Per illustrare la figura di Enrico Guicciardi nel cinquantesimo anniversario dalla sua scomparsa sarebbe un buon metodo partire dai suoi studi più celebri, ma questo esporrebbe a ripetere quanto è stato già detto più volte da altri.

Seguirò, così, un percorso diverso e, sulla base di alcune ricerche personali nonché di alcune testimonianze che mi sono state consegnate da chi lo ha frequentato di persona e a lungo, cercherò di descrivere come venne a modellarsi la personalità di colui che fu, senza dubbio, tra i maggiori giuristi del secolo passato.

Lo scopo è quello, se possibile, di reperire in questi antefatti il germe intellettuale di quanto sarebbe stato confermato negli scritti del maestro.

Guicciardi nasce a Novara nel 1909, ma il luogo ha poca rilevanza, perché fu abbastanza casuale. Non vi è nulla della cultura piemontese che lo abbia influenzato.

Le storie familiari, invece, sì.

Guicciardi era il secondogenito. Questo spiega perché non gli sia stato imposto, in ossequio alla tradizione della famiglia, il nome di Diego.

Pure, vi sarebbe da soffermarsi su quel fratello maggiore, direttore della raffineria Aquila di Trieste, quindi presidente della Shell Italia, fondatore della DOXA e, soprattutto, raffinato studioso dell’economia applicata ai fenomeni sociali.

Senza perderci in rivoli che ci porterebbero distante, mi limiterò a dire che i Guicciardi erano originari di Teglio in Valtellina.

Se ne hanno notizie plurisecolari, perché la famiglia fu popolata da notevoli figure. L’agiografia riporta che la stirpe avrebbe tratto origine da un certo Guizzardo, sceso in Italia al seguito di Carlo Magno e qui fermatosi per dare origine a una linea che avrebbe avuto, tra i suoi rami secondari, anche i Guicciardini di Toscana.

Queste notizie, però, sono piuttosto difficili da comprovare.

Fermiamoci così a quel che è certo e quindi ai Guicciardi di Valtellina. Genti sospese tra la piccola nobiltà e la borghesia; famiglia di militari, di presbiteri e di uomini di legge che, almeno dal ’600, partecipavano costantemente all’amministrazione pubblica del territorio.

Qualcuno ricorderà che la celeberrima sonata “Al chiaro di luna” di Beethoven è dedicata a una certa Giulietta Guicciardi, da taluni identificata con la misteriosa amata immortale. Costei apparteneva alla famiglia.

Tra XVIII e XIX secolo, spiccò soprattutto un Diego Guicciardi che fu avo diretto del professore.

Uomo d’azione, seguì un impulso simile a quello del movimento tirolese di Andreas Hofer, capitanando con miglior fortuna la popolazione valtellinese nella rivolta contro le Tre Leghe e contro il cantone svizzero dei Grigioni, a cui la valle e Sondrio erano allora sottomesse.

Diego Guicciardi, in quell’occasione, ottenne l’appoggio militare di Napoleone, appena entrato nella penisola. Bonaparte per un certo periodo onorò Guicciardi, creandolo conte e ministro della polizia della Repubblica Cisalpina. In seguito, tuttavia, lo giudicò troppo tenero per quella funzione e gli affidò la presidenza del Senato nel primo Regno.

L’Elba e Waterloo non travolsero Guicciardi, che poté partecipare al Congresso di Vienna in rappresentanza della Valtellina.

In quell’occasione, egli si avvicinò all’Austria, cioè al vecchio nemico.

Non fu opportunismo. Una scelta diversa avrebbe riconsegnato la Valtellina al dominio elvetico e fortissimi motivi di contrapposizione religiosa impedivano di rinnovare quel legame. Se, perciò, oggi Sondrio è italiana è solo perché, nel 1815, la valle venne annessa al LombardoVeneto e questa fu opera essenzialmente di Diego Guicciardi.

La partecipazione di Guicciardi al Congresso non passò inosservata all’Impero. Benché privato della corona comitale (doveva pur scontare qualcosa!), egli venne integrato nei ranghi più alti dell’amministrazione fino a diventare vicepresidente del distretto lombardo. Diego Guicciardi è stato, dunque, l’autorità immediatamente vicaria del governatore austriaco ed è facile reperire ordinanze, regolamenti, atti normativi che recano la sua sottoscrizione.

Il 1848 vide, tuttavia, i Guicciardi schierati su un altro fronte. Come principale esponente della famiglia, era subentrato a Diego il cugino – nominato Enrico anche lui – che fu tra i promotori delle Cinque giornate.

Seguì la repressione che comportò per quel primo Enrico Guicciardi la confisca dei beni e l’esilio in terra francese. Egli poté rientrare solo dopo la costituzione del Regno d’Italia, per diventarne senatore e prefetto: di Firenze prima, poi, di Reggio Calabria, durante il confuso periodo del brigantaggio.

Scendendo ai rami prossimi della famiglia, Giuseppe Guicciardi, padre del professore e nipote di quel Diego, rimase orfano in giovane età e seguì la madre, una Guicciardi anche lei per nascita, da Sondrio a Firenze.

La ragioni del trasferimento non sono molto chiare. In quel periodo, in ogni caso, era insediata a Firenze una non esigua comunità valtellinese, che vide tra i suoi più autorevoli esponenti l’importante filologo e senatore Pio Rajna, con il quale i Guicciardi erano in confidenza.

Giuseppe Guicciardi intraprese gli studi medici, prima a Bologna, poi a Pisa e, infine, a Firenze, divenendo assistente del prof. Pestalozza, che era una riconosciuta autorità nell’ostetricia.

In quella clinica fiorentina si verifica un fatto inatteso, perché Giuseppe Guicciardi vi incontra colei che sarebbe diventata la madre del nostro professore.

Maria Tobler apparteneva, però, a un milieu piuttosto diverso e questo, come vedremo, spiega molte cose.

Innanzi tutto, non era italiana, ma zurighese. Proveniva cioè da un territorio non poi così distante da quei Grigioni contro cui i Guicciardi avevano combattuto.

Soprattutto, Maria Tobler era calvinista; lo era, anzi, fino al massimo grado. Il suo bisnonno era stato un pastore della fede riformata e lo erano stati anche entrambi i nonni paterni.

Quella dei Tobler era una famiglia di teologi che aveva fornito non pochi esponenti all’Università di Zurigo. Erano professori gli zii di Maria e lo divenne in tarda età anche il padre, che era uno studioso dell’alto tedesco.

Maria Tobler apparteneva dunque al ceto culturalmente elevato di Zurigo. Una sua sorella, Mina, era una celebre concertista, vicina a Max Weber.

Il fatto di essere donna evidentemente non comportava grandi discriminazioni, nella famiglia Tobler. Maria si addottorò prima in filosofia e poi in medicina. Anche lei scelse di dedicarsi all’ostetricia e non per caso venne a perfezionarsi in Italia, alla scuola del già ricordato Pestalozza.

Va a questo punto rammentato che i Guicciardi erano di radicatissime inclinazioni cattoliche. Lo dimostrano i lasciti perpetui a favore di varie istituzioni religiose della Valtellina; lo dimostra l’avversione contro le Tre Leghe. Diego non fu, infatti, l’unico a capeggiare la ribellione contro i Grigioni. Prima di lui, nel 1620, un altro Giovanni Guicciardi aveva partecipato a una analoga rivolta, che aveva condotto all’effimera esperienza della Libera Repubblica di Valtellina.

È dunque piuttosto sorprendente che Giuseppe Guicciardi, pur appartenendo a una famiglia così profondamente cattolica, si sia unito a una donna di non meno ferma educazione calvinista.

Benché risulti probabile che il loro primo figlio, Diego, abbia ricevuto il battesimo romano, alcune indicazioni (che, tuttavia, meriterebbero di essere approfondite) lasciano pensare che per il prof. Guicciardi possa non essere stato altrettanto; che egli possa, forse, essere stato battezzato secondo la fede protestante.

Il prof. Guicciardi è cresciuto, in ogni caso, in un ambiente in cui convivevano modi molto diversi di considerare la religione. Egli è stato educato, inoltre, da una madre che, per cultura e intraprendenza, era certamente al di sopra dei normali schemi di emancipazione femminile e da un padre che apparteneva a una famiglia abituata, per tradizione secolare, ad occuparsi della cosa pubblica e abituata a valutare, anche in modo molto radicale, questioni di rilevanti dimensioni politiche e ampi problemi di natura amministrativa.

La carriera di Giuseppe Guicciardi portò la famiglia a spostarsi prima a Cagliari, poi a Novara, dove nacque il professore, e, infine, a Venezia. È così che Enrico Guicciardi si è avvicinato all’Università a cui era destinato a legarsi.

A Padova l’eclettismo della sua educazione doveva risultare rinforzato dalla frequentazione del suo maestro, Donato Donati, che fu il primo grande esponente della scuola giuspubblicistica patavina e la cui vita è pure ricca di spunti interessanti. Donati era modenese e aveva perfezionato i suoi studi in Germania ascoltando le lezioni di Jellinek e di Laband e formandosi alla Begriffsjurisprudenz. Ritornato in Italia, aveva insegnato a Cagliari, a Camerino e a Macerata. Era giunto, infine, a Padova, forse perché attratto dalla comunità ebraica che allora contava non pochi rappresentanti nella locale Facoltà giuridica. Perché, come tutti sappiamo, Donati era ebreo.

Ecco dunque che quel miscuglio di cattolicesimo e di protestantesimo in cui Guicciardi era cresciuto venne a integrarsi anche con la cultura ebraica, potenziata, per di più, da quel massimo esponente del pensiero positivistico e normativista che fu il suo maestro.

Non è azzardato supporre che il pensiero di Guicciardi sia stato influenzato da tutti questi fattori.

Le esperienze, anche ad alto livello, nell’amministrazione pubblica, a cui la famiglia Guicciardi aveva partecipato per secoli con dimostrata adattabilità ai mutamenti delle circostanze storiche, forse portarono Enrico Guicciardi a semplificare il suo pensiero sul funzionamento della macchina amministrativa, impedendogli di dar rilievo a concettualità secondarie e capaci di generare inutili confusioni, salvo far risaltare, invece, gli aspetti distintivi delle categorie e degli istituti che altrimenti avrebbero potuto non emergere e restare soffocati.

La lucidità del pensiero di Guicciardi è, infatti, proverbiale. Sarebbe facile richiamare la simmetria tra le varie parti della sua Giustizia amministrativa. Preferisco riportare, perciò, quello che mi fu riferito da chi ebbe tra le mani il manoscritto del Demanio. Il testo, redatto con grafia piana e ordinata, è stato scritto quasi di getto, con pochissime correzioni qua e là, a dimostrazione di una chiarezza di pensiero del tutto fuori del comune. È da notare che, quando scrisse il Demanio, Guicciardi aveva solo venticinque anni.

Dalla familiarità con le tre religioni, invece, derivò forse una certa laicità del pensiero e, forse, anche una certa leggerezza di stile, che spesso non manca in chi è stato abituato alla reciproca tolleranza.

Questo sembrerebbe trovare conferma in certi paradossi del suo carattere che sono stati tramandati e che rivelano una certa giocosità d’animo (sia pur smorzata da una triste vicenda personale che lo onerò per tutta la vita).

Nessuno certo mise in dubbio mai la serietà assoluta del prof. Guicciardi; la sua probità fu leggendaria e non è un caso che egli morì essendo presidente in carica del massimo giudice disciplinare degli avvocati.

Ma chi immaginerebbe che quell’austero professore amasse trascorrere le domeniche ascoltando alla radio le telecronache delle partite di calcio? E chi immaginerebbe che, per compiere gli atti di procedura necessari a evitare le perenzioni, lui usasse depositare una copia della Gazzetta dello Sport?

Va detto, però, che la sua laicità non fu, forse, assoluta. Forse qualcosa della cultura materna ebbe un minimo sopravvento.

Innanzi tutto, il rapporto del calvinismo con il testo sacro è piuttosto simile al rapporto del giurista Guicciardi con il testo di diritto positivo al quale solo, secondo lui, era necessario rivolgersi per risolvere una data questione. Tanto che egli sconsigliava i giovani studiosi dal soffermarsi sulle ricostruzioni storiche degli istituti, le quali a nulla avrebbero potuto portare.

I lacerti di quella cultura protestante hanno forse ispirato anche il suo contributo più celebre alla scienza del diritto amministrativo e che, secondo me, non può dirsi ancora superato.

È massima del pensiero di Calvino quella secondo cui dalla conoscenza di Dio deriva la conoscenza di se stessi. La conoscenza di sé, dunque, è, in certo senso, restituita occasionalmente dalla conoscenza del divino.

È forse troppo suggestivo scorgervi la fonte della massima guicciardiana secondo cui il processo amministrativo è posto a tutela dell’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e secondo cui questo garantisce, insieme, anche l’occasionale protezione dell’interesse del ricorrente?

 

Il mio intervento dovrebbe arrestarsi qui.

Le scuole che derivarono da Guicciardi – quella milanese e veneziana a cui diede impulso Benvenuti e quella, più ortodossa, che è rimasta incardinata nella sede patavina – sono a ben vedere qualcosa che è venuto dopo Guicciardi e che, se pur collegato, se ne distacca.

Ma in questa edizione del premio dedicato al grande giurista sarebbe grave se non ricordassi uno tra gli allievi a lui più cari, perché proprio il 21 luglio di quest’anno è mancato il prof. Francesco Gullo.

Quando questo periodo di emergenza passerà, l’Università cercherà di celebrare come merita la sua personalità, che non esito a definire geniale.

A me, per intanto, resta il ricordo e il rimpianto dell’amatissimo maestro, che fu ammirato testimone della ricchissima eredità umana e scientifica lasciata dal prof. Enrico Guicciardi.

Francesco Volpe

* Nota per il “Premio Guicciardi” nonchè per il Seminario “L’evoluzione della professione forense nell’era della rivoluzione informatica” svoltosi telematicamente il 17 dicembre 2020.

image_pdfStampa in PDF