unitaria sull’intero territorio nazionale” (Corte Cost. 125/17, 70/20); è appena il caso di ricordare che tra le disposizioni interposte del DPR 380/01 spicca proprio l’art.36, recante il fermo principio della c.d. “doppia conformità” in tema di regolarizzazione dell’abuso (come anche ricordato da Corte Cost. 77/21) che, dunque, è divenuto valore indiscusso (e indiscutibile) in materia edilizia, venendo assunto quale parametro di valutazione della legittimità costituzionale delle varie disposizioni che, nel corso degli anni, sono state varate le Regioni per tentare di rimediare a svariate situazioni di abusività che connotano il territorio.

L’avvento della nuova disposizione regionale pone una serie di questioni che potrebbero tradursi in problemi applicativi dell’istituto, e che si auspica possano trovare soluzioni adeguate in via interpretativa, fermo restando che la fattispecie viene già oggi a confrontarsi con possibili questioni di costituzionalità e di generale compatibilità della fattispecie con alcuni principi capisaldo dell’urbanistica di elaborazione giurisprudenziale.

 

  1. L’AMBITO OGGETTIVO DELL’ART.93 ULTIMO COMMA LR 61/85

2.1 – L’origine della disposizione

La “genesi” della nuova disposizione va certamente individuata nelle proposte che in tempi recenti l’avvocatura veneta aveva avanzato per superare quelle problematiche e quegli ostacoli che nel corso degli anni si sono presentati agli operatori, sia privati come pubblici, e che si sono rivelate un ostacolo insuperabile per consentire la possibilità di regolarizzare, non solo le situazioni di limitata abusività (non potendosi conseguire la sanatoria per la assenza della c.d. “doppia conformità”), ma anche di permettere l’esecuzione di ulteriori interventi su tali immobili, proprio perché anche in parte abusivi, nonostante la lontana datazione degli abusi realizzati, in contesti normativi e pianificatori oggi venuti meno e, sovente, con opere assistite da regolari titoli edilizi, oltre che dall’avvenuto conseguimento delle relative certificazioni di abitabilità/agibilità.

Si tratta quindi di una serie di situazioni che oggi vengono a confrontarsi con le normative, spesso più rigorose e limitative, come entrate in vigore successivamente alla esecuzione dell’intervento, da cui consegue la sostanziale impossibilità di ricondurre tali opere ad una qualche conformità all’attuale disciplina urbanistica edilizia (si pensi, solo a titolo di esempio, la normativa antisismica o quella in tema di barriere architettoniche), escludendo quindi ogni possibilità di regolarizzazione e sanatoria degli immobili in questione.

Il legislatore veneto, sensibile alla questione, come noto, aveva già cercato con la LR 50/19 di risolvere – almeno in parte – la spinosa problematica degli abusi edilizi minori risalenti nel tempo, dettando una disciplina di un sostanziale condono, stroncata poi dalla sentenza n.77/21 della Corte Costituzionale.

Invero, con altre disposizioni contenute della LR 19/21, il legislatore regionale propone ancora altre soluzioni per ovviare alla “carenza” di legittimità di alcune situazioni, cercando di recuperare alla legalità – in qualche modo – immobili altrimenti non legittimabili, peraltro intervenendo in un clima parzialmente diverso dal 2019, dove anche il legislatore nazionale, anch’esso “coinvolto” nelle problematiche sorte dalla applicazione dei vari bonus edilizi (che presuppongono la regolarità edilizia-urbanistica dell’immobile interessato), ha manifestato una nuova “sensibilità” alle vicende degli immobili risalenti nel tempo che si presentino in parte difformi.

Tale nuova sensibilità si è tradotta nel “Decreto Semplificazioni”, il DL n.76/20, nel quale il legislatore ha provveduto a dettare norme improntate ad una minore rigidità nella individuazione dello stato legittimo dell’immobile (artt.9 bis e 34 bis DPR 380/01), sino a eliminare la attestazione dello stato legittimo, sostituita dalla CILAS quale titolo abilitativo degli interventi ammessi al Superbonus 110 (art.33 e 33 bis DL 77/21 conv. L.108/21).

2.2 – I casi di applicazione

L’art.6 LR 19/21 nel prevedere un nuovo comma alla fine dell’art.93 LR 61/85 contiene la disciplina di un intervento edilizio unitario che coniuga al suo interno in realtà due distinte attività tra loro strettamente correlate, dove una si pone come conseguente all’altra: una prima prevede la eliminazione di una abusività (pars destruens) come presente in un manufatto esistente; una seconda contempla, invece, la trasformazione di quanto restante, mediante una ristrutturazione edilizia ovvero la esecuzione di una nuova costruzione (pars construens).

La disposizione, da una prima lettura, sembra alquanto lineare e di agevole comprensione; in realtà, propone alcune questioni a livello oggettivo tutt’altro che pacifiche.

La norma esordisce con la individuazione del proprio ambito di applicazione, indicato specificamente “Nei casi previsti dall’articolo 34, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001 n.380 “Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, ..”.

Il rinvio è quindi chiaro al disposto dell’art.34 DPR 380/01, intitolato a sua volta “Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”, disposizione – tra l’altro – anch’essa interessata dalla modifica apportata dal DL.76/20 (conv. L.120/20).

Il comma 1 dell’art.34 dispone come “Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell’abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell’ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell’abuso”.

Al comma 2 della disposizione invece si prevede come “Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27 luglio 1978 n.392, della parte dell’opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale”.

Il richiamo operato dalla disposizione regionale va quindi riferito al contenuto dell’art.34 DPR 380/01 e alle sue diverse fattispecie, tanto al comma 1 come al comma 2, dove il legislatore veneto ha quindi superato anche le stesse istanze degli operatori (che, invero, configuravano l’ambito di applicazione della possibile normativa unicamente alla ipotesi del comma 2 dell’art.34 DPR 380/01), facendo rientrare nell’ambito di applicazione della norma in via generale tutte le parziali difformità rispetto al permesso di costruire (e per effetto dell’art.34 comma 2-bis DPR 380/01, anche rispetto alle difformità parziali rispetto alla SCIA).

In prima battuta viene in rilievo la individuazione della “parziale difformità” come richiamata dall’art.34 DPR 380/01.

La indicazione appare quantomeno singolare, in quanto – stranamente – la norma regionale non fa riferimento ai precedenti commi dell’art.93 LR 61/85 che disciplina la medesima fattispecie degli interventi eseguiti in parziale difformità, quasi come se tali disposizioni non esistessero, benchè l’art.6 LR 19/21, come visto, abbia aggiunto un ulteriore comma all’art.93, preferendosi individuare e reperire l’ambito applicativo della norma nel Testo Unico dell’Edilizia, evidentemente ritenuta più chiara e “ferma” relativamente al proprio contenuto.

La disposizione statale, invero, non individua i parametri dimensionali o qualitativi per identificare la parziale difformità che, quindi, diviene una fattispecie i cui caratteri vengono identificati in via residuale, nello spazio concettuale posto, da una parte, dalle difformità totali e dalle variazioni essenziali di cui ai limiti dimensionali di cui all’art.32 DPR 380/01 e all’art.92 comma 3 LR 61/85 (quindi sanzionabili con la demolizione per la diversità obiettiva della costruzione realizzata rispetto all’autorizzato per conformazione, strutturazione, destinazione ed ubicazione) e, dall’altra, dalle difformità minori, come individuate attualmente dall’art.34 bis DPR 380/01 (Tolleranze costruttive),anch’esso introdotto dal DL 76/20, la disposizione statale che pone la “franchigia” edilizia, stabilendo come, al di sotto del 2% delle misure progettuali riferite ai parametri indicati, le eventuali difformità riscontrabili nella singola unità immobiliare non costituiscono alcuna violazione edilizia e, quindi, sono irrilevanti.

Si tratta quindi di una categoria di difformità non meglio precisata nei suoi caratteri, il cui ambito applicativo è quantomai empirico; in merito, anche recentemente, si è affermato come una difformità parziale sussiste “quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera” (da ultimo ex multis Cons.St.,VI 4331/19, TAR Sicilia,PA,II,1442/21).

Cercando quindi di individuare l’ambito oggettivo di applicazione della disposizione, si pongono alcuni aspetti problematici, in vista della effettiva possibilità di dare seguito all’intervento come delineato dalla norma.

In linea di principio, si può affermare che tutti gli immobili esistenti possano beneficiare della applicazione del disposto dell’art.93 ultimo comma LR 61/85 come aggiunto dall’art.6 LR 19/21.

La disposizione non opera infatti alcuna distinzione se le difformità riguardino edifici residenziali o con diversa destinazione (produttiva, commerciale, artigianale, agricola), come non viene fatto alcun riferimento alle zone urbanistiche in cui i predetti immobili eventualmente ricadano, per cui – a prima vista – non dovrebbero sussistere limitazioni a riconoscere la “regolarizzazione” delineata anche ad edifici in zona agricola, come a quelli collocati in ZTO “A”, quindi nei centri storici o in zone sottoposte a vincoli, fermo restando che l’intervento deve necessariamente essere conforme per espresso dettato normativo, nella sua pars construens, alla normativa urbanistico-edilizia vigente, inclusa – evidentemente – la disciplina vincolistica eventualmente vigente.

La norma, inoltre, prescinde da ogni riferimento cronologico del momento in cui sarebbe venuta in essere la parziale difformità, per cui si devono considerare interessati tutti gli edifici che si presentino ab origine come connotati da una difformità parziale realizzata al momento dell’esecuzione dei lavori originariamente autorizzati, indipendentemente dalla data della loro costruzione; conseguentemente, come si dirà, non dovrebbero rientrare nell’ambito applicativo della nuova disposizione eventuali modifiche, apportate successivamente alla sua costruzione, all’edificio originariamente autorizzato.

Per altro profilo, avendo a riguardo alla oggettiva condizione dell’immobile potenzialmente interessato dalla applicazione della norma, questa prescinde da un qualsiasi riferimento all’attuale esistenza del manufatto; peraltro, la attuale sussistenza del manufatto in cui si colloca la difformità parziale deve ritenersi un presupposto logico-giuridico fattuale dell’intervento, per cui non si potrebbero conseguire una regolarizzazione di edifici oramai interamente venuti meno, perché demoliti o crollati, o anche in parte diruti (immobili per i quali l’art.3 comma 1 lett.d) DPR 380/01 ammette la ristrutturazione edilizia conservativa), quindi in tutte quelle situazioni in cui appare problematico prospettare fondatamente una certa preesistenza, tra l’altro non solo della originaria consistenza edilizia, ma anche della effettiva sussistenza anche sotto il profilo dimensionale di una difformità, seppur minore (quale è quella parziale), altrimenti non rilevabile.

In assenza di contrarie indicazioni, devono ritenersi interessate dall’intervento in questione anche quelle situazioni abusive già verificate dall’Amministrazione (o in cui sia in corso il relativo procedimento di accertamento) ovvero contestate con le ordinanze di ripristino/demolizione emesse ai sensi dell’art.34 comma 1 DPR 380/01, per cui sono regolarizzabili gli immobili che, per la sorte, siano già stati colpiti da un provvedimento di carattere sanzionatorio.

Considerando che nelle ipotesi dell’art.34 DPR 380/01, con la scadenza del termine per il ripristino come intimato non si determina la acquisizione in via sanzionatoria dell’abuso alla titolarità pubblica (diversamente quindi da quanto previsto dall’art.31 DPR 380/01), sussistendo unicamente un obbligo demolitorio eseguibile in via coattiva a spese del trasgressore, si può ritenere che sostanzialmente sino quando l’attività di demolizione non venga concretamente attuata, il trasgressore possa proporre una istanza ex art.93 ultimo comma LR 61/85.

Sono da considerarsi regolarizzabili anche abusi che siano stati oggetto di provvedimento sanzionatorio che sia stato regolarmente impugnato tanto in via amministrativa, come giurisdizionale (tanto avanti al Giudice Amministrativo, come con ricorso al Presidente della Repubblica), mancando la definitività del relativo provvedimento sanzionatorio.

Dal punto di vista oggettivo, devono ritenersi ammessi anche gli interventi che possano interessare gli edifici vincolati, visto che il paradigma della legittimità dell’iniziativa deve essere valutato non solo con riferimento alla abusività che viene eliminata nella parte destruens (dove, per gli edifici vincolati, la eliminazione di ogni abusività è elemento essenziale), ma – soprattutto – considerando l’oggetto della pars construens, quindi della proposta ristrutturazione edilizia o dell’ampliamento, che – come si dirà – diviene il vero ambito di confronto della conformità della istanza di intervento in questione con i parametri del vincolo eventualmente esistente sul bene o sull’area, con il quale ci si deve necessariamente confrontare.

Laddove vi fosse un interesse del richiedente, non va escluso che sia ammissibile dare seguito all’intervento in questione anche in presenza di una difformità rientrante nel limite dimensionale del 2% come riferita alla singola unità immobiliare dall’art.34 bis DPR 380/01.

In tal caso, anche se la disposizione fa riferimento testualmente al solo disposto dell’art.34, e non all’art.34 bis DPR 380/01, si deve ragionevolmente ritenere che la predetta situazione difforme possa essere ovviata con l’intervento de quo, con riferimento alla unità immobiliare interessata, non potendosi escludere un interesse a ricondurre ad una conformità e piena regolarità la situazione edilizia in cui versa l’immobile.

Nondimeno, la questione va correttamente inquadrata nel contesto degli edifici più complessi, come le realtà condominiali, in ragione della scala applicativa diversa, atteso che l’art.34 bis DPR 380/01 riguarda le difformità di una singola unità immobiliare, mentre l’art.34 DPR 380/01 potrebbe interessare realtà immobiliari ben più complesse e articolate, quale è un edificio condominiale.

Peraltro, in tale contesto viene in rilievo un primo elemento di contrasto manifesto del nuovo intervento con i principi generali elaborati dalla giurisprudenza.

Infatti, la possibilità di trasformare un immobile, anche se parzialmente abusivo, rappresenta una rilevante (e coraggiosa) novità prevista dall’art.6 LR 19/21, dettando una regola che, invero, contraddice quanto da sempre affermato dalla giurisprudenza in relazione alla ammissibilità (e quindi legittimità) di eventuali interventi trasformativi interessanti manufatti caratterizzati da una abusività, anche solo parziale.

Infatti, è principio generale quello secondo cui gli immobili abusivi non possono essere sottoposti ad interventi edilizi, in assenza di una precedente regolarizzazione della situazione che determini la conformità del bene stesso e quindi il suo stato legittimo, per cui oggetto di una attività edilizia autorizzabile della P.A. può essere solo un edificio che sia “legittimo e conforme”, come precisato dalla giurisprudenza secondo cui “.. uno dei presupposti affinchè sia rilasciato un titolo edilizio finalizzato all’esecuzione di un intervento su un edificio esistente è che tale edificio non sia abusivo, e quindi sia stato realizzato in conformità al titolo che lo ha assentito” (TAR Lombardia,MI,II,634/20 ) (1).

Infatti, secondo il predetto principio generale, i beni abusivi non dovrebbero essere trasformati, ma demoliti, e le difformità riscontrate ripristinate, escludendo quindi la loro eventuale sottoposizione ad interventi ulteriori, siano essi recuperatori, riqualificanti e, a maggior ragione, dove importino ampliamenti, dove un intervento – astrattamente legittimo – su un bene in realtà abusivo resterebbe “assorbito” nella difformità stessa, divenendo a sua volta abusivo (la teoria della c.d. “ripetizione”).

Il principio in questione è stato anche recentemente ribadito, affermandosi come “gli interventi edilizi ulteriori su manufatti abusivi che non siano sanati, né condonati, sia pure riconducibili nella loro oggettività alle categorie della manutenzione straordinaria, del restauro e/o risanamento conservativo [interventi, quindi, di ordine strettamente conservativo], della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche, deve ritenersi che ripetano le caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale ineriscono strutturalmente..” (Cons.St.VI,1858/21) (2).

E’ evidente che facendo stretta applicazione del principio esposto, l’intervento edilizio previsto all’art.93 ultimo comma LR 61/85 si prospetta di immediato contrasto con gli indicati assunti giurisprudenziali.

Invero, l’ostacolo potrebbe essere superato considerando come l’intervento in questione è previsto da una disposizione di rango legislativo, dove quindi è la legge stessa che ammette un intervento diretto su un bene abusivo, derogando così al predetto principio giurisprudenziale che, quindi, manterrebbe intatta la sua portata applicativa nella generalità delle fattispecie abusive, trovando una eccezione proprio nella ipotesi di cui all’art.93 LR 61/85, non senza considerare che lo stesso legislatore nazionale ha ammesso, a suo tempo, la possibilità di intervenire su un immobile abusivo a certe condizioni, come previsto dall’art.35 L.47/85.

2.3 – Gli ambiti esclusi

Venendo poi ad altri aspetti dell’ambito applicativo della disposizione, richiamando l’art.34 DPR 380/01 la nuova norma esclude che possano avvalersi dell’intervento in questione quelle situazioni in cui ricorrano le abusività più gravi, dove quindi il costruito a prescindere dai limiti dimensionali sia: i – privo di titolo (abusività totale); ii – totalmente difforme da un titolo rilasciato, ai sensi dell’art.31 DPR 380/01; iii – sostanziante una ipotesi di variazione essenziale di cui all’art.32 DPR 380/01 e all’art.92 LR 61/85 (per quanto ritenuto applicabile).

La disposizione è quindi chiara nel sottrarre dal novero dei manufatti possibilmente interessati dall’iniziativa tutte quelle situazioni di totale e grave irregolarità e abusività edilizia e che, nella loro consistenza e conformazione, superano certamente il limite della parziale difformità.

La espressa indicazione contenuta nell’art.93 ultimo comma LR 61/85 esclude anche la possibilità di applicare la norma all’ipotesi di abusività prevista dall’art.33 DPR 380/01 (Interventi di ristrutturazione edilizia in assenza di permesso di costruire o in totale difformità), nonostante la apparente identità di parte della disciplina sanzionatoria, esclusione che appare anche non consona al contenuto dei precedenti commi dell’art.93 LR 61/85 intitolato “Sanzioni amministrative per interventi in parziale difformità e per ristrutturazioni abusive”, che sostanzialmente accumuna le due fattispecie (anche dove la ristrutturazione fosse totalmente abusiva, quindi sine titulo, ovvero in totale difformità o con variazioni essenziali).

Tale esclusione appare in linea con la diversificazione della ristrutturazione edilizia rispetto agli altri interventi invece operata nel DPR 380/01, che ha infatti previsto all’art.33 DPR 380/01 una fattispecie autonoma in ordine alla ristrutturazione abusiva, come distinta dalla parziale difformità edificatoria, disciplinando le conseguenze di una totale abusività (assenza di permesso di costruire) o di una totale difformità rispetto ad un titolo ristrutturativo riguardante un edificio preesistente, lasciando peraltro aperta, anche in via generale, la problematica della configurabilità di una parziale difformità connessa alla esecuzione di una ristrutturazione edilizia. Infatti, tale ultima fattispecie non ha una espressa disciplina nel DPR 380/01, reperendola, invero, nell’art.93 LR 61/85 (al quale, allora, dovrebbe farsi riferimento), fermo restando che, in presenza di una difformità minore in sede esecutiva, appare ininfluente che questa possa trarre una sua origine nella esecuzione di un intervento edilizio autorizzato relativo ad una nuova costruzione piuttosto che ad una ristrutturazione, intesa come intervento ex post sull’esistente.

Sul punto, quindi, il dato formale non pare al momento superabile, anche se dal punto di vista logico e fattuale la carenza non pare giustificata, soprattutto se correlata alle finalità “recuperatoria” della nuova norma regionale.

2.4 – Altri dubbi interpretativi

Il richiamo all’art.34 DPR 380/01 pone altre questioni, avendo a riguardo particolari aspetti di applicazione della disposizione statale, il tutto con evidenti riflessi sulla operatività dell’art.6 LR 19/21; si fa riferimento ad alcune questioni sorte nella pratica circa il perimetro applicativo dell’art.34 DPR 380/01, in relazione alle quali la giurisprudenza ha delineato alcune specifiche linee interpretative, che potrebbero a prima vista limitare la applicazione della nuova norma regionale.

Un primo profilo riguarda un aspetto cronologico, per cui dovrebbero rientrare nell’ambito applicativo dell’art.34 DPR 380/01 solo gli edifici interessati da difformità realizzate nella esecuzione del titolo originario, e non quindi poste in essere in occasione della attuazione di eventuali titoli successivamente conseguiti (siano essi diretti ad autorizzare un ampliamento, ovvero una ristrutturazione), ovvero anche non assistiti da eventuali ulteriori e successive abilitazioni; in altre parole, la norma statale troverebbe applicazione solo dove le difformità siano riferibili alla esecuzione del primigenio intervento edilizio autorizzato e non ad altri e successivi interventi che possano aver interessato l’edificio una volta che lo stesso sia già stato realizzato.

In merito, il predetto il principio, per cui l’art.34 DPR 380/01 non potrebbe trovare applicazione ad eventuali opere di ampliamento successive a quelle realizzate con il titolo abilitativo originario, è stato affermato in più occasioni dalla giurisprudenza (3).

Conseguentemente, dovrebbero essere escluse dalla possibile applicazione della nuova norma quelle parziali difformità che si originino da eventuali provvedimenti abilitativi che siano emessi successivamente alla iniziale realizzazione dell’edificio, incluse quindi eventuali ristrutturazioni edilizie o ampliamenti sine titulo, in esecuzione delle quali sono state realizzate delle parziali difformità, con l’effetto di determinare quindi un restringimento delle parziali difformità “rimediabili”, avendo in considerazione il momento della loro esecuzione, dovendo essere, quelle “utili” e quindi rilevanti, le opere correlate unicamente alla esecuzione del titolo originario.

L’elemento cronologico potrebbe altresì avere un rilievo anche per un secondo profilo, come tracciato ancora una volta dalla giurisprudenza, e riferibile al momento in cui verrebbe a maturare il requisito previsto nella fattispecie delineata dal comma 2 dell’art.34 DPR 380/01, dove si prevede una sanzione pecuniaria come alternativa alla demolizione.

Potrebbe infatti verificarsi che la violazione addebitata per difformità, nella sua effettiva ed oggettiva consistenza, sia accertabile come parziale solamente in esito alla valutazione tecnica degli elementi verificati in sede repressiva, dove l’ipotesi del possibile pregiudizio per la parte conforme emerga solo successivamente alla emissione del provvedimento sanzionatorio della difformità.

Si afferma infatti, come lo spazio operativo per poter applicare la oblazione del comma 2 dell’art.34 DPR 380/01, non sia rinvenibile in ogni momento, ma unicamente nella fase c.d. “esecutiva” del procedimento sanzionatorio e, quindi, successivamente alla avvenuta emissione dell’ordinanza di cui al comma 1 dell’art.34 DPR 380/01, la cui attuazione viene a scontrarsi con il possibile pregiudizio per la parte, invece, conforme della costruzione, aprendo la possibilità di oblare la difformità ed evitare così demolizioni o ripristini in pregiudizio alla parte conforme.

In buona sostanza, se la preventiva avvenuta emissione della ordinanza di cui al comma 1 dell’art.34 DPR 380/01, è individuato come presupposto necessario per potersi applicare la oblazione prevista dal comma 2, come affermato univocamente dalla giurisprudenza (4), è evidente che la sussistenza del presupposto per l’applicazione dell’art.93 ultimo comma LR 61/85 nella fattispecie viene a maturare quando il procedimento di repressione dell’abuso è già arrivato alla emissione di un provvedimento repressivo.

Alla luce di tale orientamento, viene quindi da chiedersi se anche tale elemento sia da considerare o meno un presupposto di applicazione della nuova disposizione regionale, nel senso di ritenere sussistente una fattispecie ex art.34 DPR 380/01 risolvibile con l’intervento disciplinato dalla nuova norma regionale solo dove sia già stata emessa una ordinanza comunale di demolizione, e non anche dove, invece, l’ordinanza in questione manchi.

E’ evidente che l’assunto per cui, a rigore, la fattispecie di cui all’art.34 comma 2 DPR 380/01 potrebbe essere riconosciuta solo dopo che l’abuso parziale sia stato colpito da una ingiunzione a demolire e, in relazione, alla quale poi sia stata verificata la sussistenza della possibile dannosità per la parte dell’edificio invece legittimamente realizzata, rappresenti un elemento evidentemente ostativo all’applicazione della norma regionale, per cui si auspica che la disposizione dell’art.93 ultimo comma LR 61/85 di recente conio trovi una coerente applicazione prescindendo dalla avvenuta formalizzazione dell’ordinanza di rimozione e ripristino, considerando quindi con favore il beneficio riconosciuto dal legislatore regionale alla rimozione dell’abuso e alle rivitalizzazione nonché trasformazione del bene “depurato” dalla parziale abusività, e ammettendo ragionevolmente la applicazione della nuova norma anche quelle ipotesi in cui la parziale difformità non sia stata ancora colpita da un ordinanza repressiva comunale, dando così rilievo al dato oggettivo della entità della violazione.

Una simile opzione appare anche opportuna per non gravare gli uffici di possibili procedimenti sanzionatori propedeutici alla eventuale applicazione della norma, per cui sembra ragionevole ammettere la presentazione di una istanza ai sensi dell’art.93 ult.comma LR 61/85 anche ed indipendentemente dalla avvenuta irrogazione della ordinanza sanzionatoria.

In terzo luogo, il richiamo all’art.34 DPR 380/01 impone il confronto anche con un ulteriore elemento di criticità, come riferito al tema della indemolibilità della parte abusiva per affermato pregiudizio alla parte conforme, presupposto la cui valutazione è rimessa agli Uffici comunali, rilevando se anche tale aspetto sia da considerarsi o meno requisito per la applicazione della norma come richiamato dal legislatore statale.

Se l’elemento della non demolibilità della parte difforme per pregiudizio a quella conforme sia da considerarsi anch’esso un requisito per applicare la norma, rappresenta un tema di non agevole soluzione, in considerazione dei suoi caratteri, sia di ordine soggettivo, come oggettivo, come delineati dalla giurisprudenza.

Fermo restando che la comprova della effettività del pregiudizio arrecato alla parte conforme deve essere fornita dall’interessato come fondata su una adeguata e motivata serie di elementi di carattere tecnico (con una dimostrazione che dovrebbe essere data “in modo rigoroso”, cfr. TAR Sicilia,PA,439/20), anche sulla perimetrazione del requisito della “parte conforme” che andrebbe tutelata in sede esecutiva, la giurisprudenza – dopo alcune pronunce contrastanti – sembra essersi orientata nell’affermare come il danno debba essere inteso come non riguardante genericamente le “altre” parti dell’edificio, ma deve essere esteso addirittura all’intero edificio, avendo a riguardo la stabilità dello stesso (come di recente precisato da TAR Veneto,II,294/19, secondo cui “il pregiudizio che il privato ha l’onere di provare, al fine di escludere la sanzione demolitoria, deve consistere nella menomazione della stabilità dell’intero manufatto, non essendo rilevanti pregiudizi alla funzionalità della parte legittimamente edificata” conf. TAR Lombardia,MI,IV, 1989/18, Cons.St.VI,6658/18, V,1912/13).

E’ evidente che la piena e acritica applicazione anche di tale elemento espressamente contemplato nella norma statale, non può che rappresentare un ulteriore ostacolo alla effettiva applicazione della norma, atteso che una parziale difformità sembra difficilmente prospettabile nei termini predetti, avendo a mente requisiti statico-costruttivi e non funzionali dell’immobile, onerando comunque la parte interessata di dover dare una prova rigorosa della non demolibilità, per cui anche in tale contesto appare ragionevole e proporzionale una interpretazione della norma per tale aspetto e che superi tale requisito, considerando come la fattispecie che, a tutto concedere, è alla fine diretta alla eliminazione di una difformità e alla contemporanea trasformazione, con un aliquid novi, del preesistente manufatto, dove il richiamo fatto dal legislatore regionale all’art.34 DPR 380/01 era quindi evidentemente operato alla stretta identità obiettiva dei caratteri dell’abuso e non agli eventuali elementi applicativi conseguenti e collegati alla norma statale come interpretata.

Pertanto, appare congruo prescindere dalla necessaria e preventiva dimostrazione della non demolibilità nei termini applicativi effettuati dell’art.34 DPR 380/01.

Si pone il dubbio se abbia o meno un rilievo la diversa questione che invece attiene al momento in cui può farsi applicazione della monetizzazione dell’abuso non demolibile che, come indicato dalla giurisprudenza consolidata già vista (4), viene individuato come verificabile nella c.d. “fase esecutiva” del provvedimento sanzionatorio emesso, e non quindi “ex ante” in un momento procedimentale antecedente.

Si ritiene che la predetta questione non abbia una concreta rilevanza della fattispecie, dove una applicazione logica e coerente della nuova norma regionale non può che portare al superamento dell’eventuale blocco che anche tale rilievo pone, prescindendo che la situazione della non demolibilità sia prospettata sin dal momento della possibile evidenza dell’abuso parziale ovvero compaia solo nella fase esecutiva.

Altri aspetti relativi ad elementi oggettivi di possibile applicazione della norma verranno appositamente evidenziati nel prosieguo come relativi a specifiche questioni o normative.

 

  1. L’AMBITO SOGGETTIVO

Anche l’ambito soggettivo di applicazione della nuova disposizione offre alcuni spunti di riflessione.

L’art.93 ultimo comma LR 61/85 individua quale soggetto legittimato a presentare la relativa istanza edilizia, un non meglio precisato e qualificato “interessato”.

Nel silenzio della legge, viene da chiedersi se tale individuazione risponda all’intento di ampliare la platea dei soggetti legittimati ad avanzare una richiesta di rilascio del titolo in esame, considerando che nella prospettiva del legislatore regionale, come visto, la disposizione sarebbe diretta ad eliminare difformità e quindi un situazione di abusività; pertanto, in relazione a tale soluzione apparirebbe coerente riconoscere la possibilità di proporre la relativa istanza anche a soggetti diversi rispetto a quelli che l’art.11 DPR 380/01 indica come certamente legittimati a conseguire in via ordinaria un titolo edilizio (quindi il proprietario dell’immobile o chi abbia “titolo” per richiederlo), quindi avvicinandosi a quella legittimazione “allargata” prevista in tema di sanatoria edilizia, dove l’art.36 DPR 380/01 abilita alla presentazione della relativa istanza, oltre che l’attuale proprietario dell’immobile, anche il responsabile dell’abuso (ferma la plurisoggettiva individuazione posta dall’art.29 DPR 380/01).

Il vocabolo usato, più che richiamare una situazione di titolarità certa di un diritto o di una posizione qualificata rispetto al bene, evoca senza dubbio una relazione diversa, quella di “interesse” in senso sostanziale, forse non solo di natura patrimoniale, quasi a voler attribuire suggestivamente anche a soggetti diversi dal titolare o dall’avente diritto tradizionalmente identificati ed identificabili, una legittimazione correlata ad un loro interesse giuridicamente rilevante (peraltro non qualificato) a presentare l’istanza.

E’ indubbio che il riferimento ad un “interessato” prevede una individuazione del tutto diversa e suggestiva rispetto agli ordinari parametri che identificano i soggetti legittimati a presentare istanze edilizie, potendosi certamente identificare in via teorica quale interessato anche un soggetto, come il responsabile dell’abuso, diverso dal mero proprietario.

Peraltro, la disamina delle possibili legittimazioni astrattamente prospettabili, non pare consentire la individuazione di una peculiare legittimazione estensibile al trasgressore o ad altri soggetti responsabili secondo l’art.29 DPR 380/01 e che non coincidano con il titolare attuale del bene (o altri aventi titolo ex art.11 DPR 380/01), e ciò non solo perché nella vicenda non sembra rinvenibile con certezza una natura “sanante” della istanza nei termini espressi dall’art.36 DPR 380/01, ma anche perché non appare plausibile che effettivamente soggetti diversi dal titolare o dall’avente titolo, come usualmente identificati, abbiano quella legittimazione a chiedere un intervento su un bene che, in realtà, non sarebbe di loro titolarità o nella loro disponibilità, e il cui sviluppo trasformativo (tramite una ristrutturazione o una nuova costruzione che connotano quale parte costruens l’intervento) non pare sia loro direttamente ascrivibile; pertanto, alla fine, costoro non risulterebbero neppure avere un interesse rilevante in grado di proiettarsi in una qualche legittimazione sostanziale diretta, ovvero anche sostitutiva o alternativa, rispetto ai soggetti legittimati in via ordinaria.

In conclusione, a dispetto della suggestiva previsione legislativa, la legittimazione alla presentazione della domanda sembra da circoscriversi unicamente alle figure ordinarie abilitate dal DPR 380/01 per cui, l’istanza potrà essere presentata dai soggetti che in via ordinaria posseggono tale facoltà, con tutte le note implicazioni e conseguenze, come le complessità e criticità nell’ambito dei condomini di edifici, dove sovente le abusività interessano più unità immobiliari (e, magari, neanche tutte).

 

  1. L’ISTANZA

La disposizione non prevede particolari formalità per il conseguimento del relativo titolo abilitativo.

Si deve quindi supporre che il tutto sia attivato con la presentazione di una apposita richiesta agli Uffici Comunali dove, nell’ambito di un progetto di esecuzione di un intervento di ristrutturazione edilizia (art.3 comma 1 lett.d DPR 380/01) ovvero di nuova costruzione (art.3 comma 1 lett.e) DPR 380/01), deve essere necessariamente contenuta la evidenza di alcune opere abusive, dove la loro eliminazione diviene oggetto di una specifica attività da porre in essere nel contesto degli interventi ammessi e proposti, fermo restando che questi per essere autorizzati devono essere a loro volta conformi agli strumenti urbanistici e quindi dovranno essere eseguiti entro un termine fissato dal Comune, come indicato dalla disposizione.

La norma regionale, quindi, individua le sole due tipologie di intervento nelle quali è possibile inserire la eliminazione dell’abuso, prevedendo una ristrutturazione edilizia ovvero, in alternativa, una nuova costruzione (giusto il richiamo all’art.3 comma 1 lett.d) ed e) DPR 380/10 contenuto nella norma).

La disposizione non indica l’atto autorizzatorio comunale che, eventualmente, dovrebbe venire emesso in accoglimento della istanza presentata, se quindi l’atto di assenso sia un permesso di costruire ovvero se la abilitazione possa essere conseguita anche con una SCIA in senso stretto ovvero con una SCIA alternativa al permesso ordinario.

Considerando che si tratta di interventi edilizi di una certa consistenza, in linea di principio sembra corretto che questi debbano essere autorizzati con il rilascio di un permesso di costruire, dove il ricorso ad una SCIA o ad una SCIA alternativa, seppure astrattamente ipotizzabile, non appare coerente con il disposto normativo.

Depone infatti per la emissione di un provvedimento espresso, e quindi di un riscontro provvedimentale effettivo da parte della P.A. (e quindi un permesso), il fatto che l’Amministrazione nell’accogliere la domanda deve anche indicare il termine finale entro il quale l’intervento deve essere eseguito, come previsto per la fattispecie direttamente dalla norma, termine che – ragionevolmente – dovrebbe essere contenuto ed inserito nel testo del provvedimento abilitativo che, quindi, non può essere che espresso.

Tale circostanza dovrebbe anche escludere la possibilità di conseguire una abilitazione mediante silenzio-assenso secondo l’art.20 DPR 380/01.

La disposizione, invero, pone alcune questioni rilevanti in considerazione del contenuto del titolo che autorizzi l’intervento, in ragione della individuazione di alcuni elementi necessari per poter dare luogo alla autorizzazione all’esecuzione dell’intervento che ci occupa.

4.1 – La eliminazione delle opere difformi

Viene in rilievo un primo elemento specifico e caratteristico della disposizione, per cui l’istanza relativa deve necessariamente contenere e palesare la sussistenza delle abusività che verrebbero eliminate nel contesto della esecuzione di uno dei due interventi ricostruttivi proponibili, evidenziando quindi un preciso intento di elidere le parti difformi.

La predetta circostanza assume nella fattispecie un ruolo determinante, sostanziando un presupposto dell’intervento stesso, e si deve ritenere che non possa mancare nel contesto della istanza (a prescindere quindi che le abusività siano note all’Amministrazione) la manifestazione di una volontà volta alla eliminazione delle opere abusive.

Nell’ipotesi in cui, nonostante la evidenza dell’abuso, nel contesto dell’istanza risulti che questo non venga eliminato integralmente, si deve ritenere che manchi quella manifestazione di volontà diretta alla eliminazione dell’abuso, per cui una simile richiesta dovrebbe essere certamente respinta, evidenziando quindi che la istanza non può essere concettualmente separata da un intento, confermato graficamente negli elaborati tecnici e nella relazione di progetto, di eliminare le abusività presenti e che di fatto con l’esecuzione dell’intervento devono necessariamente venire a meno.

Viene quindi da chiedersi come nella fattispecie debba essere valutato l’impegno ad eliminare le difformità presenti nell’edificio.

Occorre muovere dalla circostanza per cui la espressa indicazione della eliminazione delle opere abusive (come evidenziate nel progetto) rappresenta un elemento costitutivo e condizionante del provvedimento abilitativo che fosse rilasciato, visto che senza una demolizione preventiva/contestuale della parte abusiva non potrebbe farsi luogo, non solo giuridicamente, ma anche fattualmente, alle successive attività realizzative che si propone di attuare sull’immobile.

Per un primo aspetto, si potrebbe ipotizzare che la richiesta in questione sia da ricondurre ad una sorta di impegno unilaterale che l’interessato assume nella dinamica dell’intervento, e con il quale evidenzia la consapevolezza della efficacia condizionante che va riconosciuta alla eliminazione delle opere abusive, nonchè della conseguente validità del titolo in quanto correlato.

Diversamente, si può anche ipotizzare che la espressione della volontà in questione possa essere ricondotta alla formazione di un titolo edilizio condizionato, nel quale – dato atto delle difformità e della volontà di eliminarle nel contesto dell’intervento – si condiziona la validità ed efficacia dell’atto autorizzativo all’effettivo preventivo assolvimento dell’onere eliminativo.

Una risposta certa ed univoca sulla questione non appare agevole, anche se entrambe le soluzioni evidenziano un titolo edilizio in qualche modo correlato alla eliminazione della difformità nella fase esecutiva dell’intervento, essendo evidente che nella sequenza procedimentale, diretta al rilascio del provvedimento finale, si viene ad inserire un elemento che non può che essere costitutivo della fattispecie complessa, e il cui eventuale inadempimento, come si dirà, non potrebbe non avere un rilievo.

Per altro verso, occorre considerare come la disposizione presenta due elementi “condizionanti” ben distinti: il primo, relativo alla previsione della eliminazione della parte difforme, e il secondo, invece, connesso al rispetto di un termine fissato da Comune per dare corso all’intervento (fermo restando che il requisito della conformità urbanistica contenuto nella norma è un presupposto del rilascio del titolo e non un elemento accidentale in senso stretto).

Non è questa la sede per dilungarsi su una disamina della complessa tematica dei provvedimenti amministrativi condizionati (5) e, quindi, della peculiare categoria dei titoli edilizi condizionati (6), ma non vi è dubbio che le soluzioni approntate alle problematiche scaturenti da un atto condizionato sicuramente possono essere utili per delineare le prospettive di applicazione della nuova norma.

I dubbi sulla ammissibilità di un titolo edilizio condizionato sono tuttora sussistenti (7), con la ulteriore implicazione di altre criticità dove questi riguardino provvedimenti aventi la funzione di regolarizzare, come l’ordinario accertamento di conformità ex art.36 DPR 380/01, una vicenda abusiva (8), presentando ulteriori elementi di complessità nell’ambito di regolarizzazioni postume in abusi in zone vincolate (9).

La questione potrebbe essere superata muovendo dalla considerazione che la richiesta/impegno ad eliminare l’abuso in questione non sostanzi una condizione in senso stretto (quindi civilisticamente intesa), né sospensiva, né risolutiva, ma appunto la evidenza di un adempimento, assunto liberamente e consapevolmente dal concessionario in adesione ad un modello legale (10), e da questi accettato, per cui la sua assenza non consente certamente il rilascio dell’atto abilitativo, di cui – allora – non rappresenta una condizione, quindi un elemento accessorio (con il corollario della possibile irragionevolezza ed arbitrarietà del suo contenuto), ma un elemento costitutivo, essenziale, aderente ad un preciso modello legale e, dunque, prescrittivo, con i riflessi conseguenti in ipotesi di sua inesecuzione totale o parziale, dato il carattere di presupposto che connota l’attività eliminatoria, per cui la eventuale assenza – totale o parziale – dell’attività di eliminazione dell’abuso individuato, determina la illegittimità (e quindi abusività) dell’attività edificatoria conseguente.

Pertanto, le perplessità sul tema della illegittimità o inefficacia delle prescrizioni (inclusa quella relativa al termine di conclusione dell’intervento autorizzato, di cui si dirà), dovrebbero essere superate sul rilievo che la “condizione” de quo reperisce una sua legittimazione direttamente nella testo legislativo, non trovando entrambe le prescrizioni contenute dalla norma (si l’onere eliminatorio, come il termine finale, di cui di dirà), infatti, una loro fonte (an) nella discrezionalità o nell’arbitrio del Comune, ma direttamente su una fonte legislativa primaria che le prevede e la regola, escludendo al contempo che la stessa tragga la sua origine in un impegno assunto (più o meno liberamente) dal privato in vista del conseguimento di una utilità.

A ciò si aggiunga che, indubbiamente, in una logica di favore nei confronti dell’interessato, non viene imposto alcun adempimento che possa dirsi arbitrario, illogico o immotivato in capo al soggetto proponente, dove nel contesto di un provvedimento specifico il bene, che presenta abusività, non avrebbe potuto essere trasformato, con le conseguenti complicazioni anche in vista di futuri trasferimenti e cessioni del bene stesso.

Si deve quindi concludere che l’interessato, con la presentazione della istanza in questione, aderisce ad un modello legale, dove l’elemento presupposto e condizionante della contestuale eliminazione della difformità è dettato direttamente dalla norma, superando i dubbi e perplessità manifestati sui titoli condizionati.

Pertanto, appare del tutto imprescindibile che il testo del provvedimento concessorio menzioni espressamente l’obbligo di eliminare la difformità, come proposto ed assunto dall’interessato.

Con riferimento agli adempimenti che in linea teorica potrebbero essere, in via ipotetica, imposti al concessionario, si è affacciata la soluzione (avvalorato anche dalle ultime decisioni giudiziarie del Consiglio di Stato in tema di adempimento agli atti unilaterali d’obbligo) di conseguire il rilascio di una apposita garanzia fideiussoria a favore del Comune, come diretta a garantire l’adempimento demolitorio, come strettamente connesso alla attività assentita di cui all’art.93 ultimo comma LR 61/85.

E’ appena il caso di rilevare che, in caso di mancata esecuzione, l’Amministrazione si troverebbe al cospetto di un abuso e quindi del presupposto per fondare l’azione ripristinatoria e sanzionatoria, di carattere doveroso, e nel cui contesto – comunque – non può escludersi che tale attività possa, se accettata dall’interessato, essere comunque coperta da una garanzia apposita.

La soluzione, per quanto suggestiva e sicuramente volta a garantire in qualche modo il rispetto della prescrizione eliminatoria (tra l’altro, come visto, assunta liberamente dal concessionario), appare in realtà una complicazione, se non una forzatura, non solo in ragione del fatto che il mancato rispetto della condizione che connota il titolo de quo determina la insorgenza di una abusività (dando quindi spazio alle doverose iniziative di ordine sanzionatorio e repressivo), ma anche considerando che l’inadempimento presupposto e quindi fondante l’incasso della fideiussione dovrebbe portare poi il Comune alla esecuzione, come finanziata dalla fideiussione, della parte di intervento omessa o parzialmente eseguita, in via sostitutiva al privato, in connessione ad un intervento privato (e non quindi di immediato e diretto interesse pubblico) e che resta tale, con evidenti difficoltà non solo sistematiche, ma anche di ordine applicativo con la parte restante dell’intervento; in ogni caso, una simile ricostruzione verrebbe a costituire la fideiussione in questione come una sorta di penale “indiretta” a carico del concessionario, per cui in presenza dell’inadempimento accertato agli obblighi eliminatori, tale situazione determinerebbe il presupposto per incamerare quella che si rivelerebbe come una sanzione pecuniaria connessa alla inesecuzione dell’obbligo assunto in sede di rilascio del titolo abilitativo, prospettando così un onere di natura contrattuale di problematica giustificazione.

4.2 – La conformità urbanistica

La eliminazione dell’opera abusiva non costituisce nella dinamica dell’intervento l’unico elemento con una attitudine “condizionante”.

La disposizione infatti prevede, oltre alle due condizioni formalmente indicate della eliminazione della parte abusiva e del rispetto del termine finale previsto, la sussistenza espressa della necessaria conformità dell’intervento construens alla disciplina degli strumenti urbanistici vigenti.

In realtà, il richiamo in questione potrebbe sembrare inutile (tanto che, secondo alcuni commentatori, la precisazione di tale componente sarebbe addirittura superflua), atteso che non pare ammissibile un intervento edilizio che non sia conforme alla disciplina urbanistica-edilizia vigente al momento del rilascio del relativo titolo, come indicato dall’art.12 DPR 380/01.

A ben vedere, la predetta indicazione normativa appare diretta a riaffermare il predetto principio generale della necessaria conformità del progetto presentato alla disciplina urbanistica-edilizia vigente, valorizzando e rafforzando la precisa volontà del legislatore regionale di conseguire e mantenere la conformità alla disciplina urbanistico-edilizia vigente della nuova attività costruttiva ammessa con il titolo in questione, che seppure ancorata ad una situazione di abusività, come rimediata, rimane nei parametri della legittimità e regolarità secondo ogni profilo, chiarendo ad ogni livello (e quindi anche per superare gli iniziali dubbi di legittimità costituzionale della fattispecie, come possibile forma di sanatoria o condono) che quanto autorizzato, in quanto conforme, non regolarizza o condona nulla ex post, ma sostanzia una piena conformità alla normativa urbanistico-edilizia vigente.

Sotto altro profilo, non può che ritenersi una svista del legislatore regionale il solo richiamo alla conformità dell’iniziativa agli strumenti urbanistici, e non anche alla normativa in generale come vigente; è di tutta evidenza che la iniziativa edilizia come proposta deve essere rispettosa non solo delle sole previsioni degli strumenti urbanistici ma, evidentemente, di tutta la normativa tanto di rango legislativo e primario, come regolamentare, inclusa quella pianificatoria, che disciplina l’attività edificatoria nell’edilizia come connessa ai due interventi costruttivi indicati.

Conseguemente, va quindi escluso a priori che siano ammissibili eventuali proposte progettuali che siano inerenti a conformità limitate o parziali del nuovo progetto, riferite unicamente agli strumenti urbanistici evocati dalla disposizione, o che in qualche modo, per altro verso e in via elusiva, siano volte a “recuperare” e mantenere in via parziale l’abuso nel contesto dell’intervento costruens.

In ragione della compatibilità dell’intervento con la normativa vigente, non pare sussistano, allo stato, incompatibilità con alcuno degli interventi previsti dalla LR 14/19 (Veneto 2050), quindi sia la fattispecie dell’ampliamento di cui all’art.6 come della rigenerazione attuata con l’art.7, sempre nel rispetto dei requisiti fissati dalle predette norme regionali che, come noto, per una prima ipotesi è riconducibile ad una nuova attività costruttiva, mentre la seconda ipotesi viene ricondotta ad una ristrutturazione edilizia qualificata come eseguita con demolizione e ricostruzione.

In realtà, a ben vedere, la previsione pone un problema applicativo di non poco conto, proprio avendo a riguardo la possibile esecuzione di un intervento di ristrutturazione edilizia, la cui realizzazione, per consolidato orientamento (11), non sarebbe – diversamente da quanto si verifica con la nuova costruzione – strettamente legato al rispetto delle norme urbanistiche sopravvenute e successive alla originaria esecuzione dell’opera (si pensi alla disciplina delle distanze), per cui – a rigore – una ristrutturazione edilizia con demolizione integrale e ricostruzione rientrante nei paradigmi attuali dell’art.3 comma 1 lett.d) DPR 380/01 potrebbe legittimamente svincolarsi dal rispetto della attuale conformità urbanistica come intesa sino ad oggi e riferita alla normativa attualmente vigente, proprio perché ristrutturazione edilizia, venendo in contrasto con la specifica previsione della norma che, invece, oppone quale parametro espresso la conformità dell’intervento alla disciplina attualmente vigente.

Il contrasto certamente sussiste e la questione pone quindi una alternativa, se ritenere l’intervento de quo (dove si attui con una ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione), come una ordinaria ristrutturazione di cui all’art.3 comma 1 lett.d) DPR 380/01, e quindi slegata dal rispetto della normativa attualmente vigente, venendo però a contrastare con il dettato dell’art.93 ultimo comma LR 61/85, ovvero come una nuova fattispecie ristrutturativa, diversa dalla fattispecie posta dalla legge statale, in qualche modo più circoscritta nel proprio ambito applicativo, e necessariamente rispettosa della normativa urbanistico-edilizia attualmente vigente, che verrebbe ad imporsi nell’attività ricostruttiva, perdendo quindi quel vantaggio che da sempre viene riconosciuto alla ristrutturazione rispetto alla nuova costruzione per tali aspetti.

Una soluzione, anche in mancanza di coordinamento tra la norma statale e quella regionale, non sembra agevole e sicura; un qualche lume orientativo può essere reperibile nei pronunciamenti della Corte Costituzionale (e di cui si dirà), secondo cui al legislatore regionale è preclusa la facoltà di dettare una disciplina degli interventi edilizi che sia diversa e autonoma (quindi anche introducendo una tipologia di intervento edilizio nuovo) rispetto a quella posta dalla legislazione statale, individuata quale normativa di principio, per cui la ipotesi di delineare nella fattispecie una sorta di ristrutturazione edilizia di conio regionale, “depotenziata” rispetto a quella statale, sembrerebbe – a prima vista – poco credibile; a ciò si aggiunga che la ristrutturazione edilizia evocata nell’art.6 LR 19/21 fa espresso richiamo lei stessa al disposto della norma statale di cui all’art.3 comma 1 lett.d) DPR 380/01 quale proprio peculiare ambito applicativo, per cui il legislatore regionale ha senza dubbio avuto quale prospetto di applicazione la norma statale e quindi le potenzialità attuative contenute nella stessa, per cui nella fattispecie si dovrebbe ritenere che, in adesione alla disciplina nazionale dell’intervento, la ristrutturazione edilizia  possa derogare all’obbligo del rispetto della normativa urbanistico-edilizia sopravvenuta, anche considerando il disposto, in tema di distanze, ad esempio, dell’art.2 bis comma 1 ter DPR 380/01.

4.3 – Il rispetto del termine finale

Il terzo elemento “condizionante” che la fattispecie autorizzatoria prevede è quello relativo alla fissazione del termine finale entro cui l’intervento deve essere eseguito, venendo previsto che la suddetta scadenza debba essere fissata dal Comune.

La espressa menzione della fissazione di un termine finale di compimento dell’intervento rappresenta un aspetto particolare della fattispecie, rendendo evidente che per il peculiare intervento in questione il legislatore veneto non ha ritenuto congrua la tempistica ordinaria dettata dall’art.15 DPR 380/01 per la conclusione dei lavori, prospettando quindi come opportuna una maggiore celerità per la loro esecuzione, implicando la eliminazione di un abuso, prescindendo dalla tempistica ordinaria e quindi avendo quale obiettivo la imposizione di una tempistica attuativa che, in linea teorica, dovrebbe essere più contenuta rispetto a quella del DPR 380/01.

Per altro verso, seppur evocando un qualche rigore, la norma non indica alcun termine, né minimo, né massimo, entro cui i lavori dovrebbero essere ultimati (fermo che nulla si dice in ordine al termine di inizio delle opere), lasciando la sua fissazione alla determinazione dell’Amministrazione.

Nel silenzio, al limite, il Comune potrebbe: i – accordare un termine inferiore a quello legale; ii – indicare termini del tutto coerenti con quelli previsti dalla legge; iii – riconoscere anche termini superiori; iv -per altro verso, ancora in alternativa, imporre una data fissa precisa, come termine finale.

Si è quindi al cospetto di una discrezionalità nella individuazione del momento finale utile per la conclusione dei lavori, che ragionevolmente dovrebbe essere connessa proprio alle singole situazioni e alla concreta fattispecie in cui la richiesta dell’interessato viene ad operare, lasciando un margine valutativo rilevante in capo al Comune.

Si può quindi ritenere che la scelta di non individuare ex ante nel testo legislativo il termine predeterminato per la conclusione dei lavori rappresenti una precisa volontà del legislatore, evidentemente diretta a non legare in modo prefissato la possibile realizzazione dell’intervento in via teorica e astratta, ma adeguando la individuazione del termine finale alle effettive e concrete esigenze costruttive presentate dalla singola proposta progettuale.

Si conferma quindi che il legislatore regionale ha avuto una peculiare attenzione alla fattispecie, preferendo non confezionare in via preventiva momenti e periodi temporali precisi, con una scelta che a prima vista potrebbe essere interpretata come una svista o una mancanza o una pericolosa attribuzione di una indiscriminata discrezionalità in capo agli Uffici comunali nella fissazione del termine finale.

In realtà, pare di potersi dedurre che la previsione in questione non debba essere considerata in tali termini, dovendo invece ravvedersi nella peculiare opzione di consentire al Comune la indicazione del termine finale, certamente il riconoscimento di una discrezionalità (che il diritto amministrativo, in generale, lamenta essere sempre più rarefatta, e quasi scomparsa nell’edilizia), ma anche la conferma di un affidamento come risposto nei Comuni nella determinazione del termine finale, riconoscendo una discrezionalità che ben dovrà essere esercitata in modo serio e circostanziato, come correlata ad una esecuzione congrua e coerente dell’intervento proposto, escludendo quindi spazi di arbitrarietà e di vessatorietà ovvero di incongruità, quale potrebbero essere la fissazione di un termine eccessivamente breve ovvero, al contrario, insolitamente lungo e abnorme.

Sarà quindi il caso specifico e la concreta progettualità dell’intervento a dettare gli elementi adeguati a una quantificazione corretta della tempistica di conclusione delle opere, in un contesto valutativo improntato ad elementi di carattere strettamente tecnico.

Per altro profilo, la fissazione di un termine deve ritenersi elemento necessario per integrare la legittimità della fattispecie, per cui dove tale termine non comparisse nell’atto abilitativo, questo dovrebbe ritenersi illegittimo, anche se qualche commentatore ha proposto, in via alternativa, di fare applicazione in via supplettiva del termine ordinario stabilito dall’art.15 DPR 380/01, con una soluzione tutta da valutare nella sua consistenza, in presenza, come detto, di un elemento “condizionante” l’intera fattispecie.

La prospettazione di un termine finale per la esecuzione di una attività costruttiva pone in via conseguenziale il dubbio se questo sia o meno prorogabile.

Sul punto la risposta non appare univoca; da un lato, adottando una linea rigida si potrebbe sostenere che, trattandosi di una fattispecie peculiare e sostanzialmente diversa dalla ordinaria nuova costruzione o ristrutturazione edilizia nei suoi presupposti, non pare concedibile una proroga del tutto analoga a quella riconoscibile in via ordinaria secondo l’art.15 DPR 380/01, anche in ragione del pubblico interesse che in qualche modo traspare e sembra collegato alla certa eliminazione di una situazione abusiva preesistente, e quindi connesso ad una tempistica certa e predefinita.

Sotto altro punto di vista, anche in considerazione delle stesse modifiche dei termini di conclusione dei lavori, poste nel tempo dal legislatore, come nel 2014, e ora in regime di pandemia, si potrebbe affermare come appare illogico negare la prorogabilità dei titoli edilizi rilasciati in base all’art.93 ultimo comma LR 61/85, anche sul rilievo che, comunque, si sarebbe al cospetto di un “ordinario” titolo a costruire, per cui vi sarebbe un certo interesse, non solo del privato, ma anche dell’Amministrazione di veder conclusi i lavori, comunque, in un secondo momento congruo.

Entrambe le prospettazioni appaiono condivisibili, anche se a parere dello scrivente la seconda ipotesi sembra preferibile anche per ragioni di ordine sistematico.

Peraltro, proprio muovendo dalla precedente esperienza degli atti unilaterali d’obbligo e dei titoli condizionati, secondo alcuni commentatori sarebbe possibile legare anche il rispetto del termine conclusivo di esecuzione dei lavori alla presentazione di una garanzia fideiussoria apposita che, quindi, garantisca in qualche modo la prospettiva di un serio adempimento del concessionario entro i termini temporali fissati nel titolo.

Come già indicato poco sopra, la ipotesi di imporre una fideiussione a garanzia anche di tale adempimento, imponendo un nuovo e diverso obbligo in capo al proprietario che non potrebbe che essere assunto su base volontaria, è certamente suggestiva; ma al di là del deterrente della eventuale escussione, non vi è chi non veda come l’incasso della somma garantita non sarebbe tanto diretto a consentire la effettiva esecuzione delle opere del privato come se fossero quelle pubbliche (il cui adempimento, tanto nelle opere pubbliche, come nelle convenzioni urbanistiche, è infatti garantito dalla prestazione di apposite polizze fideiussorie), fermo restando che appare difficilmente sostenibile che dovrebbe (e quindi potrebbe) essere il Comune a realizzare o completare le opere private.

La fideiussione diverrebbe quindi una sorta di penale che verrebbe introitata dal Comune per la manifesta violazione del termine, fermo restando che un prosieguo dell’attività costruttiva dovrebbe essere comunque prorogata e, a questo punto, a sua volta dovrebbe forse essere assistita dal rilascio di una nuova garanzia a tutela della imminente nuova scadenza, ponendo quindi tutta una serie di problemi applicativi.

Correlato alla tempistica dell’esecuzione è anche la possibilità  di operare varianti al titolo come rilasciato, dove tale facoltà si deve certamente ritenere praticabile, con l’evidente limite del rispetto dei requisiti sostanziali e degli elementi presupposti dell’intervento in questione,
Conseguentemente, non dovrebbero ritenersi ammissibili modifiche esecutive che siano dirette a modificare la natura dell’intervento, magari intervenendo sugli obblighi condizionanti sia sostanziali che formali come indicati dalla norma, quindi – a mero titolo di esempio – escludere la eliminazione della parte abusiva ovvero non prevedere il termine finale per l’esecuzione.

4.4 – Il mancato rispetto delle condizioni

Come già visto, la presenza delle due precise condizioni indicate dalla norma è elemento connaturale ed essenziale della fattispecie, prevedendo – per il primo aspetto – come il nuovo intervento (ristrutturazione o nuova costruzione) debba essere preceduto dalla eliminazione materiale e completa della parte abusiva, e – per il secondo aspetto – come le opere devono essere completate entro il termine finale fissato nel titolo stesso.

Viene quindi spontaneo chiedersi cosa succeda nella ipotesi in cui, per una qualche ragione, le predette condizioni non vengano adempiute, e quindi all’esito dell’intervento la parte abusiva non sia stata eliminata e risulti, anche solo in parte, ancora presente nella struttura edilizia, oppure i lavori non siano completati nel termine prefissato.

La questione impone valutazioni in parte diverse tra loro avendo a riguardo le due distinte ipotesi condizionanti.

Per un primo aspetto, apparentemente più semplice, il mancato compimento dei lavori nel termine prefissato, non dovrebbe esporre il concessionario a qualche conseguenza di ordine sanzionatorio, pur essendosi in presenza di un titolo rilasciato, anche se inseguito in tutto o in parte, aprendo quindi la prospettiva sulla questione, attualmente aperta, se la parziale attuazione del titolo edilizio rilasciato sia o meno una violazione edilizia, al netto della ammissibilità di un eventuale proroga.

Per quanto attiene invece alla mancata eliminazione, totale o parziale, della abusività presente, la riconduzione della fattispecie alla ipotesi dei titoli edilizi condizionati pone un ulteriore interrogativo, per cui se l’eventuale inadempimento rilevi solo dal punto di vista esecutivo, divenendo quindi una ulteriore difformità rispetto a quella esistente e non eliminata (sostanziando quindi una irregolarità in correlazione a quanto previsto nel titolo autorizzativo nella sua complessità), ovvero se il mancato adempimento possa anche avere in aggiunta un effetto caducatorio del titolo stesso, provocando una qualche decadenza del titolo e, conseguentemente, la illegittimità dell’intera attività edilizia construens.

In ordine a tali questioni, in primo luogo, va evidenziato che il mancato rispetto della condizione demolitoria evidentemente non pare configurabile dove l’intervento construens sia una ristrutturazione preceduta da una integrale demolizione dell’edificio (la c.d. ristrutturazione ricostruttiva); altrettanto, invero, non può dirsi in ipotesi di ristrutturazione conservativa e, a maggior ragione, nelle ipotesi di nuova costruzione o di ampliamento, dove progettualmente e sostanzialmente una parte del manufatto continuare ad esistere.

In tale fattispecie, la mancata eliminazione delle parti abusive, quale mancata osservanza di una norma di legge trasfusa nel titolo, potrebbe – come visto – legittimare un intervento sanzionatorio comunale, diretto al ripristino comunque della situazione difforme, non potendosi escludere la assunzione di altre e diverse misure sanzionatorie in relazione alla difformità rilevabile in concreto.
In seconda battuta, si deve considerare come il tema delle conseguenze della inosservanza delle condizioni e/o prescrizioni che dir si voglia, come caratterizzanti un titolo edilizio, è sostanzialmente ancora aperto (12) ma, dato il fondamento legale delle condizioni in questione, sembrerebbe più coerente la soluzione che individua nella fattispecie una abusività di quanto posto in essere, per manifesta difformità rispetto al titolo e a quanto in esso autorizzato, sia dal punto di vista sostanziale (con riferimento alla mancata eliminazione delle parti difformi) come da quello formale (con riguardo al mancato rispetto del termine finale), fermo restando che – in ogni caso – quanto realizzato in forza del titolo come rilasciato e non soddisfatto in termine di adempimenti condizionanti, diviene anch’esso abusivo e quindi, a sua volta, sottoponibile alle misure sanzionatorie, venendosi a presentare nella realtà una situazione fattuale non conforme che, infatti, se fosse stato rispettato il contenuto abilitativo del titolo, non dovrebbe sussistere.

4.5 – Altre considerazioni sulla parte costruens

Dal punto di vista attuativo, l’esecuzione del progetto potrebbe far sorgere altri dubbi applicativi, in considerazione della circostanza che la fattispecie disciplina l’intervento costruens alternativamente come una ristrutturazione edilizia ovvero una nuova costruzione nei termini indicati dal DPR 380/01.

Considerando la ipotesi della esecuzione di una ristrutturazione edilizia (RE), in ordine a tale tipologia di intervento non sembrano porsi particolari questioni; infatti, le due ipotesi  di ristrutturazione edilizia contenute nell’art.3 comma 1 lett.d) DPR 380/01 (dove a seguito delle integrazioni poste dal DL 76/20 conv. L.120/20) ricomprendono, secondo i criteri classificatori adottati dalla giurisprudenza, una ristrutturazione “conservativa” (mediante il ripristino o la sostituzione degli elementi costitutivi dell’edificio) e una ristrutturazione “ricostruttiva” (mediante integrale demolizione e ricostruzione di edifici preesistenti).

In tale ultima ipotesi, implicando la integrale demolizione dell’esistente manufatto, la applicazione della nuova norma non dovrebbe presentare fattualmente e logicamente questioni rilevanti, visto che la abusività esistente verrebbe meno con la eliminazione dell’intero edificio che la ospita, in esito al quale si consegue con la ricostruzione un nuovo edificio, fermo quanto sopra rilevato sulla problematica della estensione della ristrutturazione edilizia.

Con riferimento, invece, alla ipotesi della ristrutturazione conservativa, l’intervento de quo dovrà necessariamente prevedere la eliminazione della parte abusiva, anche dove quindi le altre attività di carattere sostitutivo edilizio dovessero interessare altre e diverse parti del manufatto, nell’ambito di un progetto raccordato e coordinato in una prospettiva conservativa dell’esistente.

Prendendo, invece, a riferimento un possibile intervento di nuova costruzione, si ritiene che il richiamo alla tipologia di intervento debba essere correttamente inquadrato.

Nella fattispecie, infatti, non dovrebbe ricorrere una ipotesi di “nuova” costruzione in quanto tale ed in senso stretto (che, logicamente e fattualmente, non può presentare una precedente difformità, essendo da realizzarsi un manufatto del tutto nuovo), quanto la diversa ipotesi di un eventuale ampliamento di un manufatto già esistente, e quindi implicante una modifica parziale della consistenza edilizia che, pertanto, diviene la opportunità di eliminare una difformità preesistente che caratterizza il manufatto.

Anche per tale ipotesi, nondimeno, la nuova attività edificatoria deve necessariamente contemplare la eliminazione della difformità, anche se localizzata in altra parte dell’edificio e quindi, al limite, laddove collocata in una parte non direttamente interessata dall’attività edilizia.

Resta fermo che il titolo abilitativo rilasciato sconterà il pagamento degli oneri dovuti per la tipologia di intervento edilizio in concreto autorizzato, facendo applicazione degli ordinari parametri.

Per quanto attiene poi alla materiale esecuzione dell’intervento autorizzato, non si ritiene che sul punto ci si debba discostare dalla ordinaria disciplina in materia, ammettendosi quindi pacificamente le eventuali varianti, avendo chiaramente a riferimento tanto l’obbligo eliminatorio (altrimenti non eludibile), che va mantenuto, quanto il rispetto del termine finale entro cui eseguire l’opera.

 

  1. COME CLASSIFICARE L’INTERVENTO?

Da quanto esposto sino ad ora, l’intervento introdotto dall’art.6 LR 19/21 non sembra rispondere ad alcuna tipologia di quelli indicati dal Testo Unico dell’Edilizia.

La fattispecie presenta elementi non del tutto omogenei tra loro; nel titolo in questione convivono elementi latamente repressivi con altri, invece, di natura propositiva, diretti alla realizzazione di un importante risultato edilizio, tramite una ristrutturazione o una nuova costruzione, in una ipotesi in cui genericamente verrebbe invece invocata la applicazione di una misura repressiva e in un contesto in cui gli immobili con abusività non sanate non sarebbero neppure sottoponibili ad interventi trasformativi.

La disposizione rende applicabile una soluzione a dir poco innovativa, per cui, in esito ai lavori così autorizzati, quanto realizzato si presenterebbe perfettamente legittimo e in armonia con la attuale normativa urbanistico-edilizia, benché in precedenza afflitto da una abusività parziale (e, quindi, seppur circoscritta ad una situazione di minore rilevanza).

Si potrebbe ipotizzare che il titolo in questione abbia un effetto sanante, autorizzando quindi una sanatoria con opere in manifesta deroga ai principi generali di cui all’art.36 DPR 380/01, già evidenziati in precedenza; ma in realtà, a differenza proprio delle sanatorie e delle regolarizzazioni in astratto applicabili, che intervengono sui beni ex post e li legittimano tali quali così come sono, l’originario manufatto non viene reso legittimo nella sua attuale consistenza, ma viene sostituito da un altro e diverso adempimento, a seguito di una ristrutturazione o di una nuova attività edilizia, dove la situazione di legittimità disciplinata dalla norma affonda il proprio presupposto nella intervenuta eliminazione di un abuso, a cui fa seguito una attività edilizia nuova e trasformativa del primigenio edificio.

Lo stesso legislatore regionale, peraltro, non aiuta l’interprete che voglia avventurarsi in una indagine volta a conciliare interventi di eliminazione di abusi e, al contempo, di nuova attività costruttiva, balzando invece agli occhi il fatto che la nuova disposizione sia collocata nell’ambito delle sanzioni previste dalla LR 61/85, come comma finale dell’art.93, e dove la stessa relazione regionale, quando descrive l’intervento fa menzione ad una modalità di eliminazione di abusi, come se fosse una ordinaria misura demolitoria e ripristinatoria.

Alla luce di quanto esposto, una riconduzione dell’intervento in una tipologia o in un’altra, ovvero in una categoria autonoma, non appare certamente un momento risolutivo e certo, dovendosi prendere atto – questo sì – della oggettiva novità della previsione, come diretta a proporre nell’ordinamento una fattispecie connotata da elementi di oggettiva novità rispetto a quelli contenuti nel Testo Unico dell’Edilizia e nella normativa di settore.

Peraltro, proprio tale considerazione potrebbe condurre ad una diversa valutazione, da cui potrebbe scaturire un possibile profilo di illegittimità costituzionale della disposizione, come già sopra accennato.

Infatti, la assenza nella legislazione statale (alla quale notoriamente è demandata la funzione di normativa di principio in materia edilizia) di una fattispecie analoga a quella disciplinata dall’art.93 ult. comma LR 61/85, potrebbe far dubitare della illegittimità costituzionale della previsione, fondata sul rilievo che nell’ordinamento statale di riferimento non si trova una fattispecie analoga, concludendo che la disposizione in questione sarebbe di per sé espressione di una potestà legislativa regionale che avrebbe travalicato i limiti come da tempo individuati (e posti) dalla Corte Costituzionale a partire con la pronuncia n.309/11 e poi pedissequamente riproposto nella successive pronunce sulla questione (ex multis Corte Cost.282/16, 231/16, 49/16, 68/18 e la stessa 77/21).

Infatti, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale appartiene alla potestà esclusiva statale la individuazione delle tipologie e dei titoli edilizi, per cui tutta una serie di iniziative regionali sono state poste nel nulla, per la dichiarata incompatibilità costituzionale delle nuove norme con la disciplina statale della materia.

Tale considerazione assume poi un rilievo peculiare dove si debba valutare l’impatto concreto della ristrutturazione edilizia, se chiamata o meno al rispetto della conformità indicato dall’ultima parte della norma, ovvero se invece direttamente applicativa del disposto statale della ristrutturazione che non impone il rispetto di tale conformità.

 

  1. CONCLUSIONI

La finalità precipua della norma sembra quindi quella di colpire un abuso con un rimedio propositivo sostanzialmente utile, senza quindi proporre una sanatoria mascherata, garantendo al contempo la eliminazione di una difformità parziale nel contesto della esecuzione di un intervento che, in costanza di una abusività non regolarizzata, non sarebbe neppure ammissibile in applicazione dei principi generali.

Non è quindi una sanatoria nel senso tradizionale del termine, dove la abusività, parziale, di un edificio esistente viene in qualche modo “sostituita” dall’esito, legittimo, di un intervento di ristrutturazione o di nuova costruzione che viene quindi parametro della legalità e ammissibilità dell’intervento nella sua complessità.

D’altro canto, appare decisamente apprezzabile la portata innovativa della norma in questione, anche avendo a riguardo alla declinazione di una politica di attenzione al costruito, in vista della attuazione dei più rilevanti e recenti capisaldi della legislazione urbanistica veneta, sempre più concentrata sulla rigenerazione urbana e sul contenimento del consumo di suolo.

Auspicando che la nuova norma non incorra in particolari attenzioni, visto che il Governo per questo articolo della LR 19/21 non ha ritenuto di promuovere la impugnativa diretta avanti alla Corte Costituzionale (che – peraltro – potrebbe essere adita in via incidentale), non resta, allora, che attendere la concreta applicazione della norma.

Antonio Ferretto

 

(1 ) – La giurisprudenza sul punto è assolutamente conforme; peraltro, il principio generale ha trovato anche espresse conferme in talune previsioni normative, come ad esempio indicato nell’art.5 commi 9 e 10 DL.70/11, secondo cui gli interventi di promozione e agevolazione in vista della riqualificazione di aree urbane degradate, non possono riferirsi ad edifici abusivi, salvo non sia stato rilasciato il titolo edilizio in sanatoria.

(2) – La questione è stata oggetto di plurime decisioni del giudice amministrativo, sollecitato anche dal tema, pressoché analogo, della ammissibilità di interventi trasformativi interessanti immobili abusivi in relazione ai quali era ancora pendente una domanda di condono secondo le varie leggi statali e quindi regionali che si sono succedute nel tempo. Secondo la giurisprudenza non sarebbero ammissibili gli interventi edilizi su un contesto abusivo che siano la prosecuzione dei lavori abusivi, come volti al loro completamento, ponendo in essere opere che non possono che essere, a loro volta, abusive, alla luce della estensione “per ripetizione” della illegittimità dell’opera principale non sanata/condonata (cfr. Cons.St.VI, 1858/21, TAR Veneto,II,1368/19, TAR Lombardia,MI,II,2735/18); le opere, di per sé ammissibili a livello autorizzatorio, riguardando un immobile abusivo, diventano sostanzialmente illegittime, venendo sottoposte alla medesima disciplina sanzionatoria stabilita per il manufatto abusivo a cui ineriscono (cfr. Cons.St.VI, 56367/18, TAR Puglia,BA,III, 496/18); si è anche però  affermato come, “sarebbe irrazionale e contraddittorio ammettere la manutenzione straordinaria, il restauro o la ristrutturazione di un’opera che risulti abusiva, a meno che non si tratti di interventi diretti alla messa in sicurezza dell’immobile” (TAR Campania,SA,II,415/19); per le opere sottoposte ad una domanda di condono, ancora pendente, in una occasione è stata però affermata la possibilità di eseguire limitati interventi volti a garantire la conservazione del manufatto, senza trasformare la struttura, i volumi, i prospetti (Cons.St.VI,2738/18), dovendosi in merito peraltro ricordare la peculiare disciplina recata dall’art.35 L.47/85 che ammetteva il completamento delle opere abusive; va altresì evidenziata la fondatezza di una opposizione alla trasformazione del bene con la domanda di condono in itinere, anche riferita alla necessità di mantenere intatto il bene nella sua consistenza alla domanda di condono proprio in vista del suo accoglimento (Cons.St.II, 3471/19).

(3) – Il principio è stato anche recentemente ribadito da TAR Lazio,LT,742/19 secondo cui “l’art.34 … presuppone che vengano in rilievo gli stessi lavori edilizi posti in essere a seguito del rilascio del titolo e in parziale difformità da esso e non è, quindi, applicabile alle opere realizzate successivamente senza titolo per ampliare un manufatto preesistente”, oltre ad essere già stato evidenziato in precedenza da Cons.St.VI,2325/16, TAR Lombardia,MI,II, 2088/19, Cons.St.VI, 3371/18, TAR Campania,SA,25/18. Sul punto è ferma anche la giurisprudenza del Giudice Penale (cfr. Cass.Pen.46382/19). Conseguenza della applicazione dell’indicato principio è che le opere successive, anche se dotate di titolo, e – a maggior ragione dove sprovviste – non possono essere fatte rientrare nell’ambito applicativo dell’art.34 DPR 380/01 anche se rispondenti al criterio dimensionale della difformità parziali.

(4) – In merito alla individuazione del momento in cui possa legittimamente farsi applicazione alla sanzione pecuniaria alternativa di cui al comma 2 dell’art.34 DPR 380/01, individuato solo nella fase esecutiva, la giurisprudenza è pressochè unanime, venendo affermato il principio per cui l’interessato può sottrarsi alla sanzione demolitoria dell’immobile parzialmente difforme, presentando apposita istanza all’amministrazione, solo successivamente alla emissione della misura della ingiunzione a demolire/ripristinare, aprendo una apposita fase procedimentale nella quale l’amministrazione, come sollecitata dal trasgressore, è chiamata a verificare la sussistenza del relativo presupposto. In tali termini si sono espressi TAR Veneto,II,377/21 (con la giurisprudenza ivi richiamata), TAR Campania,II,NA,4202/20 e VII,NA, 3870/20, Cons.St.VI,6658/18, 4169/18. Contra risulta Cons.St.VI,5368/13 che, invece, avrebbe ammesso la presentabilità della istanza di applicazione della misura pecuniaria per la impossibilità a demolire, anche prima della formalizzazione dell’ordine di rimozione/demolizione. Tale facoltà viene peraltro riconosciuta da alcune leggi regionali, come l’art.206 LR Toscana 65/14.

(5) – E’ principio assodato quello per cui nel diritto amministrativo si ammette la possibilità di introdurre nel provvedimento alcuni elementi accidentali, non necessari ai fini dell’esistenza o della validità o dell’efficacia dell’atto, ma considerati elementi funzionali a consentirne una piena operatività. La condizione è infatti un elemento accessorio del negozio giuridico previsto dalle norme del Codice Civile, diretto a subordinare l’inizio o la cessazione della efficacia di un atto negoziale (non incidente sulla validità di questo) ad un evento futuro ed incerto.

Se da un lato non esiste una disposizione che legittimi la apposizione di una condizione, dall’altro non vi sono previsioni contrarie; peraltro, via generale, la giurisprudenza ha precisato come sia acconsentita la apposizione di elementi accidentali al provvedimento amministrativo purchè “essa non determini una violazione del principio di legalità (e dei suoi corollari) e non distorca le finalità per il quale il potere è stato attribuito all’amministrazione” (Cons.St.IV,3869/20).

(6) – Nell’ambito dell’edilizia, la condizione non è stata invero applicata ai titoli con riferimento ai termini iniziali o finali di efficacia dei provvedimenti abilitativi, disponendo in tale senso oggi l’art.15 DPR 380/01, quanto avendo a riferimento la possibilità di inserire nel testo del provvedimento abilitativo di una serie di prescrizioni (qualificate come “condizioni”) specifiche e conformative dell’edificazione autorizzata  che, infatti, viene assentita come connessa e correlata al rispetto di peculiari adempimenti in capo al concessionario, come assunti e/o previsti in qualche modo nel titolo, ovvero subordinando l’efficacia di questo al ricorrere di comportamenti rimessi al titolare dell’autorizzazione, fino a dettare alcuni precisi vincoli relativi alla specifica esecuzione, talvolta divenendo la (unica) ragione del permesso rilasciato.

Sotto altra angolazione, se viene generalmente esclusa la apponibilità di condizioni che implichino un qualche effetto risolutivo del titolo concessorio (considerando che il rilascio dell’atto non può essere fatto dipendere a priori o a posteriori da fatti imputabili al concessionario o ad adempimenti successivi al rilascio), una maggiore apertura si è avuta con riferimento alle condizioni come correlate alle modalità esecutive dell’opera autorizzata, quindi ad una fattispecie diversa, nota come “prescrizioni” del titolo ad edificare, sulle quali si veda la nota n.7 che segue.

(7) – Una obiezione che parte della giurisprudenza muove alla ammissibilità di condizioni (sia sospensive che risolutive) al titolo edilizio, salvi i casi previsti dalla legge, è fondata sul rilievo che il permesso di costruire viene ricondotto ad un provvedimento con natura di accertamento costitutivo a carattere non negoziale (cfr. TAR Lombardia,BS,476/08, e recentemente anche Cons.St.IV,2366/18, VI, 6265/18, VI, 6983/18; TAR Campania,NA,II,4992/20), dove condizioni ed elementi accidentali, a rigore, non sono ammissibili.

Nondimeno, la giurisprudenza ha anche riconosciuto la legittimità della apposizione al titolo edilizio di elementi discrezionali, ricondotti alle “prescrizioni”, in mancanza di specifiche disposizioni contrarie, purchè da un lato non contrastino con la natura e tipicità del provvedimento, e quindi tali da snaturare l’atto o negandone la funzione, o imponendo sacrifici illogici e spropositati al concessionario, e dall’altro rispondano a un interesse pubblico che viene soddisfatto con il loro adempimento.

In tale ambito si è quindi affermato come “la modalità procedimentale di rilasciare permessi di costruire con prescrizioni è conforme alle esigenze generali di complessiva speditezza ed efficacia dell’azione amministrativa, .. in mancanza di specifiche disposizioni di legge è pertanto ammissibile inserire nel titolo edilizio prescrizioni a tutela dell’ambiente, sia del tessuto che del decoro abitativo. Dette clausole non devono contrastare con la natura e la tipicità del provvedimento edilizio, né devono imporre al privato sacrifici ingiustificati, sproporzionati ed immotivati.” (Cons.St.VI,6265/18, cfr. Cons.St.IV, 6260/11); significativamente si è evidenziato come le prescrizioni siano ammissibili dove dirette ad “imporre modalità esecutive, di ordine essenzialmente tecnico, per adeguare il progetto a determinate esigenze, anche estetiche e di decoro” (TAR Lombardia,BS,1454/17).

Va invero segnalato come sussiste un orientamento del giudice amministrativo che ha intravisto nella apposizione di prescrizioni, in qualche modo condizionanti, nei titoli edilizi una forma di legittimo intervento “integrativo” da parte della P.A., in ipotesi di riscontrate carenze di natura progettuale per avrebbero dovuto portare al rigetto della istanza, per cui richiamando i principi generali della economicità, proporzionalità e speditezza dell’azione amministrativa, è stato ritenuto ammissibile l’inserimento nel testo del provvedimento di elementi accessori (la c.d. scelta tra “approvare/non approvare”), in alternativa all’iter procedimentale nel quale si verificherebbe dapprima un respingimento del progetto, la sua ripresentazione con emendamenti necessari e la sua approvazione finale, proponendo una soluzione argomentata anche alla luce del divieto di aggravamento del procedimento amministrativo, come anche previsto dall’art.19 L.241/90 in generale e quindi dall’art.20 DPR 380/01 (cfr. TAR Lombardia,BS,4520/10, Cons.St.IV,2366/18, con riferimento alla condizione sospensiva apposta ad un provvedimento in attesa del perfezionamento di una procedura presupposta).

(8) – Un ambito in cui si è avuta una tormentata applicazione dei titoli condizionati è quello dell’accertamento di conformità ex art.36 DPR 380/01, in ragione della natura vincolata che pacificamente viene riconosciuta al titolo in sanatoria, elemento che esclude a priori qualsiasi legittimità di una condizione al relativo permesso, intesa come il classico elemento prescrittivo apposto in vista della esecuzione di ulteriori lavori ed opere la cui realizzazione, sia con eliminazione di elementi esistenti, sia con la attuazione di elementi aggiuntivi, sia diretto così a conseguire una conformità edilizia ex post, altrimenti allo stato dei fatti non esistente; rientra in una fattispecie tout court abusiva, invece, la diversa ipotesi di esecuzione in un ambito difforme di ulteriori opere che si aggiungano a quelle esistenti, all’esito dei quali quanto realizzato sia invece potenzialmente conforme e quindi assentibile in sanatoria (si veda Cons.St.II,6060/20).

Sono varie le considerazioni che militano per la soluzione negativa ad un permesso di costruire in sanatoria condizionato come individuate dalla giurisprudenza, atteso che nessun titolo successivo potrebbe rendere l’intervento – già realizzato – come regolare, come seguito dalla attuazione successiva al rilascio di altra e diversa attività edilizia che lo interessi; per altro verso, la sanatoria con prescrizioni non avrebbe ad oggetto l’opera edilizia come realizzata, ma una futura e diversa opera edilizia, come risultante all’esito dei lavori così autorizzati.

E’ stato infatti affermato come sia “illegittimo un provvedimento di sanatoria che al fine di rendere l’esistente conforme alle prescrizioni vigneti preveda l’esecuzione di ulteriori lavori; l’art.36 DPR 380/01 non consente spazi interpretativi nel senso che la concessione in sanatoria è ammessa soltanto entro i limiti delineati dal legislatore, senza alcuna estensione discrezionale della P.A.” (TAR Liguria 411/12); “L’autorizzazione di cui all’art.36 DPR 380/01 a opere da farsi .. è una funzione estranea alla concessione edilizia in sanatoria che è riferita unicamente a manufatti già esistenti; non è ammissibile il rilascio di una concessione edilizia in sanatoria subordinata alla esecuzione di opere edilizie anche se tali interventi siano finalizzati a ricondurre il manufatto nell’alveo della legalità” (Cons.St.IV,4176/15); “L’accertamento di conformità in sanatoria condizionato alla eliminazione degli abusi è .. un provvedimento abnorme, in quanto la previsione che l’intervento sia accertato conforme a condizione che siano eliminati gli abusi edilizi si pone in contrasto con la stessa natura dell’atto di accertamento della conformità” (TAR Lombardia,MI,II,2088/19); analogamente si sono espresse le sentenze TAR Veneto,II, 1239/15, TAR Veneto,II,148/21, TAR Lombardia,MI,II,7311/10, nonché Cons.St.VI,4058/20; si è anche dedotto come “la sanatoria non può riferirsi ad abusi ultimati, senza condizionarne il rilascio alla eliminazione di parte di essi” (Cons.St.II, 5288/20).

Vi è inoltre un peculiare aspetto colto in alcune pronunce, strettamente correlato al requisito della doppia conformità che governa la disciplina della sanatoria (dove la regolarizzazione dell’opera è condizionata ex lege alla esistenza della conformità alla disciplina urbanistico-edilizia vigente sia al momento della esecuzione dell’opera e sia al momento della presentazione della istanza di conformità), dove la regolarità non potrebbe essere conseguita in un terzo momento successivo come coincidente con quello della avvenuta conclusione dei lavori di adattamento dell’opera abusiva; si è infatti affermato come “il permesso in sanatoria contenente prescrizioni è in contrasto con l’art.36 perché postulerebbe non già la c.d. doppia conformità delle opere abusive pretese dalla disposizione in parola, ma una sorta di conformità ex post condizionata alla esecuzione delle prescrizioni e quindi non esistente al tempo della presentazione della domanda di sanatoria, ma – eventualmente –  solo alla data futura ed incerta in cui il  richiedente avrebbe ottemperato alle prescrizioni” (TAR Campania, 110/20); “il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria con prescrizioni con il quale si subordina l’efficacia dell’accertamento alla realizzazione di lavori che consentano di rendere il manufatto conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda o al momento della decisione contraddice, innanzitutto sul piano logico, la rigida direttiva normativa poiché la previsione di condizioni o prescrizioni smentisce qualsiasi asserzione circa la doppia conformità dell’opera dimostrando che tale conformità non sussiste se non attraverso l’esecuzione di modifiche ulteriori e postume (rispetto alla stessa presentazione della domanda di accertamento in sanatoria)” (Cons.St.VI,423/21).

Sulla questione è anche ferma la consolidata giurisprudenza del giudice penale secondo cui “è illegittimo – e non determina la estinzione del reato edilizio di cui all’art.44 co 1 lett.b) DPR 380/01 – il rilascio di una permesso di costruire in sanatoria condizionato alla esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell’alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica” (ex multis recentemente Cass.Pen.III, 16498/21 e 28666/20).

(9) – Fermo l’orientamento contrario della giurisprudenza ad ammettere in generale permessi in sanatoria edilizia condizionati, va evidenziato come altrettanto non si riscontri una analoga rigidità con riguardo alle difformità riscontrabili in ambito presidiato da vincoli, ed in specie, paesaggistici, dove la giurisprudenza si è espressa con minor rigore, non sussistendo la rigidità della doppia conformità edilizia; in tal senso si è affermato come “il permesso di costruire in sanatoria può legittimamente introdurre o recepire prescrizioni intese ad imporre correttivi sull’esistente ovvero possono contribuire a mitigare l’impatto paesaggistico del manufatto (così da renderlo più coerente con il contesto ambientale, Cons.St.VI,2860/16), qualora si tratti di integrazioni minime o, comunque, tali da impedire di fatto detta sanatoria (Cons.St.IV, 4175/16)” (Cons.St.VI, 6327/18).

(10) – Il tema della apposizione di prescrizioni ai titoli edilizi è stato oggetto di ulteriori approfondimenti, dove si è sostanzialmente riconosciuta la possibilità di inserire elementi aggiuntivi, precisi, nell’atto concessorio, aventi anche un rilievo condizionante, certamente dove sussista una previsione normativa, ovvero a fronte di una attività discrezionale della P.A. che sia stata accettata dal concessionario (cfr. TAR Lombardia,BS,476/08).

(11) – E’ principio generale quello per cui la ristrutturazione edilizia nel suo attuarsi non richiede il rispetto della normativa che successivamente sia entrata in vigore, in ragione della natura conservativa che ab origine connota l’intervento, e ciò diversamente dall’intervento di nuova costruzione che per la sua esecuzione si confronta invece con la disciplina urbanistico-edilizia vigente al momento del rilascio del titolo.

L’argomento troverebbe il suo fondamento nella stessa formulazione dell’art.3 comma 1 lett.d) DPR 380/01 nel testo anteriore alla modifica apportata dall’art.30 comma 1 lett.a) DL 69/13 conv. L.98/13 (e quindi dalla ulteriore modifica posta dal DL 76/20), nel quale la ristrutturazione edilizia veniva all’epoca delineata come un intervento strettamente legato all’esistente, imponendosi tra l’altro il rispetto del precedente sedime e della sagoma nell’attività ricostruttiva, quali elementi di coincidenza tra il vecchio e il nuovo (in termini cfr. Cons.St.II, 5663/19 e 3208/19), in un contesto dove erano escluse le modifiche volumetriche, per cui la ricostruzione solo rispettando i predetti parametri poteva essere inclusa nella ristrutturazione (come ricordato anche dall’art.10 LR Veneto 14/09), potendo così sottrarsi al rispetto della normativa sopravvenuta, come quella dettata in materia di distanze da confini o da altre costruzioni, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che non rispettava le misure e, sovente, era anche antecedente all’avvenuto della disciplina limitativa. La conseguenza era che la ricostruzione, non rispettosa di sagoma e sedime, era individuata come un novum, e quindi assoggettato al rispetto della normativa sopravvenuta, indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione o meno (ex multis, Cons.St.VI,3352/21, IV, 4728/17, 443/17).

(12) – Il tema della inosservanza di condizioni o prescrizioni apposte ai titoli edilizi è stata affrontata dalla giurisprudenza fornendo due diverse soluzioni; secondo una prima posizione, la inosservanza della prescrizione produce un abuso edilizio ad ogni effetto, aprendo la strada alle sanzioni edilizie; secondo altra opinione, il primo riflesso si produrrebbe sullo stesso atto, determinando una decadenza o una inefficacia sopraggiunta dello stesso, cui segue in ogni caso la abusività del realizzato (cfr. Cons.St.VI,6265/18).

Sul punto la giurisprudenza non offre approdi sicuri. Secondo una datata pronuncia, si deve escludere che il mancato rispetto delle prescrizioni determini la illegittimità ab origine della concessione o il venire meno dei presupposti per la sua concessione, ovvero un annullamento o una revoca dell’atto a titolo sanzionatorio (TAR Veneto,I,3732/04); al contrario, si è anche affermato come “sia che la prescrizione incida sulla legittimità del provvedimento a cui è apposta, sia che essa attenga all’efficacia, la violazione delle prescrizioni avrà sempre e solo l’effetto di privare di titolo ciò che è stato realizzato sulla base del provvedimento cui era stata apposta la condizione non rispettata” (TAR Lombardia,BS,I,4520/10).

Certamente la mancata attuazione degli impegni assunti “rende legittimo – e altresì necessario – l’intervento sanzionatorio comunale, attraverso il quale deve essere ripristinata – o posta in essere per la prima volta – la condizione, la cui realizzazione era stata assunta dalla parte istante, cui era subordinato il rilascio del titolo edilizio o la sua formazione in seguito al decorso del tempo” (TAR Lombardia,MI,II, 2603/21 e 2800/21).

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