Nell’anno che inizierà a breve ricorre un anniversario che non merita distrazione.

Centoquaranta anni fa, nel 1883, per la prima volta in Italia il Consiglio dell’Ordine di Torino iscrisse all’albo una donna, la dott.ssa Lidia Poet. La neoiscritta si era laureata sempre a Torino il 17 giugno 1881, con una tesi sul diritto di voto alle donne. Svolto il praticantato, aveva superato l’esame di abilitazione e chiesto l’iscrizione all’Ordine che con una decisione storica e “sofferta”, assunta a maggioranza (otto voti a favore e quattro contro, con le successive dimissioni di due dei dissenzienti)[1], accolse la sua domanda.

Benché la normativa del tempo non vietasse l’iscrizione alle donne, la decisione destò molto scalpore e il dibattitto e le accese polemiche travalicarono i confini “forensi” tanto che il Procuratore Generale del Re impugnò il provvedimento avanti alla Corte d’Appello, la quale revocò l’iscrizione[2].

La sentenza, poi confermata dalla Corte di Cassazione di Torino, merita di essere riportata nei passi più rilevanti perché illuminanti sul sentire del tempo. Infatti, “la questione sta tutta in vedere se le donne possano o non possano essere ammesse all’esercizio dell’avvocheria (…). Ponderando attentamente la lettera e lo spirito di tutte quelle leggi che possono aver rapporto con la questione in esame, ne risulta evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine (…). Vale oggi ugualmente come allora valeva, imperocché oggi del pari sarebbe disdicevole e brutto veder le donne discendere nella forense palestra, agitarsi in mezzo allo strepito dei pubblici giudizi, accalorarsi in discussioni che facilmente trasmodano, e nelle quali anche, loro malgrado, potrebbero esser tratte oltre ai limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare[3].

Sin qui la motivazione sembra incentrata sul “gentil sesso”: la Corte però si spinge oltre, mettendo sotto la lente anche le insidie alla imparzialità dei giudicanti e indugiando sulla forza seduttiva femminile, tale da condizionare l’esito dei processi. L’argomentare passa così dal banale maschilismo (o, almeno, così appare ora ai nostri occhi) ad una sorta di assenza di autostima da parte degli stessi giudici: “considerato che dopo il fin qui detto non occorre nemmeno di accennare al rischio cui andrebbe incontro la serietà dei giudizi se, per non dir d’altro, si vedessero talvolta la toga o il tocco dell’avvocato sovrapposti ad abbigliamenti strani e bizzarri, che non di rado la moda impone alle donne, e ad acconciature non meno bizzarre; come non occorre neppure far cenno del pericolo gravissimo a cui rimarrebbe esposta la magistratura di essere fatta più che mai segno agli strali del sospetto e della calunnia ogni qualvolta la bilancia della giustizia piegasse in favore della parte per la quale ha perorata un’avvocatessa leggiadra[4]. La pronuncia invoca poi un eventuale intervento normativo di apertura (“Di ciò potranno occuparsi i legislatori”) ma pone soprattutto al mondo femminile un interrogativo morale: “le donne avranno pure a riflettere se sarebbe veramente un progresso e una conquista per loro quello di poter mettersi in concorrenza con gli uomini, di andarsene confuse fra essi, di divenirne le uguali anziché le compagne[5].

Il legislatore batté un colpo dopo il primo conflitto mondiale, con la legge n. 1176 del 17 luglio 1919 che sdoganò l’esercizio della professione da parte delle donne e nel 1920, all’età di 65 anni, la pinerolense Lidia Poet perfezionò la reiscrizione all’albo[6].

In tempi in cui nel foro si sta consolidando il sorpasso numerico delle donne che esercitano la professione rileggere le parole spese sul tema 140 anni fa aiuta ad avere consapevolezza del cammino svolto. In realtà, l’art. 7 della legge n. 1176 del 1919 prevedeva (solo) che “le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionari o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento”.

Molte furono – quindi – anche le conquiste successive per approdare a quanto ora consideriamo ovvio e che, come spesso succede alle ovvietà, rischiamo di non apprezzare.

Enrico Gaz

 

[1] Cfr. I.E. PIPPONZI, La caparbietà e la determinazione di Lidia Poet, la prima donna avvocata, in La previdenza forense, n. 2/2019.

[2] Cfr. A. CONFENTE, Lidia Poet: la prima avvocata in Italia, in www.ordineavvocatitorino.it.

[3] Corte d’Appello di Torino 11 novembre 1883, in Giur. it. 1884, I.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Cfr. C. RICCI, Lidia Poët. Vita e battaglie della prima avvocata italiana, pioniera dell’emancipazione femminile, Torino, 2022, p. 176.

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