La segnalazione del Collega Artini sul contrasto di giurisprudenza tra Cassazione e Consiglio di Stato (CdS) rilevato con riferimento alla sentenza della Corte d’appello di Venezia del 18.3.2019 n. 1107, che, in tema di giurisdizione “sulla domanda volta chiedere quale delle due ASL convenute (quella della residenza attuale e quella del “domicilio di soccorso”) fosse obbligata a pagare gli oneri per l’assistenza a favore di un soggetto affetto da patologia psichica e inserito in una struttura residenziale”, ha dichiarato la giurisdizione dell’AGO in luogo di quella del GA ritenuta dal primo giudice, non è purtroppo l’unico; almeno un altro ne va segnalato, forse ancor più eclatante, sul quale del pari la nostra Associazione s’è interessata nel penultimo Convegno di Castelfranco (del 2018), nella Relazione (purtroppo non pubblicata nel fascicolo degli Atti), del Prof. Callegari, con riferimento alle due sentenze (a) del Consiglio di Stato (CdS), naturalmente in Adunanza plenaria, 17.10. 2017 n. 8/2017, e (b) della Corte di Cassazione (naturalmente a sua volta a Sezioni Unite) 23.1.2018 n. 1654, sull’individuazione della giurisdizione in una controversia relativa al “risarcimento dei danni cagionati dall’affidamento nella legittimità di atti amministrativi concernenti la realizzazione di fabbricati oggetto di convenzione con l’ente locale, più volte modificata, dallo stesso annullati in via di autotutela, con atto impugnato innanzi al TAR”. Ciascuna delle due Magistrature rivendicanti la propria rispettiva giurisdizione.
A prescindere dal merito delle tesi contrapposte, pare ad vecchio arnese del Foro che il rimedio esista e sia radicalmente risolutivo solo che la nostra eroica Magistratura abbia il coraggio e la cura d’avventurarsi nei meandri, ancorché scarsamente frequentati, del codice di procedura civile (cpc), scoprendo l’art. 363 sul ricorso nell’interesse della legge: un residuato giustizialista da ricuperare, ora guastato dall’insana “riforma Vaccarella” del cpc introdotta dal D. L.vo 40/2006, solo che ci fosse un Procuratore Generale della Corte di Cassazione, appena attento alle vicissitudini di questa nostra profligata ”Giustizia”.
Tra i molti guasti della “riforma Vaccarella” c’è anche la riformulazione di quell’art. 363, “principio di diritto nell’interesse della legge”, che ne ha peggiorato la già traballante formulazione del 1940, a sua volta peggiorativa della corrispondente disposizione dell’art. 509 cpc del 1913. La riformulazione del 1940 v’aggiunse, in ossequio all’autoritarismo allora imperante, un ultimo comma del seguente tenore: “in tal caso le parti non possono giovarsi della cassazione della sentenza”; ora nella riformulazione del 2006 quell’ultimo comma così recita: “la pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito”; vera assurdità giuridica! Come possa una sentenza, che lo stesso ordinamento motu proprio riconosce contra jus, essere imposta alla parte soccombente come giudicato intangibile, anche se lesiva di uno di quei diritti che, per l’art. 2 Cost., la Repubblica riconosce e garantisce come in assoluto intangibili, questi soloni del giure non si peritano di spiegare!
Ancor più peggiorativa rispetto a quella del 1940 la riformulazione del secondo comma, che attribuisce al “primo Presidente” della Corte di cassazione il potere assolutamente discrezionale di ”disporre che la Corte si pronunci a sezioni unite se ritiene che la questione è di particolare importanza”. Doppio vaglio caratterizzato da due valutazioni assolutamente personali, assolutamente discrezionali: ed il tot capita tot sententiae?
Il tabù della nomofilachia
Le varie giustificazioni dell’introduzione della possibilità dell’autocontrollo endogeno al sistema della ricerca del “principio di diritto nell’interesse della legge” sono tutte fondate sulla necessità della nomofilachia, la cui più aberrante manifestazione è rappresentata dall’art. 360 bis c.p.c, che commina la declaratoria d’inammissibilità del ricorso per cassazione la cui motivazione “non offre elementi per confermare (??) o mutare l’orientamento della giurisprudenza della stessa Corte di cassazione”. Un vero attentato ai fondamentali principi costituzionali, attinenti sia al diritto di difesa (art. 24), che, per il difensore, comporta il dovere impostare la sua azione secondo il suo meditato convincimento professionale, sia alla disciplina della giurisdizione, secondo cui “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101) e non certo vincolati dalla giurisprudenza di materia.
Lontano anni luce dal prologo del Codex di Giustiniano, che regola la funzione degli Advocati, qui dirimunt ambigua fata causarum, suaeque defensionis viribus, in rebus saepe publicis ac privaris, lapsa erigunt, fatigata reparantur”; funzione che ora pretendono di esercitare in squallida solitudine i Magistrati.
Ecco l’abnormità dell’art. 363, secondo cui il “principio di diritto nell’interesse della legge” è non tanto un’interpretazione iuxta legem delle tesi ritenute ed affermate dall’evoluzione della giurisprudenza, ma solo “quel che pare” -secondo una valutazione solitaria esclusivamente personale ed assolutamente discrezionale- a ciascuno dei due co-protagonisti della verifica di controllo. Una vera aberrazione di sistema, perché l’attuale regime costituzionale prevede un ben diverso controllo di merito della correttezza costituzionale della giurisprudenza nella singola materia: quello della Corte Costituzionale! Quell’art. 363 potrebbe svolgere una funzione veramente catartica di possibili devianze giurisprudenziali se prevedesse la possibilità del controllo di meritevolezza della singola tesi giurisprudenziale “sospetta”, mediante la legittimazione, sempre del Procuratore Generale della Corte di Cassazione come supremo custode della “legalità della giurisprudenza”, al ricorso diretto alla Corte Costituzionale.
Ecco che se nella formulazione della norma nel c.p.c. del 1940, il duo Procuratore Generale e Presidente della Corte di Cassazione era la massima garanzia di obiettività della norma per vedere assicurato il “principio di diritto nell’interesse della legge”, nella riformulazione dell’infelice “riforma Vaccarella” essa è una vera aberrazione di sistema; invero, nella nuova formulazione, se un solo componente del ”duo” parteggiasse per una delle tesi in discussione, avrebbe buon gioco (anche semplicemente omettendo di decidere) di impedirne la stessa verifica; il che nella sostanza finisce per “feticizzare” la nomofilachia, facendone un vero tabù dell’ordinamento; una specie di dittatura della Magistratura, della quale purtroppo l’art. 363 cpc non è l’unica manifestazione.
La “guerra di materia”
Ben numerose sono le materie oggetto di contenziosi caratterizzate da assai aspri contrasti -è la parola!- tra AGO (giudice ordinario) e GA (giudice amministrativo); contrasti che si trascinano da anni con interventi spesso diacronicamente ravvicinanti, nel senso che si susseguono puntualmente a intervalli tali di rendere non del tutto implausibile il sospetto d’un “botta e risposta” non casuale.
Naturalmente le due tesi contrapposte sono sorrette da fior di sentenze dei massimi gradi delle rispettive giurisdizioni (Sezioni unite della Cassazione e Adunanza plenaria del CdS). Nel casso segnalato dall’Avv. Artini la Corte Lagunare si rifece alle Ss. Uu. 20586/2008 del 30.7.2008; per il CdS si segnala la contrapposta sentenza del CdS, AP n. 8, pure del 30.7.2008. A tal punto l’operatore d’aula (e chi scrive ha festeggiato il LX anno di Toga!) si chiede angosciato: quid juris? Da chi vado: AGO o GA?
Ecco il più bel 363 cpc, dove il Procuratore Generale della Cassazione dev’essere legittimato a sollevare motu et jure proprio e senz’alcun avallo del Presidente della Corte di cassazione questione di costituzionalità, onde sia la Corte Costituzionale a dicere jus, con una sentenza veramente dirimente di ogni dubbiezza sui “principi di diritto nell’interesse della legge”. Ma per far ciò occorrerebbe una “modifichetta” dell’insana “riforma Vaccarella”, che rendesse un po’ più civile il nostro insano cpc.
Ivone Cacciavillani