Sommario:

  1. Considerazioni generali – 2. La Legge Regionale Veneto n.50/19 – 3. Il (pericoloso) precedente dell’art.17 bis LR Emilia-Romagna n.23/04 – 4. La impugnazione per incostituzionalità della LR 50/19 – 5. Sulla applicazione della legge: 5.1 Gli effetti della impugnativa costituzionale; 5.2 La sorte dei titoli edilizi conseguiti in forza di disposizioni dichiarate incostituzionali; 5.3 Sulla stabilità del titolo così conseguito – 6. L’art 1 LR 50/19 – Le finalità della legge e ambito soggettivo; 6.1 L’effetto della regolarizzazione; 6.2 Il riferimento temporale della normativa; 6.3 La legittimazione alla richiesta di regolarizzazione; 6.4 Comunione e condominio; 6.5 Un aspetto particolare: la delega dell’art.32 DPR 380/01 e l’art.92 comma 3 LR 61/85; 7. L’art.2 LR 50/19 e le singole fattispecie: 7.1 L’ambito oggettivo; 7.2 I requisiti oggettivi; 7.3 La parziale difformità; 7.4 La data di esecuzione; 7.5 Le singole ipotesi di regolarizzazione – 8. Le sanzioni e l’istanza di regolarizzazione: 8.1 Le sanzioni; 8.2 L’istanza di regolarizzazione; 8.3 – La riserva dell’art.2 comma 4 LR 50/19 – 9. Gli altri articoli della LR 50/19 – 10. Il nuovo orientamento della Corte di Cassazione in tema di trasferimento di immobili con abusività -11. Conclusioni.

1. CONSIDERAZIONI GENERALI

Con frequenza quotidiana gli Uffici comunali segnalano come da tempo cittadini ed imprese richiedano di intervenire su immobili esistenti e da tempo realizzati, dove tali richieste non possono essere accolte per la sussistenza di abusività che non possono essere sanate.

Infatti, effettuate le verifiche del caso, si scopre che gli edifici interessati presentano una o più difformità edilizie, quindi una qualche ragione di contrasto con la attuale e vigente normativa urbanistico-edilizia ed, in particolare, con le previsioni contenute negli strumenti urbanistici, spesso sopravvenuti e successivi alla esecuzione dell’attività edilizia, contrasto che ne impedisce la regolarizzazione ordinaria, in difetto della “doppia conformità” che disciplina la sanatoria edilizia.

In questo modo, eredi intenzionati a cedere gli immobili ricevuti a seguito di una successione, ovvero le parti di un eventuale contratto di cessione immobiliare, o coloro che vorrebbero intervenire per recuperare o ristrutturare svariati immobili, vengono a conoscenza della sussistenza di un ostacolo insuperabile che preclude tanto la successiva alienazione come la loro trasformazione o il recupero.

Il risultato è che un cospicuo numero di edifici, solo in apparenza regolari, non sono sanabili in via ordinaria, in quanto difformi rispetto al titolo o al progetto originario e non conformi alla normativa attualmente vigente, nonostante tali edifici per decenni siano stati regolarmente abitati ed occupati, come perfettamente abitabili ed agibili, senza alcun problema e, spesso, nella convinzione che tutto quanto fosse pienamente legittimo.

Si tratta, quindi, di una vera e propria situazione di irregolarità edilizia per contrasto con la normativa attualmente vigente, il cui effetto è quello di impedire il conseguimento di una qualsivoglia sanatoria ordinaria ai sensi dell’art.36 DPR 380/01, il cui rilascio è il presupposto per poter essere abilitati ad eseguire un qualsiasi tipo di intervento sul manufatto o per poter dare seguito ad una alienazione del bene stesso; infatti, non sussistendo la c.d. “doppia conformità” prevista dall’art.36 DPR 380/01 – per cui l’immobile per essere regolarizzato deve presentarsi conforme alla normativa urbanistico-edilizia vigente tanto al momento della esecuzione dell’intervento, quanto al momento della presentazione della domanda di conformità – l’edificio non può essere sanato.

Si tratta di difformità, quelle riscontrate, che risulterebbero aver avuto luogo negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, in occasione dell’esecuzione del progetto originariamente assentito e ciò nonostante non risulterebbero mai essere state oggetto di sanatorie o di condoni edilizi (e non pare che si possa dire che non ve ne siano stati nel nostro ordinamento).

Le violazioni, per lo più, sono riconducibili a difformità edilizie di lieve entità, realizzate nel corso della esecuzione dei lavori autorizzati con apposito titolo rilasciato, e che per le più svariate ragioni (incluse leggerezze ed imprecisioni progettuali) non sono mai state segnalate o evidenziate prima della conclusione dei lavori stessi, mediante la apposita variante in corso d’opera o una finale, e neppure in occasione della proposizione della domanda di abitabilità/agibilità; peraltro, non può essere escluso che, a suo tempo, il concessionario o chi coinvolto nella esecuzione del progetto autorizzato si sia riservato di porre un qualche rimedio che poi, per le più svariate ragioni, non ha avuto seguito.

Si tratta di abusi contenuti, riconducibili a lievi scostamenti dai classici parametri edilizi (volume, superficie, altezza, destinazioni d’uso, collocazione sul lotto e via dicendo), ovvero diverse modalità realizzative (ad esempio, numero, collocazione, dimensioni di finestre), rispetto a quanto previsto nell’autorizzazione edilizia.

Per altro verso, si tratterebbe di edifici in parte abusivi e, quindi, sottoponibili alle misure sanzionatorie previste dal DPR 380/01, inclusa la possibilità di procedere ad una “fiscalizzazione” dell’abuso ove ricorrano i presupposti dell’art.34 DPR 380/01 (dove il ripristino o la demolizione non sarebbero tecnicamente possibili), opzione che sovente implica il pagamento di un importo cospicuo, all’esito di un procedimento complesso, e tutto sommato, disincentivante, visto che la sanzione pecuniaria eventualmente corrisposta non possiede, come noto, alcun effetto sanante, essendo unicamente diretta ad escludere demolizioni o ripristini pregiudizievoli.

La necessità di reperire una adeguata soluzione alla problematica era stata anche sollevata dagli operatori, non ultima l’Avvocatura, nell’evidente proposito di reperire un rimedio coerente, superando la paralisi determinata dalla difformità e dai contrasti con la normativa urbanistico-edilizia vigente, soprattutto di carattere comunale, in presenza di situazioni riconducibili ad un affidamento del soggetto oggi titolare dell’immobile, proponendosi quindi una regolarizzazione a livello edilizio dell’immobile con una forma di sanatoria che superasse quella prevista dall’art.36 DPR 380/01, prescindendo non solo da una doppia, ma anche da una singola conformità, con il risultato di avere un titolo tale da consentire sia l’alienazione e la circolazione di un bene legittimamente trasformato o trasformabile dall’acquirente, sia l’esecuzione di tutti quegli interventi di recupero e di riqualificazione dell’immobile, perché reso conforme e privo di una originaria abusività rilevante.

Del resto, la impossibilità di approdare ad una sanatoria in presenza di tali situazioni contrasta con vari interessi pubblici, non solo riferibili al mercato immobiliare (la sussistenza di eventuali irregolarità vede la fuoriuscita dal mercato immobiliare di tali edifici, non alienabili perché non sanabili), ma anche interessanti aspetti strettamente edilizi, come il recupero di tali costruzioni (per la sottrazione dalla possibile attività di una loro ristrutturazione e riqualificazione, di cui sovente necessitano, trattandosi di manufatti risalenti nel tempo e che comunque sono presenti nel territorio), nella prospettiva sempre più pregnante di un risparmio di suolo, e quindi un loro effettivo utilizzo.

 

2. LA LEGGE REGIONALE VENETO N.50/19

Nel silenzio del legislatore nazionale sulla problematica esposta, in data 23 dicembre 2019 la Regione Veneto ha approvato la LR 50/19, intitolata “Disposizioni per la regolarizzazione delle opere edilizie eseguite in parziale difformità prima della entrata in vigore della legge 28 Gennaio 1977 n.10 “Norme in materia di edificabilità dei suoli”, come pubblicata sul BUR il successivo 27 dicembre 2019.

In ossequio a quanto previsto dall’art.6 LR 50/19, che rinviava l’efficacia della nuova legge alla data del 25 febbraio 2020, la LR 50/19 è entrata ufficialmente in vigore dopo tale data, venendo nel frattempo prontamente colpita, come noto, dalla impugnativa avanti alla Corte Costituzionale promossa dal Governo della Repubblica, per il denunciato contrasto con i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale in materia di governo del territorio in violazione dell’art.117 comma 3 Cost. .

Il nuovo testo legislativo reca una disciplina diretta alla regolarizzazione degli abusi minori e risalenti nel tempo, quindi sostanzialmente una sanatoria di quelle opere edilizie che fossero state eseguite in parziale difformità rispetto ad un titolo edilizio, come rilasciato, anteriormente all’avvento della L.10/77 in materia di edificabilità dei suoli.

Sulle finalità della legge, è utile richiamare quanto contenuto nella Relazione che ha accompagnato il testo legislativo al Consiglio Regionale dove la nuova legge è volta a “facilitare il processo di recupero e di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente, in particolare della città consolidata”, quindi di “quella parte della città che ha avuto il suo massimo incremento a seguito del boom edilizio degli anni ’60 e ’70 e che presenta un patrimonio edilizio ormai datato” e necessitante di una auspicata riqualificazione, già oggetto di altre leggi in materia negli ultimi anni; soggiunge la Relazione come “La normativa proposta .. intende offrire alle amministrazioni comunali, su istanza dei soggetti privati, un utile strumento per definire e regolarizzare sotto il profilo urbanistico una considerevole porzione del patrimonio edilizio esistente”; dunque, “si tratta degli immobili oggetto di modeste difformità edilizie relative ad opere edilizie eseguite in parziale difformità al titolo abilitativo rilasciato o al progetto approvato prima della entrata in vigore della legge n.10 del 1977”, per cui la nuova normativa ammette la “sanabilità di opere realizzate in parziale difformità dal regolare titolo edilizio o, in alternativa, da un progetto approvato, dando luogo a quelle che possono essere considerate infrazioni minori”.

Così il legislatore veneto si è quindi prefisso di “fornire ai comuni uno strumento di governo del territorio utile per definire, tramite lo strumento della segnalazione certificata di inizio attività e il pagamento di sanzioni pecuniarie, numerose situazioni edilizie ancora irrisolte, caratterizzate da un abusivismo minore e risalente al periodo anteriore all’entrata in vigore della citata legge 10/1977, salvaguardando l’affidamento maturato dai soggetti privati alla conservazione, alla libera circolazione nonché alla trasformazione edilizia consentita dallo strumento urbanistico comunale dei suddetti edifici”.

Significativamente, la Relazione evidenzia anche la posizione della minoranza consiliare, esposta in Seconda Commissione, e ribadita con l’astensione al momento del voto in aula, nella quale si dà atto delle difficoltà dei comuni e degli operatori del settore a gestire quello che è definito un “micro contenzioso” relativamente alle opere anteriori al 1977 e incidente sulla possibilità di perfezionare atti di trasferimento della proprietà, salutando la disciplina in questione come “un intervento necessario quanto scivoloso”, nel tentativo di “mettere ordine alla materia”.

 

3. IL (PERICOLOSO) PRECEDENTE DELL’ART.17 bis LR EMILIA-ROMAGNA N.23/04

Nonostante gli elementi di criticità (di cui si darà conto nel prosieguo), emersi nel corso delle audizioni in Commissione Consiliare, la Regione Veneto ha scelto coraggiosamente di adottare una disciplina della regolarizzazione, approvando un testo legislativo che fa espressamente riferimento alla normativa, pressoché analoga, vigente nella confinante regione Emilia-Romagna.

La Relazione al disegno di legge approvato menziona come il contenuto della regolarizzazione sia stato elaborato prendendo quale modello “analoga norma emanata dalla Regione Emilia-Romagna (art.17 bis della legge 21 ottobre 2004, n.23) [come introdotto dall’art.46 LR 15/13 – intitolato “Varianti in corso d’opera a titoli edilizi realizzati prima della entrata in vigore della legge n.10 del 1977”] e analogamente attiene esclusivamente il piano della regolarizzazione amministrativa sotto il profilo urbanistico-edilizio dell’immobile”.

Il legislatore veneto ha quindi mutuato, come si vedrà, in parte la disciplina emiliana, ma – soprattutto – ha preso quale punto di riferimento l’art.17 bis LR 23/04, muovendo dal fatto che la norma in questione (introdotta nel 2013) non era stata oggetto a suo tempo di impugnazione governativa avanti alla Corte Costituzionale, diversamente da quanto avvenuto, per altre leggi regionali in materia di sanatoria edilizia e, come verificatosi, anche per la LR 50/19.

Dunque, il precedente della regione contermine ha senza dubbio influenzato il legislatore veneto non solo in termini contenutistici, prendendo atto che né lo Stato, né il Tribunale Amministrativo, avevano o hanno denunciato la incostituzionalità della legge, ma con ciò facendo, forse, scordando che nel 2013 il Governo nazionale e quello della Regione Emilia-Romagna erano “allineati”.

Peraltro, tra la normativa veneta e quella emiliana, non vi è una identità completa, avendo la legge emiliana un contenuto più simile ad una inibitoria alla demolizione, applicando le sanzioni previste per la ordinaria sanatoria e non specifiche previsioni, lasciando intatta anche in questo caso la disciplina sanzionatoria di settore, come richiamato anche dall’art.2 comma 4 LR 50/19.

 

4. LA IMPUGNAZIONE PER INCOSTITUZIONALITA’ DELLA LR 50/19

Come noto, il precedente della vicina regione non ha salvato la normativa veneta dalla impugnazione statale avanti alla Corte Costituzionale, impugnazione che, secondo i primi commentatori, potrebbe trovare accoglimento, in ragione dei numerosi precedenti in materia di tentata regolarizzazione regionale delle abusività espressi dalla Corte Costituzionale.

Peraltro, il legislatore veneto, come era già emerso nel corso delle audizioni estive in Seconda Commissione del Consiglio Regionale, a seguito della presentazione del possibile testo della legge, era ben a conoscenza del profilo di criticità che l’iniziativa legislativa presentava, avendo riguardo alla compatibilità costituzionale di una regolarizzazione amministrativa di lievi abusività di matrice regionale; e ciò alla luce della costante giurisprudenza della Corte Costituzionale che, in più occasioni, aveva “fulminato” con la illegittimità costituzionale alcune leggi regionali approvate in materia di sanatoria edilizia, muovendo dal rilievo che queste prescinderebbero dalla sussistenza della c.d. “doppia conformità”, prevista ed imposta a livello statale dall’art.36 DPR 380/01, individuata come principio fondamentale della materia del governo del territorio (si vedano Corte Cost. nn.233/15, 50/17, 107/17, 232/17, 68/18, 2/19 e 260/19).

Nel testo regionale veneto, peraltro, significativamente e diversamente da altre iniziative similari, viene dato risalto al legittimo affidamento, come meritevole di una tutela, riconosciuto in capo ai soggetti interessati (che sovente non sono né autori e neppure a conoscenza della sussistenza di un abuso, commesso in data risalente, relativamente ad un immobile realizzato oltre 40 anni fa).

Tale situazione soggettiva viene quindi prevista direttamente dalla legge (art.1 LR 50/19), consentendo la possibilità di una regolarizzazione postuma di lievi difformità, il tutto non disgiunto dalla necessità di recuperare e riqualificare il patrimonio edilizio esistente in una logica, costantemente ripetuta a sfinimento, di un risparmio del consumo di suolo.

Come detto, nonostante i migliori propositi e le oggettive esigenze del territorio, il Governo della Repubblica ha provveduto ad impugnare avanti alla Corte Costituzionale la LR 50/19, ed in specie gli articoli 1 e 2, il cuore della disciplina, lamentando il contrasto delle norme regionali con varie disposizioni, tanto della Costituzione (art.117 comma 3), con riguardo alla materia del “governo del territorio”, come del DPR 380/01 (artt. 1 e 2).

Nel testo del ricorso dello Stato, pubblicato sul BUR n.44 del 3.04.20, il pronunciamento della incostituzionalità viene motivato con la avvenuta introduzione di una sostanziale nuova forma di condono edilizio, come sarebbe confermato dal contenuto della Relazione al progetto di legge, derogando ai principi dettati dagli artt.31 e 33 DPR 380/01 che dispongono la demolizione o il ripristino dei luoghi in caso di interventi eseguiti in assenza o difformità dal permesso di costruire, con la previsione di una sanzione pecuniaria sostitutiva nei soli casi dell’art.33 comma 2 DPR 380/01, dove la sanatoria è prevista dall’art.36 DPR 380/01 in presenza della “doppia conformità”; l’art.2 comma 1 LR 50/19, quanto alla misura della regolarizzazione prevista (pari a 1/5), contrasterebbe poi anche con l’art.34 comma 2 ter DPR 380/01 che ancora la parziale difformità alle eccedenze per ciascuna unità immobiliare del 2%.

Le nuove norme contrastano con i principi del DPR 380/01, in quanto introducono: a) una nuova ipotesi in cui è possibile sostituire la demolizione con una sanzione pecuniaria; b) nuove ipotesi di sanatoria degli abusi edilizi diverse da quella prevista dall’art.36 DPR 380/01.

Il ricorso statale richiama poi i precedenti pronunciamenti della Corte Costituzionale in materia, tutti concordemente affermativi della competenza statale in materia di sanatoria edilizia e di condono, e delle indicazioni degli artt.36 e 37 DPR 380/01, con il parametro della doppia conformità, come norme di principio nella materia del governo del territorio.

Altre censure vengono poi mosse alla scelta di affidare la regolarizzazione ad una SCIA in luogo del permesso che, invece, è indicato nella legislazione statale quale titolo per la regolarizzazione, considerando poi che la iniziativa regionale attuale verrebbe a porsi al di fuori dei termini temporali, ormai decorsi, entro i quali il legislatore regionale avrebbe potuto legiferare in materia di condono secondo quanto disposto dal DL.168/04 (!), a seguito del condono edilizio di cui al DL.269/03 e alle vicende a questo connesse (scordando che il legislatore veneto ha esercitato quel potere con la LR 21/04 …).

A prima vista il ricorso appare una affermazione di principio, con alcune sviste di non poco conto considerando da chi viene promosso, non considerandosi alcuni elementi rilevanti, come il fatto che non solo l’art.33 comma 2, ma anche l’art.34 comma 2 prevede una sanzione pecuniaria, così come l’art.37 per gli abusi minori; non si considera che oggetto della regolarizzazione non sono le opere prive di titolo, ma quelle difformi da un titolo; non si considera che l’art.34 comma 2 ter, in realtà, opera una limitazione delle difformità edilizie, per cui sono irrilevanti quelle che si pongono al di sotto del limite del 2%; non pare proprio felice e conferente il richiamo ad un tardività, rispetto al 2004, della normativa “delegata” in tema di condono, inverando una ipotesi di contrasto che, allo stato, nessun commentatore risulta aver rilevato.

Pertanto, l’unico profilo di una certa solidità pare essere quello correlato ai precedenti in materia di “condono o sanatoria regionale” espressi dalla Corte Costituzionale.

 

5. SULLA APPLICAZIONE DELLA LEGGE

Sorge quindi in capo alle Amministrazioni Comunali, ai professionisti, ai singoli cittadini, il dubbio se sussista la legittima possibilità, o meno, di applicare le disposizioni contenute nella LR 50/19, benchè oggetto di impugnativa governativa avanti alla Corte Costituzionale, quantomeno sino al momento in cui la q.l.c. verrà decisa.


5.1 Gli effetti della impugnativa costituzionale
– A fronte del dubbio sollevato, va chiarito che – allo stato – la LR 50/19, nonostante sia sottoposta ad impugnativa governativa avanti alla Corte Costituzionale, è disciplina pienamente applicabile, in quanto norma di legge vigente ed efficace.

Tale deduzione non sostanzia alcun atto sovversivo o di altra riprovevole natura, ma viene confermata dalle stesse disposizioni che regolano la materia della impugnativa delle leggi avanti alla Corte Costituzionale e i suoi effetti.

In materia dispongono varie norme.

In primo luogo, l’art.136 Cost. afferma come “Quando la Corte dichiara la illegittimità costituzionale di una norma di legge o di altro atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”; pertanto, sino a tale giorno, la norma è efficace.

Il principio è ribadito altresì dall’art.30 L. 87/53 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte Costituzionale) che prevede a sua volta al comma 3 che “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.

Dunque, è principio generale dell’ordinamento che la norma impugnata per ragioni di sospetta incostituzionalità continui ad avere efficacia, e quindi applicazione, sino alla data di pubblicazione della eventuale decisione della Corte Costituzionale che la espunga dall’ordinamento

Detto principio generale può trovare una deroga unicamente per effetto di una eventuale sospensione della efficacia della norma impugnata che venga disposta dalla stessa Corte Costituzionale nelle more del giudizio di legittimità costituzionale, disponendo appunto la temporanea inefficacia ed inapplicabilità della norma sino alla definizione del giudizio avanti alla Corte.

La sospensione, quale misura cautelare, è espressamente prevista agli artt.35 e 40 L. 87/53, e viene emessa dalla Corte Costituzionale, a seguito di istanza presentata o d’ufficio, e valutato se l’esecuzione dell’atto impugnato, o di parti di esso, possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio per l’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica o un rischio di un pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini.

Non esistendo in realtà una casistica estesa sulla questione, nella fattispecie la pronuncia di una sospensione, pur astrattamente possibile (e non si esclude che si arrivi a tale opzione), non pare a prima vista una soluzione scontata, muovendo dalla semplice considerazione che la fattispecie oggetto della disciplina impugnata riguarda immobili esistenti da quaranta anni e della cui legittimità o abusività nessuno ha mai avuto da ridire, dove – anzi – il loro recupero, in vista della loro cessione e/o trasformazione secondo la pianificazione urbanistica comunale, appare un interesse pubblico assolutamente prevalente, senza che il conseguimento di una eventuale sanatoria possa rappresentare un pregiudizio per l’ordinamento giuridico della Repubblica, dove non sembra sussistere, poi, alcuna ipotesi di pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini, anzi sembra proprio il contrario.

Pertanto, sino a quando la efficacia della normativa impugnata non venga intercettata da una sospensione da parte della Corte Costituzionale, si deve ritenere che la stessa possa trovare legittima applicazione, sino alla emissione della eventuale sentenza di accoglimento della questione di legittimità costituzionale come sollevata.

Da ciò discende che una istanza di regolarizzazione secondo l’art.2 LR 50/19 è perfettamente presentabile, valutabile e quindi assentibile dalle amministrazioni comunali pur in pendenza del giudizio di legittimità costituzionale (salva la sospensione che ad oggi non risulta emessa), e quindi il titolo edilizio in sanatoria è altrettanto legittimamente conseguibile nel rispetto delle previsioni della medesima LR 50/19.


5.2 La sorte dei titoli edilizi conseguiti in forza di disposizioni dichiarate incostituzionali
– Un secondo dubbio che potrebbe affacciarsi è quello relativo al destino di eventuali titoli conseguiti anteriormente alla eventuale emissione della sentenza di accoglimento della q.l.c., in quanto si potrebbe ipotizzare che, venuta meno la legge autorizzativa, anche gli atti e i provvedimenti su questa fondati verrebbero meno, considerando che l’annullamento costituzionale ha un effetto retroattivo, cancellando tutti gli effetti della norma dichiarata incostituzionale.

Tale prospettazione non è condivisibile in quanto, se è vero che la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce dopo la pubblicazione della sentenza che essa possa essere applicata ai rapporti per i quali la norma in questione risulti rilevante, stante l’effetto retroattivo dell’annullamento, tale effetto non trova applicazione ai c.d. “rapporti esauriti”.

Se quindi sia stato emanato un atto sulla base di una norma poi dichiarata incostituzionale, la declaratoria di illegittimità non determina la caducazione automatica dell’atto medesimo, non sussistendo tra legge ed atto amministrativo un rapporto di consequenzialità e, pertanto, la dichiarazione di incostituzionalità non incide sugli effetti irreversibili già prodottisi, poiché la retroattività degli effetti della dichiarazione di incostituzionalità incontra un limite negli effetti che la norma, benchè rimossa dall’ordinamento successivamente, abbia irrevocabilmente prodotto, per l’esaurimento dello specifico rapporto giuridico disciplinato dalla norma espunta.

Il principio è stato anche recentemente affermato dalla giurisprudenza, per cui “in base al combinato disposto dell’articolo 136 della Costituzione e dell’articolo 30 della legge 11 marzo 1953 n.87, la pronuncia di illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia erga omnes ed impedisce, dopo la pubblicazione della sentenza, che possa essere applicata ai rapporti in relazione ai quali la norma risulti anche rilevante, stante l’effetto retroattivo dell’annullamento escluso solo per i rapporti esauriti” (Cons.St.Sez.VI,732/19 e Sez.III, 1429/12).

Facendo quindi una valutazione meramente pratica, immaginando allora che, in assenza di sospensione (che farebbe cadere come detto ogni ipotesi applicativa), comunque il giudizio di legittimità costituzionale venga ad essere calendarizzato tra 8-10 mesi in considerazione dei tempi della Corte Costituzionale, residuerebbe dal 26 febbraio 2020 un discreto arco temporale nel quale poter presentare le istanze di regolarizzazione ai sensi della LR 50/19, considerando che, per effetto del decorso del termine di 30 giorni a seguito della presentazione della SCIA, il rapporto in questione deve ritenersi esaurito, escludendosi così la successiva caducazione della “abilitazione” sulla SCIA presentata, così maturata.


5.3 Sulla stabilità del titolo così conseguito
– Viene, a questo punto spontaneo, chiedersi se un simile atto, come maturato a seguito del decorso del termine previsto in materia di SCIA, possa essere considerato stabile e quindi definitivo per colui che lo abbia conseguito, una volta che sopraggiunga la dichiarata illegittimità costituzionale della normativa.

In linea di massima, il titolo così conseguito si può ritenere definitivo, in perfetta analogia con i titoli edilizi usualmente conseguiti e maturati, restando – al pari di questi – sottoposto anch’esso alle eventuali iniziative impugnatorie dei terzi ovvero a provvedimenti di autotutela da parte dell’Amministrazione nell’ordinario contesto dell’esercizio del generale potere di ritiro degli atti amministrativi.

In tali ipotesi, la regolarizzazione in questione, al pari degli altri titoli edilizi, verrebbe ad essere interessata da una illegittimità conseguente alla eventuale dichiarata incostituzionalità della disposizione che la regola, anche se le fattispecie sono sostanzialmente diverse.

Se, infatti, con riguardo alla possibile impugnativa giudiziale di un titolo da parte di terzi, la sussistenza della illegittimità presupposta determinerebbe una probabile pronuncia di annullamento del titolo impugnato, altrettanto non pare possa dirsi avendo riguardo ad un eventuale procedimento di annullamento ex art.21 nonies L.241/90 che l’Amministrazione dovesse attivare, anche in questo caso su evidente sollecitazione di qualche controinteressato che intenda contrastare in via amministrativa il titolo regolarizzatorio che fosse stato conseguito.

In tale ipotesi, in presenza di una eventuale illegittimità del titolo sanante così rilasciato, perché discendente da una disposizione dichiarata incostituzionale, non si ritiene possa fondare sic et simpliciter un annullamento comunale in sede amministrativa.

Infatti, secondo l’art.21 nonies L.241/90, per potersi pronunciare l’annullamento in sede di autotutela, non è sufficiente la presenza di una accertata e presupposta illegittimità dell’atto, occorrendo infatti la contemporanea presenza di ulteriori elementi che vanno a giustificare l’adozione del provvedimento di ritiro di un precedente atto favorevole al privato, ferma restando la questione, ancora aperta, della esperibilità di un simile rimedio dal terzo, quando questi sia decaduto dai termini di una impugnativa giudiziaria, mai proposta.

Devono infatti ricorrere gli ulteriori requisiti previsti dall’art.21 nonies L.241/90, indicati: i) nella necessaria sussistenza di un interesse pubblico all’autotutela; ii) nel fatto che si intervenga entro un termine ragionevole, comunque non superiore a 18 mesi dal momento dell’adozione del provvedimento autorizzatorio; iii) nella doverosa considerazione degli interessi dei destinatari del provvedimento.

In ordine alla sussistenza dei predetti requisiti, si osserva che, con riguardo al fattore temporale (sub.ii), resta fermo che l’avvenuto superamento del termine di 18 mesi nella fattispecie dipende dal momento fattuale in cui da un lato il soggetto che sospinge l’azione comunale di annullamento (con esposti, richieste, denunce …) abbia avuto una conoscenza dell’avvenuto conseguimento del titolo (che riguarda un edificio che esiste da 40 anni …) e, dall’altro, quindi se sia o meno decorso il termine massimo ammissibile entro il quale operare l’annullamento (decorrente dal conseguimento del titolo e non dal momento in cui il terzo abbia avuto conoscenza dell’avvenuto rilascio/conseguimento del titolo).

Quanto alla necessaria sussistenza di un interesse pubblico (sub.i), è notorio che tale interesse viene riconosciuto nella prospettiva di ripristinare una legalità in qualche modo violata dall’atto che si vorrebbe ritirare.

Nella presente vicenda appare problematico configurare un sicuro interesse pubblico ad un ripristino di una situazione abusiva antecedente, come violata dal rilascio dell’atto illegittimo, in quanto non sussisterebbe alcun atto la cui eliminazione garantirebbe un ripristino di una precedente legalità violata, ma l’esatto contrario, perché oggetto di annullamento dovrebbe essere un titolo che regolarizza, eliminando una illegittimità (data nella fattispecie dalla difformità edilizia), per cui anche dal punto di vista concettuale appare di problematica giustificazione una motivazione oggettiva di un simile intervento per tale aspetto.

A livello intrinseco, va poi considerato come il rilascio del titolo in sanatoria non implichi, quale proprio effetto, la compromissione di un equilibrio urbanistico che a seguito del rilascio del titolo ne risulterebbe alterato, inverando sotto tale profilo un interesse pubblico prevalente alla sanatoria, e ciò non solo in ragione delle dimensioni delle difformità, lievi e di minore entità, regolarizzabili con la LR 50/19, ma proprio alla luce del fatto che tali difformità nella maggior parte dei casi non hanno alterato alcun equilibrio urbanistico-edilizio, né in passato, né ora, compromettendolo, trattandosi di irregolarità sussistenti da oltre 40 anni e che, in tale arco temporale, è ragionevole supporre che se un qualche equilibrio o un qualche diritto fosse stato intaccato dalla situazione abusiva, senza dubbio la vicenda sarebbe già stata oggetto di una qualche iniziativa repressiva comunale o avanti al Giudice Civile come promossa dai terzi danneggiati.

Nella vicenda, l’aspetto dell’interesse pubblico va anche considerato con altre sue declinazioni, visto che sussiste nella volontà della legge regionale n.50/19 il preciso intento di garantire il recupero degli immobili interessati da una peculiare tipologia, lieve, di  abusi, garantendone così una futura trasformabilità e/o trasferibilità, in vista di loro riuso, di un ammodernamento, prospettive di rilevante interesse pubblico (come del resto riconosciuto direttamente dalla LR 50/19) che verrebbero frustrate certamente con il ritorno alla “completa illegittimità” del bene o di parte di esso, per effetto del quale – tra l’altro – dovrebbero anche scaturire iniziative comunali di carattere repressivo mai attivate prima.

A ciò si aggiunga che dovrebbero essere restituiti al soggetto richiedente gli importi di cui alla oblazione prevista dall’art.2 LR 50/19, che – come si vedrà – dovrà essere pagata prima del deposito della SCIA per conseguire la regolarizzazione.

Decisamente difficile dal punto di vista motivazionale è poi la questione del giusto rilievo da riconoscersi alla posizione del privato (sub.iii) che verrebbe ad essere incisa e pregiudicata dall’annullamento ufficioso.

In primo luogo, si dovrebbe evidenziare la piena consapevolezza dell’Amministrazione di incidere sulla posizione del privato, riportando l’interessato nella titolarità di un bene che versa in quella inutile e sterile posizione di abusività, determinante il blocco edilizio del bene.

In secondo luogo, occorre anche essere considerare la sussistenza di un affidamento in capo al soggetto interessato, affidamento che viene riconosciuto ed evidenziato dall’art.1 LR 50/19 quale elemento identificativo della stessa iniziativa di regolarizzazione, cui si aggiunge un ulteriore profilo di affidamento, palesato sin dal momento della presentazione della domanda di regolarizzazione, per un abuso al quale, nella maggior parte dei casi, l’istante si rivela perfettamente estraneo, sia in termini di committenza, come di ordine materiale ed esecutivo.

Si ricorda come nell’ordinamento la tutela dell’affidamento del privato ha assunto un ruolo sempre maggiore proprio nella elaborazioni giurisprudenziale a fronte di situazioni obiettive, pervenendosi a garantire la tutela dell’affidamento legittimo anche in capo a colui che, suo malgrado, in presenza tanto di titoli edilizi abilitativi come presenti e conseguiti, come di regolare abitabilità/agibilità conseguita anch’essa, viene a trovarsi una situazione di irregolarità edilizia altrimenti non sanabile.

Si rammenta come il legittimo affidamento ha recentemente reperito una diretta valorizzazione nelle decisioni nn.8 e 9/17 della Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, ingenerando quella che la giurisprudenza definisce una “aspettativa giuridicamente qualificata” che sarebbe ingiustamente sacrificata in capo a tale soggetto in presenza di condizioni di estraneità sostanziale dello stesso alla commissione dell’abuso edilizio.

Nella fattispecie, inoltre, il legittimo affidamento sarebbe indubbiamente comprovato dalla sussistenza di un certificato di agibilità o abitabilità dell’immobile, a suo tempo rilasciati, che ne attesterebbe anche oggettivamente una regolarità edilizia, considerando come in relazione alla esecuzione agli interventi autorizzati anteriormente alla L.10/77 tale certificato veniva rilasciato a seguito di regolare visita e sopralluogo sull’immobile e con annessa dichiarazione/attestazione del certificatore della rispondenza di quanto eseguito al titolo legittimante rilasciato, in armonia con l’art.221 RD 1265/1934 (come noto, alla data odierna, tale certificazione non ha più tale valore).

Nella vicenda appare quindi imprescindibile la individuazione di affidamento in capo all’attuale titolare del bene considerando che, per lo più, costui riceve iure hereditatis o per atto contrattuale il bene difforme, e viene solo alla data attuale, e comunque ex post, a conoscenza delle medesime difformità, delle quali non risulta esserne l’autore e di cui è chiamato a subire le conseguenze, anche di carattere sanzionatorio, senza una ragionevole prospettiva di poter contrastare la doverosa iniziativa repressiva comunale.

Nella fattispecie, deve essere anche considerato l’effetto, senza dubbio pesante, delle eventuali misure sanzionatorie che dovessero essere predisposte dal Comune, sul bene in quanto tale (in quanto abusivo, essendo irrilevante se a questo punto l’Amministrazione abbia avuto contezza o meno della difformità a seguito della presentazione di una istanza di regolarizzazione, poi rigettata), visto che l’attuale titolare del bene abusivo sarebbe sempre teoricamente esposto ad un provvedimento sanzionatorio ripristinatorio o demolitorio, per la cui esecuzione potrebbe anche dimostrare un disinteresse, vanificando anche sotto tale profilo le prospettive di riqualificazione e di riutilizzo di un bene, destinato a essere demolito, in parte, per le difformità riscontrate, determinando comunque una situazione idonea a bloccare la trasferibilità del bene.

 

6. L’ART.1 LR 50/19 – LE FINALITA’ DELLA LEGGE E L’AMBITO SOGGETTIVO

L’art.1 espone in modo lineare le finalità delle nuove disposizioni che attengono a modalità e procedure per il “recupero e la riqualificazione del patrimonio edilizio esistente”, consentendo la “regolarizzazione amministrativa delle parziali difformità edilizie risalenti nel tempo”, interessando quelle che risultano poi essere qualificate dal legislatore come minori o lievi difformità edilizie.

La disposizione evidenzia poi alcuni elementi di principio e che hanno orientato la scelta del legislatore, diretta ad una fattiva tutela del legittimo affidamento dei soggetti interessati e in vista di una semplificazione dell’azione amministrativa, il tutto in coerenza con le disposizioni di cui alla LR 14/17 in tema di contenimento del consumo di suolo.


6.1 L’effetto della regolarizzazione
– Nessun dubbio sembra prospettarsi sull’effetto della regolarizzazione disciplinata dalla LR 50/19 che, secondo la stessa espressa indicazione normativa contenuta all’art.1 LR 50/19, è diretta a consentire, come suesposto, “la regolarizzazione amministrativa delle parziali difformità risalenti nel tempo”.

Si tratta quindi di una iniziativa sostanzialmente equiparabile ad una sanatoria con effetti unicamente in ambito amministrativo (quindi priva di effetti penali e quindi civili) del tutto similare per tale aspetto ad un condono edilizio, ragione per cui l’iniziativa legislativa si porrebbe in palese contrasto da un lato con il disposto dell’art.36 DPR 380/01 (che ammette la sanatoria ordinaria) e dall’altro con i principi generali in materia che assegnano al legislatore statale la competenza in materia, come già esposto e rilevato dalla stessa impugnativa governativa della LR 50/19.

La regolarizzazione della LR 50/19 opera direttamente ex lege, non richiedendo alcuna conformità né ad una norma urbanistico-edilizia, men che meno attuale, né ad un presupposto titolo o ad un progetto, da cui è infatti la situazione che si intende regolarizzare è difforme.

Nella fattispecie, si prescinde quindi da un parametro di conformità ad una normativa, non rilevando quella esistente al momento della commissione dell’abuso, come quella al momento di presentazione della domanda (come prescritto dall’art.36 DPR 380/01); si prescinde altresì da una qualche conformità con una normativa esistente al solo momento della presentazione della domanda di sanatoria o di decisione sulla stessa (come avviene con la sanatoria “giurisprudenziale”), alla quale le ipotesi di regolarizzazione della LR 50/19 non possono essere ricondotte (ferma la avversione del giudice amministrativo a tale ipotesi di regolarizzazione, individuata come atto atipico con effetti provvedimentali praeter legem, come ricordato da Cons.St.VI, 6107/19).

L’unico parametro di legittimità della regolarizzazione è valorizzato dalla LR 50/19 unicamente nella sussistenza di un titolo edilizio a suo tempo rilasciato, in primo luogo, ovvero da un progetto approvato, da cui si possa rilevare la difformità parziale.

Da verificare è anche la compatibilità della regolarizzazione con eventuali prescrizioni di carattere sanitario, come quelle relative al DM 1975 sulle altezze interne, e più in generale con il rispetto di altre norme anche di origine statale, che verrebbero superate dalla regolarizzazione eventualmente conseguita, atteso che la normativa regionale non subordina la regolarizzazione al rispetto o alla osservanza di altre e diverse discipline.

Sul punto il legislatore veneto tace, anche se un eventuale contrasto con tali fonti, siano esse di origine statale o regionale, come di provenienza comunale, non dovrebbe essere ostativo alla regolarizzazione.

Come si vedrà, al pari della previsione dell’art.17 bis LR Emilia-Romagna 23/04, la regolarizzazione conseguita in forza della LR 50/19 secondo l’art.2 comma 2 non ha alcuna valenza di diritto civile e men che meno a livello penale (dove, peraltro, vi sono differenze tra la sanatoria ordinaria e quella ottenuta in forza di condono edilizio).

Diversamente da quanto chiesto (insistentemente) e suggerito nel corso delle audizioni in Commissione consiliare, il legislatore non ha ritenuto di indicare in modo espresso se l’immobile eventualmente regolarizzato possa a sua volta divenire oggetto di interventi ampliativi in applicazione di altre norme di legge o per effetto di modifiche pianificatorie.

In assenza di una precisa disposizione, a prima vista, si dovrebbe ritenere che l’edificio come regolarizzato sia passibile di una trasformazione edilizia, includente anche il possibile beneficio di un ampliamento, dove ammesso dalla pianificazione o in applicazione di altre disposizioni di legge.


6.2 Il riferimento temporale della normativa
– L’art.1 LR 50/19 si apre con un riferimento di ordine temporale, stabilendo come la legge resterà efficace sino a quando, in un imprecisato futuro, entrerà in vigore la normativa regionale di riordino della disciplina edilizia in Veneto.

Tale indicazione sembra delineare che la normativa dettata dalla LR 50/19 sia da intendere come un insieme di regole provvisorie, destinate a cedere il passo alle future disposizioni che dovrebbero dare un assetto definitivo alla materia edilizia nell’ambito regionale (invano, annunciate e già attese dal lontano 2003, a seguito dell’entrata in vigore del DPR 380/01), restando la oggettiva incertezza se la futuribile normativa di riordino conterrà, o meno, previsioni di regolarizzazione analoghe a quelle dettate dalla LR 50/19, divenendo quindi una disciplina regolatoria “a regime” delle difformità lievi.

Sotto altro punto di vista, la clausola temporale in questione conferma che la LR 50/19 non ha un termine finale certo e prefissato per la sua applicabilità, diversamente da altri interventi normativi regionali degli ultimi anni (come le varie versioni del “Piano Casa”) recanti una data relativamente certa (date le proroghe) della loro vigenza.

In ogni caso, è pacifico che, diversamente da quanto ipotizzato da alcuno, la fondatezza della questione di legittimità costituzionale della LR 50/19 non potrebbe essere superata dalla annunciata temporaneità della vigenza delle disposizioni della LR 50/19.


6.3 La legittimazione alla richiesta di regolarizzazione
– Le disposizioni della LR 50/19 non individuano i soggetti legittimati alla presentazione della domanda di regolarizzazione di cui all’art.2 della legge, per cui, per tale aspetto, occorrerà rifarsi ai principi generali previsti in via ordinaria dall’art.11 DPR 380/01 in materia di legittimazione a conseguire titoli edilizi.

Non è questa la sede per operare una disamina  dei vari soggetti legittimati a conseguire un titolo edilizio; certamente, oltre al proprietario dell’immobile (pacificamente individuabile), sono ammessi a presentare la relativa istanza a coloro ai quali è riconosciuta dalla giurisprudenza tale facoltà, quali “aventi titolo”, e quindi al superficiario, all’usufruttuario, ai titolari di diritti di uso e abitazione, ai titolari di diritti reali; rientra nella categoria anche il promissario acquirente dell’immobile ove il contratto preliminare sottoscritto preveda espressamente tale facoltà.

Viceversa, si devono ritenere esclusi coloro che vantano diritti di disponibilità meramente obbligatori (locatario, comodatario, concessionario), salvo il titolo espressamente non li abiliti a tale istanza.

Vertendosi in materia di abuso edilizio, il richiamo nella disposizione dell’art.1 al legittimo affidamento, come ambito della tutela accordata con le previsioni della LR 50/19, pone alcune questioni, sia avendo riguardo alla questione il legittimo affidamento debba essere considerato un requisito esplicito o un presupposto della ammissione alla regolarizzazione, sia con riferimento ad alcuni riflessi in tema di legittimazione a conseguire la sanatoria.

È indubbio che la legge muove dall’intento di tutelare un legittimo affidamento dei soggetti interessati, fermo restando che devono sussistere due presupposti per cui: a) la difformità risalga nel tempo; b) vi sia una formale legittimità dell’edificio, come riconducibile alla presenza di un titolo edilizio o di un certificato di abitabilità/agibilità, conseguito al tempo.

Va quindi verificato quando in capo al soggetto interessato possa ritenersi sussistente un legittimo affidamento e quindi una situazione meritevole di tutela nel contesto degli abusi edilizi.

Sul tema dell’affidamento nell’ambito dell’illecito edilizio un punto fermo sembra essere rappresentato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato che, con la decisione n.9/17, ha affermato, in una ipotesi di un immobile completamento abusivo (quindi realizzato sine titulo), che nessun legittimo affidamento appare configurabile al cospetto di un provvedimento di demolizione che si delinea come doveroso, non ammettendosi deroghe a predetto principio, neppure nella ipotesi in cui il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso, per cui l’eventuale affidamento in capo a costui non sarebbe così meritevole di una tutela incidente sull’ordine demolitorio, benchè tecnicamente non autore e responsabile diretto dell’abuso.

A livello soggettivo, infatti, il quadro si complica, soprattutto in considerazione dei più recenti approdi della giurisprudenza che ha, anche recentemente, ampliato la categoria del “responsabile dell’abuso”, ricomprendendo nella definizione non solo colui che materialmente abbia eseguito l’opera ritenuta abusiva, ma anche chi di questa opera abbia la successiva materiale disponibilità e, pertanto, quale detentore o utilizzatore, deve provvedere alla demolizione intimata, restaurando così l’ordine violato (TAR Lombardia,MI,II,120/20, e in termini TAR Veneto,II,1084/19, e altresì TAR Emilia-Romagna,PR,I,72/19), confermando così la insussistenza di un affidamento tutelabile in capo a tali soggetti.

A fronte di tale rigore, che peraltro riguarda la fattispecie della costruzione sine titulo, la posizione di colui che si trovi a subire gli effetti di una ordinanza di demolizione, seppur estraneo alla commissione dell’abuso, pare possa trovare una tutela in presenza di un titolo che invece abbia autorizzato l’esecuzione dell’opera e dal quale poi, in sede esecutiva, ci si sia discostati, come tratteggiato ancora una volta dall’Adunanza Plenaria n.9/17, che evoca la possibilità di una tutela dell’affidamento “di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore, realizzata contra legem”( dove tale richiamo è effettuato – invero – nella ipotesi di abusività totale).

Nella ipotesi legislativa regionale, l’ambito applicativo delle norme è l’esistenza di abusi di lieve entità, quindi fattispecie diverse dalla assoluta abusività, dove evidentemente la legge regionale appare orientata a garantire la possibilità comunque di regolarizzare tale tipologia di immobili, avendo in primo luogo quale riferimento coloro che, estranei alla commissione dell’abuso, ne subiscono ora le dannose conseguenze in termini di insanabilità.

I soggetti che il legislatore della LR 50/19 intende tutelare sono gli acquirenti dell’immobile succedutisi nel corso degli anni o coloro che sono subentrati iure hereditatis nella titolarità dei beni, quindi tutti soggetti diversi dal possibile trasgressore dell’epoca, in quanto titolari di un affidamento nei termini esposti.

Peraltro, non si ritiene che la regolarizzazione possa essere chiesta e conseguita solamente da soggetti che versino in una condizione di “legittimo affidamento” su delineata, venendo in rilievo se tra i legittimati a proporre la domanda di regolarizzazione possa essere annoverato anche il trasgressore, se attuale proprietario, inteso come colui che, a suo tempo, quale committente o esecutore in via diretta delle opere difformi abbia, non solo accettato la loro esecuzione, ma le abbia addirittura imposte o ne abbia dato esecuzione.

Il silenzio del legislatore nella definizione della possibile legittimazione alla proposizione della istanza di regolarizzazione, non consente di escludere dal novero dei legittimati anche l’originario trasgressore, attuale proprietario (se .. ancora tra noi).

E’ quindi evidente che il legittimo affidamento, soggettivamente inteso, non possa costituire un presupposto necessario della regolarizzazione, proprio in ragione della possibile legittimazione del soggetto che sia responsabile dell’abuso a suo tempo commesso, soggetto in capo al quale appare difficile ravvisare quel legittimo affidamento che la regolarizzazione prevista avrebbe cura di tutelare essendo, in linea di principio, un soggetto consapevole della sussistenza delle irregolarità che connotano il bene, dovendosi escludere che un legittimo affidamento possa essere semplicemente intravisto nella convizione tutta personale che la situazione difforme non si presenti abusiva, essendo poi irrilevante il fatto che, nel corso del tempo, il titolo rilasciato non sia mai stato oggetto di provvedimenti amministrativi di ritiro o autotutela o, ancora, vi siano state iniziative di tipo sanzionatorio.

Occorre poi considerare un elemento peculiare di tutta la vicenda, visto che anteriormente alla L.10/77 la fattispecie delle difformità edilizie non aveva una sua disciplina specifica.

All’epoca gli abusi edilizi avevano una dimensione completamente diversa dalla accezione odierna, sia dal punto di vista sostanziale come da quello sanzionatorio, dove il concetto di variante non aveva certamente il significato – negativo – odierno, ma rappresentava una quasi legittima facoltà del titolare della licenza (quando c’era) di poter modificare e adeguare in corso d’opera quanto autorizzato, senza che tale opzione rappresentasse una violazione urbanistico-edilizia.

L’art.32 L.1150/42 all’epoca vigente, prevedeva la demolizione come una mera facoltà per cui il Sindaco poteva disporre sanzioni ripristinatorie, dove solo per effetto dell’art.13 L 765/67 è stata introdotta la possibile applicazione di sanzioni pecuniarie in ipotesi di impossibilità di ridurre in pristino.

Una organica disciplina degli abusi edilizi è stata infatti dettata solo con la L.10/77 e quindi completata con la L.47/85, per cui prima del 1977 la eventuale difformità di quanto realizzato rispetto al titolo o al progetto assentito non aveva quel rilievo, anche sanzionatorio posto dalle norme successive, anzi non era neppure un abuso, ma una irregolarità priva di rilevanza.

In tale contesto, è del tutto plausibile ritenere che chi a quel tempo abbia posto in essere quella che oggi rileva come una lieve difformità (e come tale ammessa alla regolarizzazione speciale di cui alla LR 50/19) non avesse certo né la piena consapevolezza né la volontà di trasgredire l’ordine urbanistico o violare la portata autorizzativa del proprio titolo a edificare.

Peraltro, anche con riguardo alla peculiare posizione dell’originario titolare del bene, si possono fare alcune precisazioni circa il proprio legittimo affidamento, qualora fosse dimostrabile una assoluta estraneità dell’allora concessionario alla fase esecutiva, perché al tempo si era affidato al tecnico incaricato o all’impresa esecutrice, per cui né all’epoca dei fatti, come ora, si potrebbe ipotizzare fosse a conoscenza della esecuzione in difformità o la avesse autorizzata altrimenti.

Si tratta di una buona fede che potrebbe anche essere dimostrata, magari anche con le risultanze di eventuali contestazioni sull’operato dei soggetti a suo tempo incaricati, come anche di eventuali controversie che fossero insorte.

Nondimeno, nei fatti occorrerà verificare in concreto quale sia la tipologia di effettiva difformità sussistente per confermare o meno una buona fede originaria.

Infatti, laddove la difformità consista in pochi centimetri a livello dimensionale, o in uno scostamento di qualche centimetro sul lotto, si versa in una situazione di abusività non immediatamente o direttamente percettibile, come ictu oculi verificabile in corso d’opera; viceversa, tale situazione non ricorre dove le difformità si presentino per misure e parametri edilizi diversi e di maggiore entità, ovvero per destinazioni dell’immobile o di parte di esso non previste o modificate rispetto ad un progetto. In tali contesti è infatti difficile sostenere che ricorra quell’affidamento e quella buona fede che l’ordinamento amministrativo tutela come una soggettiva convinzione della legittimità intrinseca di una situazione discendente

Nonostante tali rilievi, pur nella complessità del tema e in assenza di indicazioni contrarie nella normativa (affidamento o meno), non vi è ragione per escludere anche l’attuale proprietario anche dove coincidente con il trasgressore (quindi l’originario concessionario) dal novero di coloro che possono proporre una istanza di regolarizzazione ai sensi dell’art.2 LR 50/19, dovendosi altresì considerare che lo stesso soggetto sarebbe pacificamente sottoposto alle eventuali misure sanzionatorie sia di ordine reale che pecuniario che si dovessero applicare (al pari dell’acquirente successivo o dell’erede e quindi non sarebbe corretto operare tale differenziazione).

Una ulteriore questione è se possa ritenersi sussistente una legittimazione in capo a quei soggetti che non proprietari siano divenuti destinatari di un ordine di demolizione ex art.31 DPR 380/01, quali responsabili dell’abuso, soggetti in quanto tali ammessi dall’art.36 DPR 380/01 a presentare una istanza di sanatoria ordinaria in materia edilizia.

Fermo restando che anche in capo a tali soggetti appare problematico ipotizzare un legittimo affidamento, considerando che sono tecnicamente sostanziali autori di un abuso, seppure parziale, la ammissione anche di costoro alla presentazione della istanza di regolarizzazione amplierebbe la categoria dei legittimati, sempre sul presupposto che vi possa essere (è da verificare) un interesse in tal senso in capo a costoro.

Se dal punto di vista sostanziale, trattandosi di una sanatoria ex post, parrebbe ingiusto negare anche a costoro la possibilità di eliminare una situazione di abusività laddove interessati a farlo, considerando che nella sanatoria ordinaria l’art.36 DPR 380/01 individua tali soggetti come legittimati in via generale, nel caso concreto una tale legittimazione sembra da escludersi in capo a coloro che siano responsabili ma non proprietari, non solo in ragione del silenzio della norma sul punto (l’art.2 LR 50/19 in merito nulla dice), ma  dovendosi considerare che nel presente contesto non si è in presenza di una “ordinaria” sanatoria ai sensi dell’art.36 DR 380/01, ma di una fattispecie a cui va riconosciuta il carattere della “straordinarietà” della regolarizzazione, per cui in analogia con la normativa speciale dettata in tema di condono edilizio, le relative norme devono essere interpretate in modo rigoroso e restrittivo, non potendosi estendere quindi a soggetti diversi dall’attuale proprietario la legittimazione a conseguire la regolarizzazione de quo.

D’altro canto, non si crede possa essere disconosciuta la natura di legge speciale anche alla LR 50/19, quale normativa introduttiva di una forma di condono edilizio, sostanziando indubbiamente una sanatoria straordinaria, per cui in assenza di una espressa disciplina che estenda la legittimazione a soggetti diversi dal proprietario, va escluso che questi possano validamente proporre una istanza di regolarizzazione.


6.4 Comunione e condominio
– La normativa tace anche con riguardo alla legittimazione nelle ipotesi in cui la proprietà non si presenti unitaria, ma suddivisa tra molteplici soggetti titolari di una parte del bene, quindi con la presenza di comproprietari o con abusi interessanti stabili condominiali.

Anche in tali fattispecie, si ritiene debbano trovare applicazione i principi generali in materia di legittimazione a conseguire il titolo in sanatoria come elaborati dalla giurisprudenza (dove si richiede, tendenzialmente, l’intera proprietà e non solo una quota o una parte di esso, si veda recentemente Cons.St.II,1766/20), anche in relazione alla delicata questione della eventuale opposizione alla iniziativa di regolarizzazione che potrebbe essere frapposta da comproprietari non consenzienti, per le più disparate ragioni.


6.5 Un aspetto particolare: la delega dell’art.32 DPR 380/01 e l’art.92 comma 3 LR 61/85
– Da ultimo, si deve rilevare come per effetto della nuova legge regionale vengono identificati nella Regione Veneto i limiti qualitativi e quantitativi delle difformità parziali ai fini edilizi, per cui viene da chiedersi se in via generale il superamento di tali limiti possa determinare, automaticamente , la sussistenza di una difformità per variazione essenziale, senza dubbio esclusa dalla regolarizzazione, anche ai fini della qualificazione degli abusi edilizi che si dovesse operare dopo l’entrata in vigore della LR 50/19.

In merito, si ricorda come la individuazione dei parametri della variazione essenziale è ad oggi un tema aperto, in assenza di una normativa regionale di esplicita attuazione dell’art.32 DPR 380/01 (che affida al legislatore regionale la determinazione delle fattispecie sostanziali costituenti, nel rispetto dei criteri indicati dal DPR 380/01, le ipotesi di variazione essenziale), considerando che l’art.92 comma 3 LR 61/85 a suo tempo aveva regolato espressamente la fattispecie con una disciplina ritenuta a tutt’oggi applicabile, anche dopo l’avvento del Testo Unico dell’Edilizia.

La LR 50/19 sul punto non pare richiamare alcuna volontà del legislatore regionale di dare seguito alla delega del Testo Unico dell’Edilizia, considerandosi che, al di là delle singole fattispecie che qualificano le singole ipotesi come lievi difformità, non vi è alcuna esplicita previsione con riguardo a quelle ipotesi di variazioni essenziali escluse dall’art.32 comma 2 DPR 380/01 (incidenti sulla entità delle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative, dove tali ultime ipotesi, salvo più precisi, senza dubbio possono rientrare nell’ambito applicativo dell’art.2 LR 50/19) e anche delineate nell’art.92 LR 61/85.

La tesi secondo cui con l’art.2 LR 50/19 sarebbe stata data una attuazione alla delega del DPR 380/10 sulla individuazione delle variazioni essenziali, identificabili nelle ipotesi di violazioni quantitativamente maggiori rispetto ai limiti dimensionali indicati nelle varie lettere dell’art.2 comma 1 LR 50/19, appare di incerto fondamento, visto che la definizione delle variazioni essenziali avrebbe dovuto essere data con la individuazione di ipotesi espresse e definite, tra l’altro vertendosi in ambito sanzionatorio, e non quindi giungendo ad una loro eventuale individuazione per esclusione, come avverrebbe per effetto della individuazione delle lievi difformità.

A ciò si aggiunga che è altrettanto evidente che la delega sarebbe stata attuata in modo parziale rispetto ai parametri dell’art.32 DPR 380/01, parte dei quali non avrebbe avuto una specificazione (si pensi alla lett.e) circa la violazione di norme vigenti in materia di edilizia antisismica, ma anche alla lett.d) sulle caratteristiche dell’intervento).

In ogni caso, attuazione o meno della delega che si voglia individuare, andrà anche valutata la compatibilità dell’art.2 LR 50/19 con l’art.92 comma 3 LR 61/85, la disposizione che reca la disciplina positiva delle varianti essenziali nella Regione Veneto.

Salvo un maggiore approfondimento con riguardo alle singole previsioni dell’art.2 LR 50/19, si può affermare che le due norme sembrano avere una disciplina parzialmente coincidente, visto che nella legge del 2019 non sono ricompresi tutti i parametri della difformità esposti nella LR 61/85, come quelli dell’altezza e della sagoma, tacendo sulla ipotesi della ristrutturazione urbanistica, mentre propone quale autonomo parametro della difformità quello della superficie.

 

7. L’ART.2 LR 50/19 E LE SINGOLE FATTISPECIE

L’art.2 LR 5/19 individua quelli che sono i presupposti oggettivi di applicazione della normativa, evidenziati, sommariamente nei seguenti elementi, per cui sono ammesse alla regolarizzazione le opere edilizie che siano:

a – correlate ad un titolo edilizio abilitativo o ad un certificato di abitabilità o agibilità;

b – state eseguite in parziale difformità rispetto ai titoli edilizi o progetti approvati, rientrando nei limiti dimensionali e qualitativi previsti;

c – connesse ad un titolo rilasciato o approvato prima della entrata in vigore della L.10/77.


7.1 L’ambito oggettivo
– Il corposo art.2 riporta la disciplina della sanatoria regionale, individuando in prima battuta quale ambito oggettivo della normativa quelle opere edilizie, provviste di titolo abilitativo o di certificato di abitabilità o agibilità, che siano state eseguite in parziale difformità dai titoli edilizi rilasciati o dai progetti approvati.

La norma richiama in generale il concetto di <opere edilizie>, senza ulteriori precisazioni, con l’intento di estendere la regolarizzazione a più tipologie di interventi possibile, rientrando nella previsione anche quelle fattispecie di abusività diverse da una mera costruzione in senso stretto, quindi un edificio, ammettendo al beneficio anche l’esecuzione difforme di altri interventi e opere di rilevanza edilizia, come piazzali, strade, recinzioni, tettoie, pertinenze di manufatti, rampe di accesso, terrapieni, quindi tutta una serie di opere diverse dalle costruzioni in senso stretto.

Diversamente da quanto previsto in materia di condono edilizio, la normativa prescinde da un qualsiasi riferimento all’attuale esistenza e sussistenza del manufatto; peraltro, la attuale sussistenza del manufatto in cui si colloca la difformità, in ragione della straordinaria regolarizzazione, deve ritenersi un presupposto logico-giuridico fattuale della sanatoria, per cui non si potrebbe conseguire una regolarizzazione di edifici oramai interamente venuti meno, perché demoliti o crollati.

Per altro verso non si chiede neppure che le opere, come previsto in materia di condono edilizio, siano ultimate o presentino un livello di finitura preciso, come si prescinde dal fatto che gli immobili in questione siano già stati abitati o fruiti; peraltro, non si fa alcun riferimento ad altre eventuali condizioni ostative in cui possa presentarsi l’immobile, come un eventuale stato di abbandono o di degrado dello stesso.

Da punto di vista oggettivo, la regolarizzazione deve riguardare un immobile sussistente al momento della presentazione della domanda e che si presenti come connotato da quelle condizioni strutturali minime che consentano di ritenere esistente una costruzione, come individuate all’art.6 LR 14/19, come integrato dalla LR 29/19, nella presenza quantomeno di strutture portanti e coperture.

Tutta da verificare è la ammissibilità di una regolarizzazione che riguardi un edificio che oggi si presenti in parte diruto, o un rudere (di cui vi sia una contezza della struttura edile); in tale contesto, se siano individuabili le difformità rilevanti di cui all’art.2, non può essere aprioristicamente esclusa una regolarizzazione per alcune delle ipotesi previste, soprattutto per quelli di rilievo dimensionale, nella logica di un suo integrale recupero e quindi di esecuzione di un intervento di ristrutturazione del manufatto in questione

In linea di principio, si può affermare che tutti gli immobili possano beneficiare della regolarizzazione (salvo i limiti di cui al comma 4, di cui si dirà).

La disposizione non opera alcuna distinzione se le difformità riguardino edifici residenziali o con diversa destinazione (produttiva, commerciale, artigianale, agricola), come non viene fatto alcun riferimento alle zone urbanistiche in cui i predetti immobili ricadano, per cui – a prima vista – non dovrebbero sussistere limitazioni a riconoscere la regolarizzazione anche ad edifici in zona agricola, come a quelli collocati in ZTO “A”, quindi nei centri storici (a prescindere da eventuali vincoli esistenti come richiamati dal comma 4 dell’art.2).

In assenza di contrarie indicazioni, sono ammesse a sanatoria anche situazioni abusive già verificate dall’Amministrazione (o in cui sia in corso il relativo procedimento di accertamento), per cui sono regolarizzabili gli immobili che, per la sorte, siano già stati colpiti da un provvedimento di carattere sanzionatorio, con riguardo a difformità riscontrate nello stesso.

Analoga conclusione vale anche con riguardo agli immobili abusivi per il quali il procedimento sanzionatorio sia già giunto alla formalizzazione e comunicazione della ingiunzione alla demolizione, sino a quando non sia decorso il termine per provvedere al ripristino o alla demolizione come indicato nell’ordinanza sanzionatoria, considerando che solo con la scadenza di tale termine come fissato si determinerebbe il presupposto per la acquisizione in via sanzionatoria dell’abuso alla titolarità pubblica, come previsto dall’art.31 DPR 380/01.

Viceversa, una volta scaduti i termini di ottemperanza alla demolizione/ripristino, nel silenzio della legge (differentemente da quanto era previsto in materia di condono edilizio), non è pacifica la possibilità per il soggetto sanzionato di proporre la domanda di regolarizzazione, venendo meno il presupposto soggettivo per la avvenuta perdita della titolarità del bene; infatti, accanto ad un orientamento giurisprudenziale secondo cui il vano decorso del termine per demolire implica in via automatica la sanzione che priva il soggetto della titolarità del bene e quindi di proporre una istanza di sanatoria (si veda da ultimo TAR Sicilia,PA,III,63/20, ma anche TAR Veneto,II,829/17, secondo cui per l’effetto, allora sarebbero inammissibili le domande di sanatoria presentate oltre il novantesimo giorno dalla comunicazione della ordinanza di demolizione, in quanto verificatosi l’effetto acquisitivo a favore del comune, laddove l’ordinanza specifichi già l’area da acquisire), vi sono alcune decisioni per cui, facendo applicazione del disposto dell’art.36 DPR 380/01 (per cui sino al momento della irrogazione della sanzione), si consente la presentazione di una istanza di regolarizzazione anche successivamente all’eventuale decorso del termine per demolire (Cons.St.VI, 7601/19, e IV,410/17).

A maggior ragione, deve escludersi una legittimazione con riferimento ai procedimenti sanzionatori che siano giunti alle fasi successive, quindi con la materiale irrogazione delle sanzioni amministrative come la demolizione coattiva o la acquisizione al patrimonio comunale.

Sono da considerarsi regolarizzabili anche abusi che siano stati oggetto di provvedimento sanzionatorio che sia stato regolarmente impugnato tanto in via amministrativa, come giurisdizionale (tanto avanti al Giudice Amministrativo, come con ricorso al Presidente della Repubblica), mancando la definitività della acquisizione.

Venendo poi al possibile contenuto dell’istanza, va verificata la possibilità di proporre una istanza di regolarizzazione parziale, riferita dunque ad una o più delle ipotesi di abuso come indicate tra quelle dell’art.2 LR 50/19, che sia però sia (o siano) comprese in un edificio connotato da altre, diverse e maggiori abusività che, a loro volta, non diverrebbero in via diretta oggetto di regolarizzazione.

In tale situazione, il conseguimento di una regolarizzazione limitata solo ad alcuni aspetti di una abusività più estesa potrebbe rilevare ai fini di una eliminazione totale o parziale della sanzionabilità, nella prospettiva di conseguire quindi una dequotazione dell’abuso stesso e poter così ricorrere, ad esempio, a sanzioni pecuniarie in luogo di quelle reali per le parti non eventualmente regolarizzate.

Le disposizioni della LR 50/19 nulla dicono con riferimento a tale aspetto, per cui occorre rapportarsi con i principi generali.

In tema di possibili regolarizzazioni “parziali” di opere rientranti nell’ambito di un abuso maggiore, vi sono infatti due aspetti da valutare, tra loro strettamente connessi.

Sotto un primo profilo, vi è il principio generale della unitarietà dell’abuso, per cui una violazione urbanistica edilizia va debitamente considerata nella sua unitarietà ed inscindibilità, essendo infatti pacifico che una situazione abusiva può ricomprendere al suo interno situazioni e fattispecie che – astrattamente – sarebbero riconducibili ad abusi minori e se singolarmente intesi potrebbero portare ad una loro, limitata, legittimazione che, però, non varrebbe ad escludere, come detto, la maggiore che – quindi – resterebbe sanzionabile, in quanto lesiva dell’assetto urbanistico e territoriale; va ricordato come il predetto principio abbia anche trovato una recente conferma allorquando si è affermato come “la valutazione della sanabilità delle opere incluse nell’istanza presentata ai sensi dell’art.36 DPR 380/2001, nel caso in cui nella stessa area di pertinenza coesistano altre opere abusive non considerate dall’interessato nella predetta istanza, ma pur sempre collegate alle prime ,.., non può non includere la verifica circa la sanabilità delle altre opere edilizie abusivamente realizzate, atteso che lo scrutinio sulla doppia conformità non può che essere complessivo (Cons.St.VI,843/19). Ne deriva, pertanto, che, qualora venga chiesto il rilascio di un permesso di costruire riferito soltanto a talune delle opere realizzate e l’Amministrazione riscontri l’esistenza di altre opere abusive, non scomponibili in progetti scindibili, ma funzionalmente connesse al perseguimento di uno scopo unitario, l’ente procedente non piò accogliere una domanda riguardante singole opere, dovendo aversi riguardo al complessivo intervento all’uopo realizzato” (Cons.St.VI,1848/20).

Fermo restando che la norma in esame esclude dalla regolarizzazione le situazioni di abusività totale, grave e pesante, si dovrebbe negare la possibilità di conseguire una regolarizzazione di alcune abusività parziali se ricomprese in un maggiore abuso, e a queste funzionalmente e strutturalmente collegate, venendo tale situazione ricondotta dalla giurisprudenza ad una ipotesi di inammissibilità della sanatoria parziale.

Sotto un secondo profilo, in ogni caso, va sempre considerata la certa avversità della giurisprudenza a riconoscere una sanatoria parziale, in presenza di un abuso più consistente, nel contesto dell’accertamento di conformità ordinario dell’art.36 DPR 380/01, dove non stata ritenuta ammissibile il rilascio di un titolo abilitativo in sanatoria relativo soltanto a parte degli interventi abusivi edilizi realizzati (TAR Veneto,II,1770/11, TAR Lombardia,MI,II, 1942/13, 2523/14 e 544/15, TAR Toscana,III, 508/15, Cons.St.IV, 410/17).

In linea di massima, fattualmente, però non pare possa escludersi un simile interesse in capo all’interessato, ammettendo di riuscire a scomporre le singole opere abusive all’interno di un abuso maggiore, e – prendendo spunto dal silenzio della legge in merito – dovrebbe potersi ammettere una regolarizzazione di un abuso “minore”, seppur ricompreso in una abusività diversa e, in quanto tale, in presenza di una prospettiva di una possibile demolizione/ripristino che potrebbe colpire il maggior abuso.

Peraltro, non va taciuto che potrebbe anche sostenersi come nella vicenda non si è al cospetto di una ordinaria sanatoria ex art.36 DPR 380/01, ma di una sorta di “condono”, dominato da un favor legis, per cui, laddove l’opera abusiva risulti coincidere con una delle situazioni beneficiate dalla norma, non vi è ragione per escludere la sua regolarizzazione, ammessa dalla legge e indipendente da una conformità, sia singola che doppia o dal contesto fattuale in cui viene a verificarsi, fermo il rischio per l’istante di essere sottoposto ad un provvedimento di demolizione/rispristino.

In ragione di quanto esposto, una regolarizzazione secondo la LR 50/19 appare ammissibile senza dubbio dove le singole opere siano quindi effettivamente scindibili tra loro, tanto da poter divenire ciascuna, autonomamente, oggetto di una domanda di regolare sanatoria, senza incidere sulla restante abusività; diversamente deve essere argomentato laddove tra le opere abusive vi sia una connessione che le vincola e le rende unitarie e quindi “ricomprese” nel maggiore abuso.

Nella ipotesi in cui la vicenda abusiva presenti, al limite, tutte le cinque tipologie di difformità elencate dal primo comma dell’art.2 LR 50/19, va senza dubbio ammessa la regolarizzazione e, laddove effettivamente regolarizzate, è di tutta evidenza che verrebbe meno ogni profilo di abusività e quindi il fondamento di un provvedimento sanzionatorio demolitorio ipoteticamente irrogabile.

Da ultimo, va poi verificato se le cinque tipologie di fattispecie ammesse alla regolarizzazione possano ciascuna costituire una sorta di “franchigia” in relazione ai parametri edilizi ed urbanistici indicati come oggetto della difformità, ai fini della eventuale valutazione e quindi sanzione degli abusi di maggiore entità, per cui se la loro eventuale presenza possa incidere e in che misura sulla sussistenza dell’abuso e sulla sua esatta portata.


7.2 I requisiti oggettivi
– Al primo periodo del comma 1 dell’art.2 la legge espone altri requisiti di carattere oggettivo, prevedendo che le opere edilizie siano “provviste” di titolo edilizio abilitativo o di certificato di abitabilità od agibilità, quindi prescrivendo un requisito ulteriore, di carattere giuridico, per la applicazione della disciplina della regolarizzazione.

Come qualcuno ha già avuto modo di rilevare, la indicazione della norma non è felice, laddove sembra evocare che le opere edilizie in quanto tali siano dotate di titolo o certificato; evidentemente il legislatore, anche in ragione di quanto indicato nel prosieguo della disposizione, ha inteso esprimere la necessità che le opere edilizie di cui si discute siano necessariamente riferibili ad un titolo edilizio abilitativo o correlate ad un certificato di abitabilità o agibilità, quindi ad atti documentali che, in qualche modo, le abbiano previste.

Le due ipotesi sembrano essere alternative tra loro, prospettando la sufficienza di almeno uno dei due titoli, anche se la indicazione lascia perplessi con riguardo al certificato di abitabilità/agibilità; infatti solamente il titolo edilizio è indicato dalla normativa edilizia quale atto autorizzativo di opere edilizie, e quindi idoneo parametro per valutare la sussistenza di eventuali difformità edilizie, mentre tale idoneità non sembra rinvenibile nel certificato di abitabilità/agibilità che non possiede attualmente una tale valenza, non avendo alcun effetto abilitativo alla esecuzione di opere ed interventi edilizi, venendo in rilievo solamente al termine dei lavori e quindi al momento della loro conclusione, come esecuzione di quanto già autorizzato da un precedente titolo abilitativo.

Per quanto riguarda la sussistenza del titolo edilizio abilitativo, la circostanza non pone questioni particolari per la verifica della sua sussistenza e del suo contenuto e quindi sulla sua idoneità a fungere dal parametro di verifica della legittimità dell’attività edificatoria.

Altrettanto non può dirsi con riguardo al certificato di abitabilità/agibilità, anche se il riferimento non pare uno svarione del legislatore veneto, tanto è vero che nella Relazione che accompagna il testo normativo, poi approvato dal Consiglio Regionale, allorquando si evidenzia l’ambito di applicazione della nuova disciplina, si fa espressamente richiamo alla disciplina ante L.10/77 circa i possibili effetti del certificato di abitabilità/agibilità, sul rilievo fattuale che “le varianti in corso d’opera che comportavano notevoli difformità di altezza o di impianto rispetto a quanto autorizzato, restavano in qualche modo superate dal certificato di abitabilità rilasciato ai sensi del Testo Unico delle leggi di sanitarie allor vigente (RD n.1265 del 1934)”.

Sembra quindi di potersi affermare che vi sono, presumibilmente, almeno tre ragioni per riconoscere un rilievo nella fattispecie al certificato di abitabilità/agibilità rilasciato e purchè regolarmente conseguito, come attribuito a tale atto nonostante le perplessità emerse nel corso delle audizioni in Commissione consiliare su tale aspetto.

Un primo motivo può essere rinvenuto nella circostanza che, fino al 1994, il certificato in questione era un provvedimento espresso e che aveva sovente tra i suoi allegati anche piante e tavole progettuali, ricognitive di quanto realizzato alla fine dei lavori, attestando quindi la reale configurazione dell’edificio realizzato al termine dell’intervento e che, in quanto tale, veniva dichiarato agibile ed abitabile per come era rappresentato in tale documentazione, rappresentando quindi un riferimento certo per verificare l’attività edilizia svolta, indipendentemente dalla presenza di difformità esecutive rispetto al progetto che, è bene ricordare, nel 1977 non rappresentavano un abuso edilizio.

Una seconda ragione è forse individuabile nel contenuto che negli anni ‘60 e ‘70 il certificato possedeva, anche se il suo rilascio non significava, di per sé, come detto, la garanzia della assenza di possibili abusi e difformità in quanto costruito.

Non è questa la sede per trattare esaurientemente il tema, ma sommariamente va ricordato quale era la peculiare disciplina del certificato di abitabilità/agibilità al momento della entrata in vigore della L.10/77; diversamente da quanto accade oggi con gli artt.24 e 25 DPR 380/01 (dove la agibilità/abitabilità si consegue per silenzio-assenso, avendo quale proprio ambito aspetti strettamente sanitari o tecnico-impiantistici), all’epoca l’atto di agibilità/abitabilità rispondeva ad un criterio attestativo diverso, interessando anche profili accertativi della regolarità edilizia del costruito.

Infatti, alla data del 28 gennaio 1977, il certificato era disciplinato dall’art.221 RD 1265/34 (Testo Unico Leggi Sanitarie) che prevedeva come “Gli edifici o parti di essi … non possono essere abitati senza autorizzazione del Podestà, il quale la concede quando, .., risulti che la costruzione sia stata eseguita anche in conformità del progetto approvato,..”.

La predetta disposizione statale è stata poi integrata a livello regionale, dove la LR 40/80 affidava anch’essa alla certificazione in questione una funzione accertativa della regolarità edilizia dei quanto costruito con la concessione edilizia rilasciata (come stabilito dall’art.91 comma 2); è infatti con l’art.91 LR 61/85 che l’ambito della certificazione si sposta agli attuali parametri igienico-sanitari, abbandonando formalmente aspetti di conformità edilizia.

Il diverso contenuto dell’atto nel corso del tempo trova una conferma negli approdi giurisprudenziali, dove si afferma che il permesso di costruire (e quindi la concessione edilizia) e il certificato di abitabilità/agibilità oggi sono collegati a presupposti diversi e non sovrapponibili (Cons.St.VI, 8180/14 e VI, 4309/14, TAR Toscana,III, 436/19), per cui l’avvenuto rilascio del certificato di agibilità non appare idoneo ad attestare la conformità edilizia edilizia dell’immobile (ex multis TAR Lombardia,MI,1482/19) alla luce della verifica comunque rimessa dall’art.221 TULPS.

In ogni caso, con il richiamo al certificato in questione, con ogni probabilità, il legislatore veneto ha inteso avvalorare un elemento certo e documentale in grado di attestare, oggettivamente, quell’affidamento “legittimo” che l’art.1 LR 50/19 si propone di tutelare, avendo a riferimento quelle situazioni in cui gli immobili degli anni ‘60 e ‘70 erano dotati del certificato di agibilità/abitabilità, sulla consapevolezza che – comunque – la sussistenza di tale atto non era, come non è, una garanzia della regolarità edilizia (o di sanatoria implicita, cfr. TAR Liguria,I,564/18, sull’assunto che, comunque, “la verifica di conformità edilizia prevista dall’art.221 TULPS era volta nei limiti necessari ad inferire la sussistenza delle condizioni di igiene, salubrità e sicurezza degli edifici. La dichiarazione di abitabilità quindi, discendeva dall’inesistenza di cause di insalubrità, senza essere condizionata dalla regolarità delle opere sotto il profilo edilizio ed urbanistico. Ne consegue l’impossibilità di ricavare la conformità edilizia delle opere dall’accertamento incidentalmente compiuto ai fini del rilascio del certificato di agibilità, cui non può essere ascritto il significato di riconoscimento implicito di sanatoria edilizia”).

Va inoltre ricordato come la sussistenza di atti similari è stata individuata tra gli elementi costitutivi del legittimo affidamento, come già evidenziato dall’Adunanza Plenaria n.9/17.

L’art.2 LR 50/19 esclude tassativamente dalla regolarizzazione tutte quelle situazioni in cui si è al cospetto di opere che mancano quindi di un titolo e sono totalmente abusive essendo realizzate sine titulo, indipendentemente quindi dalla loro eventuale rispondenza alle cinque singole ipotesi dell’art.2 comma 1, richiedendo quindi un titolo presupposto a cui riconnettersi e ricollegarsi.

Diversa questione è quella della regolarità edilizia dell’immobile che sia stato oggetto del titolo edilizio o del certificato rilasciati ante 1977, e se dunque la legittimità dell’edificio oggetto dell’intervento autorizzato (poi eseguito in difformità parziale) sia o meno un presupposto per la ammissibilità della regolarizzazione.

Nella ipotesi in cui le difformità riguardino un edificio la cui realizzazione è stata autorizzata con un titolo rilasciato ante 1977, non sorgono particolari questioni; l’edificio è infatti legittimato dall’avvenuto rilascio del titolo.

Potrebbe anche verificarsi la ipotesi che la licenza ante 1977 sia stata rilasciata per l’esecuzione di attività edilizie relative ad un immobile già presente al gennaio 1977, quindi per un edificio senza dubbio realizzato in precedenza.

Per tali manufatti, soprattutto per quelli realizzati al di fuori del centro abitato, si pone l’usuale problema di attestazione della loro legittimità, con la scrimine della data del 1 settembre 1967.

Sotto un primo rilievo, il fatto che siano state autorizzati interventi edilizi su tali manufatti, depone per una loro legittimità accertata, tanto da venirne consentita la trasformazione con un titolo (anche se in parziale difformità).

Sotto altro profilo, nella vicenda potrebbe anche ipotizzarsi una fattispecie in cui nessun titolo sia mai stato rilasciato prima della richiesta di intervento autorizzata ante 1977, ipotesi a cui va equiparata quella in degli edifici di cui non sia possibile documentare e comprovare l’avvenuto rilascio di un titolo edilizio che li abbia legittimati al 1977, perché da un lato questo è stato smarrito, distrutto, perso dall’attuale proprietario e quindi indisponibile, o perché la stessa amministrazione non sia in grado di avere contezza della situazione edilizia per analoghe ragioni.

Molti edifici realizzati ante 1967 non sono mai stati autorizzati da una licenza edilizia (per lo più non prevista dalla normativa dell’epoca), perché posti al di fuori del centro abitato e in comuni che non avevano una disciplina urbanistica che obbligasse anche in tale caso al preventivo conseguimento del titolo abilitativo (tanto è vero che si parla, talvolta, per tali edifici di una legittimazione “di fatto” in ragione della loro datazione e della loro obiettiva presenza nel territorio come contemplata negli strumenti urbanistici).

In fatto che l’edificio sia ab origine privo, in tutto o in parte, di titolo, non significa che lo stesso sia abusivo; peraltro in caso di incertezza, per gli edifici ante 1967 che non siano assistiti da un titolo comprovante, dovrà essere probabilmente l’Amministrazione a dimostrare la loro illegittimità originaria, ricorrendo alle proprie risultanze documentali, per negare la ammissibilità della domanda di regolarizzazione.

 

7.3 – La parziale difformità – La disposizione specifica poi che le opere edilizie interessate dalla possibile regolarizzazione devono presentarsi in linea con un secondo parametro della regolarizzazione e quindi eseguite “in parziale difformità dai titoli edilizi rilasciati o dai progetti approvati”.

Il richiamo ai progetti approvati rappresenta un riferimento peculiare, che il legislatore regionale ha inteso usare avendo presente come, in talune occasioni, manchi ad ogni effetto un documento che attesti l’avvenuto rilascio di un titolo edilizio, e che questo (dove rilasciato) non reca le dimensioni progettuali (che – per lo più – si trovano nelle tavole progettuali allegate al titolo); non va scordato, infatti, che all’epoca di interesse, il titolo ad edificare era sovente rappresentato da una comunicazione del Sindaco o dell’assessore competente, o addirittura dalla mera trasmissione del parere favorevole al progetto espresso dalla Commissione Edilizia comunale, tutti contesti questi dove le tavole progettuali sottoposte all’amministrazione divenivano il “progetto approvato”.

L’entità della difformità parziale, rispetto al titolo in senso stretto, non pone particolari problemi quale parametro, coincidendo per lo più con gli esiti delle varianti leggere eseguite in corso d’opera, oggi disciplinate dall’art.22 comma 2 e comma 2-bis DPR 380/01.

Venendo poi all’ambito applicativo, la normativa esclude dalla regolarizzazione quelle opere che, non solo siano prive di titolo, ma anche quelle che siano totalmente difformi ai sensi dell’art.31 DPR 380/01 ovvero sostanzino una ipotesi di variazione essenziale di cui all’art.32 DPR 380/01; si tratta di quelle situazioni di grave irregolarità edilizia e che, nella loro consistenza, superano certamente a livello dimensionale i parametri indicati dalle cinque lettere dell’art.2 LR 50/19.

Peraltro, la nuova disciplina pone alcuni problemi di coordinamento con le norme del Testo Unico dell’Edilizia, ed in particolare con l’art.34 DPR 380/01, che disciplina a livello statale la ipotesi della <parziale difformità> senza, invero, dettare parametri dimensionali o qualitativi, prevedendo unicamente, un limite, rappresentato dalla “franchigia” di cui al comma 2 ter della norma, stabilendo che, al di sotto del 2% delle misure progettuali riferite a tali parametri, la difformità riscontrabile non costituisce illecito edilizio.

Dal punto di vista concettuale le difformità individuate nella LR 50/19 dovrebbero coincidere con quelle dell’art.34 DPR 380/01; peraltro il raffronto tra le due ipotesi di parziale difformità non porta ad una sovrapposizione tra le due disposizioni, e ciò non solo avendo riguardo al fatto che il comma 2 ter dell’art.34 DPR 380/01 propone parametri edilizi in parte diversi ai fini della individuazione di una difformità parziale.

Nel DPR 380/01, le difformità parziali sono individuate in via residuale, quale categoria ricavabile per esclusione dalla abusività totale e posta al di sotto delle indicazioni dimensionali e tipologiche della variazione essenziale e, al contempo, al di sopra del limite progettuale del 2% per taluni parametri edificatori.

Si tratta quindi di una categoria di difformità non meglio precisata nei suoi caratteri, il cui ambito applicativo è quantomai empirico; in merito, anche recentemente, si è affermato come una difformità parziale sussiste “quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera” (da ultimo Cons.St.,VI 4331/19).

Peraltro, il rapporto tra l’art.34 comma 2 ter DPR 380/01 e l’art.2 LR 50/19, pone una prima questione in ordine alla operatività della franchigia del 2% dei parametri edilizi indicata dal comma 2 ter dell’art.34 DPR 380/01.

Se infatti la difformità rientra nei limiti dimensionali del 2% (per i parametri comuni), si deve ritenere che l’abuso non sussista neppure e quindi la variazione non dovrebbe neppure rilevare in via autonoma e, quindi, non dovrebbe neppure farsi luogo ad una regolarizzazione; peraltro, non si può escludere un interesse del proprietario a regolarizzare, pagando la sanzione relativa anche a tale minore difformità, al fine di conseguire una piena regolarità dell’immobile, soprattutto in vista della possibile alienazione dello stesso e alla rispondenza del bene ad un criterio di piena legittimità, evitando così, ad esempio, possibili contestazioni dell’acquirente.

Se la difformità supera i limiti dimensionali della franchigia, viene da chiedersi se dall’abuso rilevante, di cui si chiede la regolarizzazione, possa o meno essere sottratta la franchigia del 2% di ciascun parametro di interesse, ai fini tanto della individuazione della misura in sé dell’abuso (ai fini della ammissibilità della domanda di regolarizzazione), o, comunque, anche nel calcolo della sanzione pecuniaria, diminuendo quindi la sanzione concretamente applicabile, visto che una “parte” dell’abuso non costituirebbe una difformità rilevante.

Il tema appare tutt’altro che secondario, considerando come nell’ambito di applicazione della LR 50/19 le misure rappresentano un elemento rilevante, determinando o meno la ammissibilità di una regolarizzazione.

La vicenda si complica anche in ragione della scala applicativa diversa, visto che l’art.34 comma 2 ter DPR 380/01 riguarda le difformità di una singola unità immobiliare, mentre le misure dell’art.2 LR 50/19 sono estese all’intero edificio, quindi teoricamente composto da più unità immobiliari, aprendo uno scenario di una problematica applicazione ed adeguamento delle fattispecie, da valutare caso per caso, involvendo una analisi delle diverse proprietà coinvolte laddove si dovesse applicare la normativa in un ambito condominiale.

Con riguardo alla possibile incidenza del 2% di un volume o di una superficie sul limite dimensionale della difformità regolarizzabile, si può ipotizzare che nel computo vada sottratto tale valore ai parametri della abusività, sia per giungere alla determinazione di un limite dimensionale di ammissibilità, sia per calcolare la sanzione da pagare, in quanto il 2% è un ambito materiale esistente sottratto direttamente dal DPR 380/01 ad ogni rilevanza urbanistica.

Si può fare l’esempio prendendo una difformità relativa alla superficie di cui all’art.2 lett.b), ammessa alla regolarizzazione in ipotesi di un aumento sino a un 1/5 della superficie dell’edificio e, comunque, nel massimo di 30 mq. .

La franchigia del 2% può quindi operare per giungere ai predetti parametri; si ipotizzi di avere un edificio con una superficie autorizzata di 500 mq, dove nel corso dei lavori si siano realizzati invece 540 mq; ai sensi dell’art.2, il limite di 30 mq sarebbe superato e quindi in ipotesi non si potrebbe consentire la regolarizzazione; viceversa, facendo applicazione della franchigia sul dato progettuale del 2%, (e quindi 10 mq sul totale), sottraendo dai 540 mq i 10 mq della franchigia, si giungerebbe alla misura di 530 mq, per la quale la regolarizzazione sarebbe ammissibile.

Quanto al secondo aspetto della possibile applicazione della franchigia, come attinente alla quantificazione della sanzione dovute (unitamente al contributo da corrispondere secondo l’art.2 comma 3), si ipotizzi ancora uno stabile con una superficie autorizzata di 500 mq, ed un ampliamento abusivo di 25 mq; facendo applicazione della franchigia, la superficie abusiva rilevante, sottraendo il 2% progettuale, pari a 10 mq non abusivo anche se difforme, scenderebbe a 15 mq, sostanziano questa, a rigore, la misura sulla quale calcolare la oblazione da versare.


7.4 – La data di esecuzione
– Ulteriore requisito della regolarizzazione è quindi riferito alla data di esecuzione delle “le parziali difformità edilizie risalenti nel tempo”, come indicato dall’art.1 LR 50/19; in merito, il riferimento temporale è indicato dal comma 1 dell’art.2 LR 50/19, per cui sono ammesse alla sanatoria le opere edilizie oggetto di titoli edilizi e progetti approvati “prima della entrata in vigore della legge 28 gennaio 1977 n.10”.

Contrariamente a quanto potrebbe apparire dal testo normativo, la disposizione non afferma che le opere edilizie per essere regolarizzate devono essere state realizzate prima della entrata in vigore della L.10/77, ma una circostanza diversa, quella per cui queste devono essere state eseguite in forza di un titolo edilizio rilasciato prima del 30 gennaio 1977 ovvero in attuazione di un progetto edilizio approvato entro quella data, in un contesto storico, come già evidenziato, dove anteriormente alla L.10/77 la fattispecie delle difformità edilizie non aveva una sua disciplina specifica.

La disposizione individua due fattispecie diverse.

La prima fa riferimento alla data del rilascio del titolo edilizio, quindi una circostanza facilmente comprovabile; la seconda è invece ragguagliata alla data di approvazione del progetto, quindi ad una situazione diversa dal rilascio del titolo.

Con tale seconda ipotesi si è inteso ricomprendere quelle ipotesi in cui, nel passato, i lavori edilizi venivano autorizzati non solo con il formale rilascio della licenza edilizia, ma anche con altri atti successivi alla presentazione della domanda ad edificare, come – ad esempio – la espressione di pareri favorevoli di Commissioni Edilizie, apposti sulle tavole progettuali, o di comunicazioni inviate all’istante direttamente dal Sindaco o dall’Assessore, con le quali si trasmetteva un assenso o un parere favorevole al progetto presentato, surrogando così il rilascio del titolo formale.

Peraltro, la data del 30 gennaio 1977 non può essere identificata come una data limite, nel senso di ritenere non regolarizzabili opere eseguite successivamente a tale momento, atteso che il chiaro riferimento temporale riguarda gli atti che autorizzano i lavori o la approvazione dei progetti che devono sussistere a quella data.

Giocoforza, devono ritenersi ammesse alla sanatoria opere che, in realtà, dal punto di vista strettamente cronologico, sono state eseguite successivamente al 30 gennaio 1977, essendo questo il momento in cui il titolo o le tavole progettuali devono essere esistenti, essendo ben possibile che i relativi lavori possano essere stati realizzati anche successivamente al 30 gennaio 1977.

Sorge quindi anche per tale aspetto la delicata questione della comprova della avvenuta esecuzione nei termini, quindi non solo in generale con riferimento alla data del 30 gennaio 1977, ma anche con riguardo alla data effettiva di esecuzione di quei lavori che infatti ben potrebbero essere stati eseguiti successivamente alla data di entrata in vigore della L.10/77.

In ordine ai termini di esecuzione delle opere oggetto della licenza di costruzione, deve essere considerato che l’art.31 L.1150/42 nella versione originaria non prevedeva alcun termine di efficacia della licenza edilizia e che solo con l’avvento della L.765/67, con il nuovo comma 10, è stato previsto il termine di validità di un anno per il titolo ad edificare, prevedendo la estensione della sua efficacia sino a tre anni dall’inizio dei lavori solo nella ipotesi di sopravvenute disposizioni urbanistiche contrastanti.

Dunque, i titoli ante 1977 avrebbero dovuto avere una efficacia limitata ad un solo anno per cui, nella ipotesi limite, il termine ultimo dei lavori avrebbe dovuto scadere al 30 gennaio 1978, salva la eccezionale ipotesi delle sopravvenute disposizioni contrastanti.

In realtà, anche tale data non potrebbe essere considerata ultimativa, in quanto nulla esclude poi che il titolo in questione possa essere stato sottoposto a uno o più proroghe, per cui il termine di conclusione dei lavori previsti potrebbe aver superato la data del 30 gennaio 1978, ponendo ancora una volta in rilievo la comprova di tali circostanze.

Considerando che la fattispecie della validità ed efficacia della licenza edilizia non ha avuto una disciplina unitaria, la vicenda si complica visto che nel vigore della L.1150/42 la proroga non era neppure prevista, essendo questa stata regolata all’art.4 comma 4 L.10/77 (per cui si può dubitare anche che tale normativa possa trovare applicazione per titoli conseguiti anteriormente alla stessa L.10/77 e disciplinati quindi da disposizioni che non prevedevano una prorogabilità del titolo); dunque se qualche proroga vi sia stata, si è quindi trattato di un atto extra ordinem, tutta da verificare.

Non dovrebbe invece aversi alcuna postergazione del termine utile in ipotesi di un rinnovo della licenza edilizia (e quindi il rilascio di un nuovo titolo ad edificare); in tale ipotesi si è al cospetto di un nuovo titolo, successivo alla entrata in vigore della L.10/77 e quindi al di fuori del perimetro applicativo della norma volta alla regolarizzazione; del pari deve argomentarsi con riferimento ad eventuali varianti sostanziali del titolo edilizio rilasciato ante 1977 che, determinando anch’esse il rilascio di un nuovo titolo, non potrebbero avere che efficacia dal momento del loro effettivo conseguimento, senza dubbio successivo alla entrata in vigore della L.10/77, autorizzando opere quindi realizzate certamente oltre il limite temporale massimo previsto dall’art.2 LR 50/19.

La questione della esatta collocazione temporale della esecuzione delle opere si complica anche perché all’epoca non vi era un atto formale dichiarativo della fine lavori, fermo restando che i lavori in questione potrebbero avere conseguito la certificazione di agibilità/abitabilità senza dubbio successivamente al 30 gennaio 1977, e pertanto, tale ultimo riferimento temporale non dovrebbe, a rigore, valere quale elemento di riferimento per tale specifico atto.


7.5 Le singole ipotesi di regolarizzazione
– L’art.2 LR 50/19 prevede cinque distinte ipotesi di regolarizzazione.

Va debitamente precisato come nella ipotesi in cui la vicenda abusiva presenti, al limite, tutte le cinque tipologie di difformità elencate dal primo comma dell’art.2 LR 50/19, va senza dubbio ammessa la loro regolarizzazione “cumulativa” e, laddove effettivamente regolarizzate, è di tutta evidenza che verrebbe meno ogni profilo di abusività e quindi il fondamento di un provvedimento sanzionatorio demolitorio ipoteticamente irrogabile.

Le singole ipotesi indicate sono le seguenti:

lett.a) – aumento fino a un quinto del volume dell’edificio e comunque in misura non superiore a 90 metri cubi > sanzione massima  € 70/mc = € 6.300,00

Il criterio dell’aumento del quinto del volume dell’edificio non pone particolari problemi; altrettanto non può dirsi per la individuazione del volume dell’edificio su cui effettuare il calcolo che, secondo l’art.2 comma 2 della legge, si deve ricavare facendo applicazione dei parametri edificatori posti dallo strumento urbanistico.

Se all’apparenza il richiamo appare scontato e di pronta comprensione, nella pratica potrebbero esservi problemi di carattere applicativo riguardo al rinvio allo strumento urbanistico e quindi a quale normativa occorra fare riferimento, se a quello attualmente vigente, ovvero a quello operante nel 1977, oppure ad un altro ed ulteriore momento.

Potrebbe ipotizzarsi che sia la normativa vigente al momento dei fatti quella rilevante e con cui confrontarsi, anche in considerazione del fatto che regolarizzazione si riferirebbe ad una violazione commessa in un preciso contesto temporale, passato, per cui questa dovrebbe essere valutata facendo applicazione delle norme del tempo.

A tale ipotesi si contrappone l’opinione maggiormente condivisa, che identifica lo strumento urbanistico richiamato dalla disposizione, e quindi da applicare, in quello attualmente vigente, escludendo quindi un rilievo agli strumenti urbanistici vigenti al 30 gennaio 1977, al momento teorico della commissione della violazione, ormai disapplicabili perché abrogati o venuti meno.

Assunto che lo strumento urbanistico applicabile vada individuato in quello attualmente vigente, il richiamo in questione non è così banale e lineare, considerando che attualmente i comuni del Veneto o sono già stati impegnati (o lo saranno a breve) nel recepimento del RET di cui alla DGRV 669/18, dove la definizione rilevante urbanistica di <volume> è ragguagliata ad un “volume totale o volumetria complessiva”(Voce 19), come riferito all’intera costruzione, e costituito dalla somma della superficie totale di ciascun piano per la relativa altezza lorda, quindi evocando a sua volta altri parametri edificatori da regolamentare, e con una nozione (che ha fatto molto discutere) che racchiude nel volume – in modo innovativo – anche gli interrati che, fino al 2016, molto raramente facevano parte del volume urbanisticamente rilevante come disciplinato negli strumenti urbanistici; in tale contesto è di tutta evidenza il vantaggio di operare il calcolo del quinto su un volume totale includente gli interrati, rispetto ad un volume sprovvisto.

In ogni caso occorrerà fare riferimento alla singola disciplina comunale vigente al momento della presentazione della istanza di regolarizzazione.

Al di là della definizione, occorre chiedersi quale sia il volume al quale in concreto occorre far riferimento; il punto di partenza dovrebbe essere rappresentato dal volume previsto in origine nel progetto autorizzato e di cui al titolo edilizio, escludendosi dal computo quello risultante a seguito di eventuali regolari ampliamenti successivi o l’effetto di eventuali regolarizzazioni per condono, come avvenuti nel corso del tempo, e che quindi abbiano modificato le dimensioni volumetriche dell’edificio.

Nel volume rilevante rientrano anche quelle variazioni definite dall’art.32 comma 2 DPR 380/01 come riferite alle cubature accessorie e ai volumi tecnici che fossero stati realizzati a suo tempo in modo difforme che, infatti, non rappresentano neppure per il Testo Unico dell’Edilizia una variazione essenziale, sostanziando però una difformità minore e quindi regolarizzabile.

In merito a tale tipologia di abuso, si ricorda come anche l’art.92 comma 3 lett.b LR 61/85 indichi anch’esso quale parametro della variazione essenziale il limite del quinto del volume dell’edificio, precisando che questo dovesse intendersi quello “utile”, escludendo le variazioni che interessino cubature accessorie, volumi tecnici e distribuzione interna delle singole unità abitative.

Pertanto, tali tipologie di opere, quali difformità minori, potranno rientrare nel volume regolarizzabile.

Ulteriori questioni sono quelle relative alla possibile regolarizzazione di eventuali volumi realizzati e che siano separati fisicamente da un edificio principale al quale siano collegati come pertinenze o funzionalmente; la norma non richiama infatti un concetto di ampliamento o non prevede legami fisici tra progetto e parte abusiva, per cui se la realizzazione di tali volumi sia stata già a suo tempo autorizzata, come distaccata da un edificio principale, ma nel corso dell’esecuzione siano state poste in essere delle variazioni volumetriche all’opera, non vi è ragione per escluderla dal beneficio.

Viene da chiedersi se nel novero delle opere regolarizzabili siano ricomprese anche eventuali parti di edificio che siano interrate, dove siano stati realizzati in difformità volumi interrati previsti; anche per tali volumi, se previsti nel titolo o nel progetto, non vi è ragione di escluderli dalla regolarizzazione, dovendo essere esclusa la regolarizzazione di interrati eseguiti sine titulo.

Ancora con riferimento al volume difforme, l’art.2 lett.a) riferisce il limite del 20% all’intero edificio e non, come previsto dall’art.34, comma 2-ter DPR 380/01, alla singola unità immobiliare quale ambito di applicazione della parziale difformità.

La questione non è di poco conto, mutando il parametro di riferimento, e rilevando in peculiari ipotesi, come quella in cui la proprietà immobiliare interessata dall’abuso si ponga in ambito condominiale o di comunione immobiliare con quote diverse dell’edificio, dove eventuali abusi di una singola proprietà immobiliare o per la loro collocazione (si pensi ad un sottotetto) potrebbero da soli raggiungere il limite dimensionale del quinto e assorbire il parametro disponibile per l’edificio, lasciando quindi le altre unità, magari afflitte anch’esse  da abusività volumetriche, prive della possibilità di ricorrere alla regolarizzazione.

Non è quindi agevole reperire una disciplina dell’eventuale criterio di attribuzione e di riparto del limite volumetrico del beneficio come esteso all’edificio e il relativo concorso di eventuali domande, dovendosi rimandare alla disciplina civilistica sul punto.

 

lett.b) – aumento fino a un quinto della superficie dell’edificio e comunque in misura non superiore a 30 metri quadrati > sanzione massima  € 210/mq = € 6.300,00

Anche il limite dimensionale della superficie in ampliamento non pone problemi in sé, dovendosi peraltro, anche in tale ipotesi, rinviare alle previsioni dello strumento urbanistico, con i dubbi circa le definizioni recate dal RET sulla voce della superficie (che fa riferita a diverse tipologie di superficie).

Dal punto di vista strettamente sanzionatorio, si evidenzia come l’importo finale della sanzione pecuniaria massima per la regolarizzazione di abusi volumetrici e superficiari appare identica, ragguagliata forse alla formula 1 mq x 3 = 1 mc, superando così la iniziale previsione del disegno di legge che assegnava ai due parametri entità sanzionatorie diverse e non omologhe tra loro, presentando non semplici problemi applicativi in caso di loro concorso.

Peraltro, la previsione di una superficie abusiva come autonomo parametro sembra corretta ed opportuna, considerando che sussistono ipotesi di abuso, in sé, rilevanti solamente a livello superficiario (e non quindi anche volumetrico), come per le ipotesi di difformità relative a spazi a parcheggio, piazzali, strade et similia, già autorizzati, ma realizzati in difformità.

Deve essere rilevato come la menzione del parametro della superficie rappresenta una novità rispetto all’art.92 comma 3 LR 61/85 che non fa alcun riferimento alla superficie quale ambito della possibile abusività, adottando – insieme al volume – invece il parametro dell’altezza, considerando variazione essenziale l’aumento di questa se superiore ad 1/3, evidentemente considerando “coperta” la violazione superficiaria come assorbita in quella volumetrica; come si evidenzierà, ancora con una discontinuità con la LR 61/85, la LR 50/19 non adotta quale parametro delle difformità quello dell’altezza.

Anche per tale contesto applicativo rimane aperto il problema della possibile ripartizione del limite dimensionale tra l’edificio intero e le unità immobiliari che lo compongono e quindi l’eventuale concorso tra le istanze presentate.

 

lett.c) – diverso utilizzo dei vani, ferma restando la destinazione d’uso consentita per l’edificio > sanzione massima  € 500,00 per vano

La previsione in questione presenta diversi profili di criticità, non ultimo il fatto che la destinazione d’uso, per lo più, è un aspetto che interessa non tanto una modalità esecutiva in senso stretto di opere o interventi edilizi, quanto un diverso utilizzo che venga fatto dell’immobile costruito o di sue parti; la abusività in questione non è quindi collegata alla stretta esecuzione di opere edilizie, ma all’utilizzazione che viene fatta di quanto costruito.

Nondimeno, non può aprioristicamente escludersi che, già al momento della realizzazione del manufatto, vani con una destinazione di progetto abbiano in corso d’opera mutato la loro prospettiva di utilizzo, venendo adattati e predisposti per una destinazione diversa, rientrando così tale ipotesi nel pieno campo applicativo della norma.

La disposizione fa riferimento all’utilizzo, prescindendo dalla circostanza che il mutamento sia avvenuto per effetto di opere apposite e a ciò finalizzate; quello che conta è la attuale riscontrabile diversa utilizzazione di parte dell’edificio rispetto a quanto indicato nel titolo, dove alcuni vani vengano adibiti ad un uso diverso rispetto a quello che caratterizza l’intero edificio come autorizzato.

L’oggetto del diverso utilizzo è indicato dalla norma nei “vani”; non viene però fornito alcun elemento utile per la individuazione del “vano”, concetto che non appartiene in senso stretto alla disciplina edilizia, venendo infatti in rilievo nella materia catastale e tributaria, come collegato al classamento degli edifici, composti infatti da vani appartenenti a diverse categorie.

Nel silenzio del legislatore, si ritiene che il riferimento ai “vani” contenuto nella disposizione possa essere ricondotto a “vani” di matrice catastale, rappresentando una parte, uno spazio fisico dell’edificio che dovrebbe essere agevolmente identificabile e perimetrata, come coincidente con una stanza o un locale circoscritto ovvero più stanze o locali.

Nella disposizione della lett.c) il riferimento ai vani è operato in modo generico, prescindendo da limiti dimensionali, non essendovi alcuna misura minima o massima riferita alla parte utilizzata con una diversa destinazione a cui far riferimento; l’unico parametro sembra quindi essere rappresentato forse da un rapporto tra i vani con diverso utilizzo rispetto alla destinazione dell’edificio nella sua interezza, che secondo il legislatore deve rimanere “ferma”.

Non è per nulla chiaro il senso della disposizione, se nella fermezza invocata si voglia individuare un limite alla regolarizzabilità, atteso che la disposizione non prevede alcun limite o rapporto dimensionale del diverso utilizzo rispetto ad un altro parametro (che potrebbe essere l’edificio nella sua interezza ovvero le singole unità immobiliari che lo compongono), per cui si potrebbe sostenere la eventuale regolarizzabilità senza alcun limite di utilizzi diversi dei vani ricompresi in un edificio, e senza commisurare poi i diversi possibili utilizzi tra loro come presenti nella medesima realtà, con l’esito di vedere snaturata la originaria destinazione dell’edificio.

E’ evidente che la applicazione senza limiti della regolarizzazione come esposta presenta il rischio di un effettivo superamento delle previsioni di cui all’art.23 ter DPR 380/01, di cui a breve si argomenterà.

Va infatti considerato che la disposizione parla di “vani”, quindi al plurale, prospettando la possibilità che siano più di uno ad essere utilizzati in modo difforme in un edificio, per cui si potrebbe ritenere ammissibile una regolarizzazione interessante più spazi di una unità immobiliare e, comunque, di più unità immobiliari all’interno di un edificio, nella sua integralità, che sembra essere, in qualche modo, il parametro della regolarizzazione.

Peraltro, la assenza di un limite dimensionale potrebbe far divenire la regolarizzazione proposta dalla LR 50/19 una sanatoria di una variazione che non potrebbe certamente essere riconosciuta come lieve, scostandosi anche da quanto previsto dall’art.92 comma 3 lett.a) LR 61/85, per cui la difformità diviene essenziale laddove si fosse in presenza di un mutamento sostanziale che interessi almeno il 50% della superficie utile di calpestio della singola unità immobiliare.

Nella fattispecie, non può ragionevolmente ipotizzarsi una indiscriminata regolarizzazione di una realtà immobiliare con un utilizzo diverso che interessi l’intero edificio, considerando che con riguardo alla destinazione dell’edificio, la norma in qualche modo sembra prevedere che quella, a cui commisurarsi, sia la destinazione originaria dell’edificio, quella “consentita” (da intendersi come la autorizzata, e legittima, nonché caratterizzante della costruzione), non specificandosi, non solo se questa debba essere mantenuta e garantita a seguito della regolarizzazione, ma anche con quale criterio si possa identificare la destinazione consentita; infatti è tale non solo quella originaria dell’edificio, ma anche quella che potrebbe essere stata modificata ante 1977 e in qualche modo riconosciuta da un atto.

Coerentemente con la disciplina della variazione essenziale dell’art.92 LR 61/85, si deve quindi ritenere che, pur in assenza di un limite dimensionale del mutamento e del diverso utilizzo, nell’ambito dell’edificio possono ritenersi ammissibili le regolarizzazioni che interessino una percentuale inferiore al limite del 50% dell’intero edificio, avendo riguardo alla sua originaria destinazione che deve rimanere.

In tale logica, allora, può avere un senso quell’inciso della norma che evoca la “fermezza” della destinazione consentita per l’edificio che, anche per effetto di una possibile regolarizzazione dei vani posti al suo interno, dovrebbe mantenere e veder rispettata la propria destinazione originaria come ancora prevalente.

Per effetto della applicazione della norma potranno aversi soluzioni diverse, alquanto incerte; si pensi, ad esempio, ad un edificio in origine autorizzato come direzionale, composto da 4 unità immobiliari diverse, anche per metratura tra loro, dove una unità è divenuta commerciale, una artigianale, una residenziale, ed una ricettiva; nessuna è rimasta direzionale; in tal caso, la regolarizzazione di tutti i vani non sembra possibile facendo applicazione del criterio del 50%, venendo in rilievo forse la possibile regolarizzazione di parte delle unità con diverso utilizzo, senza però essere possibile una individuazione del possibile concorso tra gli eventuali aventi diritto, problema, come già visto non agevolmente risolvibile; viceversa, in assenza di tale criterio, la regolarizzazione sembrerebbe possibile in assenza di limiti dimensionali e di parametri di riferimento, inverando però una soluzione non sostenibile, anche con l’art.23 ter DPR 380/01, snaturando la stessa destinazione originaria che dovrebbe quindi continuare a rimanere un riferimento.

La disposizione in questione non prevede limiti di compatibilità con la zona urbanistica dove si colloca l’edificio, avendosi unicamente come riferimento la destinazione dell’immobile che, quindi, potrebbe collocarsi già lui in zona impropria; si pensi ad un edificio artigianale, collocato in zona residenziale, ma con una parte della superficie, pari al 30% commerciale. In una simile ipotesi, peraltro, non si vedono ostacoli alla regolarizzazione, computando il numero di vani (e facendo applicazione del criterio del 50%).

Anche con tale scelta, il legislatore si disallinea rispetto alla previsione contenuta nella LR 61/85, all’art.92, stabilendo che la regolarizzazione prescinda, evidentemente in ragione del “favor” alla sanatoria, da una possibile ed eventuale compatibilità di quanto esistente con una zonizzazione urbanistica, portando a conseguenze problematiche, soprattutto avendo riguardo a tutte quelle zone dove vi sono tutele e destinazioni ben orientate ed escludenti, come quella agricola o la residenziale, ma anche quella industriale, storicamente “allergiche” alla presenza di insediamenti commerciali ed artigianali al loro interno.

La disposizione poi prescinde dal fatto che il diverso utilizzo sia conseguente o meno alla avvenuta esecuzione di lavori ed opere edilizie.

La questione del diverso utilizzo implica necessariamente un confronto con la disciplina statale in materia, sostanziata dall’art.23 ter DPR 380/01 (che secondo Corte Cost. 68/18 rappresenta in larga parte normativa di principio in materia e quindi vincolante per le Regioni), che il legislatore veneto pare non aver proprio considerato, tanto è vero che la LR 50/19 sembra proporsi come una disciplina diretta a superare e risolvere ex post, la annosa problematica della disciplina del mutamento di destinazione d’uso degli immobili, ovviamente come riferibile a situazioni rientranti nel limite temporale e fattuale indicato dall’art.2 comma 1 LR 50/19.

Balza, in primo rilievo, il fatto che il diverso utilizzo della LR 50/19 riguarda appunto vani in un edificio, mentre l’art.23 ter DPR 380/01 è parametrato sull’immobile e in alternativa anche alla singola unità immobiliare.

Viene poi da chiedersi se il riferimento al diverso utilizzo dei vani e alla destinazione d’uso dell’immobile debba essere ragguagliato alle previsioni del Testo Unico dell’Edilizia, dove la norma statale indica cinque categorie funzionali di riferimento (residenziale, turistico-ricettiva, produttiva e direzionale, commerciale, rurale, parametrate ad un livello urbanistico più che edilizio), per cui il diverso utilizzo rilevante sarebbe solo quello che prevede un cambio nell’ambito delle cinque categorie funzionali ivi previste, paventando anche un cambio urbanisticamente irrilevante che, a ragione, non dovrebbe neppure sostanziare un profilo di abusività (giusto il richiamo attuale svolto dal comma 3 dell’art.23 ter DPR 380/01).

Sul tema del mutamento di destinazione, va altresì ricordato come la fattispecie abbia trovato anche un richiamo alla voce n.39 della Sezione II Tabella A di cui all’art.2 D.Lgs 222/16, dove “salvo diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante di destinazione d’uso ogni forma di utilizzo dell’immobile o delle singole unità immobiliari diversa da quella originaria, ancorché non accompagnato dalla esecuzione di opere edilizie, purché tale comportare l’assegnazione dell’immobile o dell’unità immobiliare considerati, ad una diversa categoria funzionale”, richiamando quelle contenute dell’art.23 ter comma 1 DPR 380/01.

Si ritiene che certamente possano trovare applicazione le categorie statali per qualificare il mutamento dell’utilizzo rilevante, non scordando che le destinazioni d’uso vigenti nel 1977 erano quelle dettate dal DM 1444/68 dove la destinazione produttiva era separata e diversa da quella direzionale, destinazioni oggi affiancate all’art.23 ter comma 1 lett.b) DPR 380/01, per cui tale tipologia di diverso utilizzo non dovrebbe oggi rilevare, in applicazione dell’art.2 comma 2 lett.c), non sostanziando alcuna difformità, giusta l’applicazione dell’ultimo periodo del comma 3 dell’art.23 ter, per cui il mutamento di destinazione d’uso all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito e quindi, a rigore, non costituisce irregolarità rilevante.

In realtà, probabilmente, più che destinazioni di vani rilevanti a livello di categorie edilizie come previste dall’art.23 ter DPR 380/01, si può ipotizzare che il legislatore avesse il proposito di regolarizzare quelle parti degli edifici che erano nate con destinazioni accessorie, quali garages, cantine, bagni, stenditoi, sottotetti, che già in corso d’opera, illo tempore, erano invece già stati approntatati come destinati divenire camere da letto, soggiorni, cucine o altro, come la pratica attesta.

Con riguardo a tali vani e alla loro fruizione/destinazione, non rileva quindi la destinazione dell’unità immobiliare o addirittura dell’edificio che li ricomprende, atteso che il bagno, in quanto tale, non appare essere vano caratteristico di una sola destinazione funzionale, in quanto un vano così previsto resta “agganciato” alla destinazione della parte di unità o di edificio nel cui contesto si inserisce, senza modificarla.

In ogni caso, appare probabile che laddove un garage, un bagno di una residenza siano divenuti camere da letto, le fattispecie rientrino nell’ambito della regolarizzazione, pur non avendosi un mutamento funzionale e categoriale del vano, implicando quel diverso utilizzo presupposto dalla norma.

In merito si ricorda come la giurisprudenza abbia affermato come “nell’ambito di una unità immobiliare ad uso residenziale, devono distinguersi i locali abitabili in senso stretto dagli spazi “accessori”, o adibiti a servizi che, secondo lo strumento urbanistico vigente non hanno valore di superficie abitabile e quindi non sono presi in considerazione come superficie residenziale all’atto del rilascio del permesso di costruire: autorimesse, cantine, soffitte e locali di servizio, rientrano, di norma, in questa categoria. Perciò non è possibile ritenere urbanisticamente irrilevante la trasformazione di un garage, di un magazzino o di una soffitta in un locale abitabile; senza considerare i profili igienico-sanitari di abitabilità del vano, in ogni caso si configura, infatti, un ampliamento della superficie residenziale e della relativa volumetria autorizzate con l’originario permesso di costruire” (TAR Lazio,Roma,II-quater, 9074/18 e II,bis, 7739/18 e 4225/17).

Senza dubbio vengono in rilievo anche i mutamenti tra le cinque categorie, relativamente ai vani; peraltro il cambio da produttivo a direzionale (oggi accumunati nella lett.b), rilevante secondo il DM 1444/68, oggi non dovrebbe rilevare, mentre rileva senza dubbio il cambio da residenziale a turistico-alberghiero (categoria nuova rispetto al 1968).

Come già esposto, va escluso un rilievo alle ipotesi di mutamento di destinazione inter-categoriale dell’art.23 ter, non in grado di modificare un carico urbanistico.

Diversamente dalla normativa statale dell’art.23 ter DPR 380/01, che fa riferimento agli immobili, quindi non solo a edifici ma anche ad aree, il mutamento di destinazione che rileva per la LR 50/19 sembra riferibile unicamente a edifici che abbiano dei “vani”.

Nella fattispecie, peraltro, appare complicata la possibile applicazione del comma 2 dell’art.23 ter DPR 380/01 in quanto, come ricordato (TAR Lazio,Roma,II-quater, 9074/18), l’accertamento sulla prevalenza della destinazione d’uso riguarda la ipotesi di una destinazione mista, allo scopo di stabilire quale sia la destinazione d’uso prevalente, per quindi verificare se vi sia stato un mutamento rispetto ad essa; nella presente fattispecie, il legislatore veneto sembra aver tenuto in considerazione solo la ipotesi di un edificio con una unica destinazione e non anche quello che al contempo ne presenti due (o più), legittime e coesistenti; in tal caso, i vani difformi faranno evidentemente riferimento alla parte con la relativa destinazione.

Da ultimo deve essere evidenziato come debba essere adeguatamente misurata la parte con la destinazione mutata, perché alla luce dell’art.2 comma 3 LR 50/19 sulla parte difforme è dovuto, oltre alla sanzione pecuniaria prevista (con importo fisso per ciascun vano), anche il contributo di costruzione relativo.

A rigore, non si dovrebbe poter regolarizzare un diverso utilizzo che sia avvenuto, con o senza opere, successivamente rispetto al titolo rilasciato e, comunque, nel limite temporale della data del 30 gennaio 1977 (ed eventualmente alle proroghe).

Da ultimo, anche in relazione al diverso utilizzo dei vani, sussiste il problema della dimostrazione del momento in cui la modifica della destinazione si sarebbe verificata, che dovrebbe essere avvenuto, come detto, in occasione della realizzazione delle opere edilizie, modificando la precedente destinazione, dovendosi peraltro considerare, come visto, che la esecuzione delle opere può avere avuto anche una estensione temporale diversa, con riguardo al tempo utile della esecuzione delle opere.

 

lett.d) – modifiche non sostanziali della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza, rispetto a quella indicata nel progetto approvato, purchè non in violazione delle normative in tema di distanze fra fabbricati, dai confini e dalle strade > sanzione massima € 1.000,00

Il tema della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza è una delle fattispecie più ricorrenti nella pratica e che, al contempo, presenta rilevanti profili di criticità.

Va segnalato che la questione della diversa collocazione del costruito sul lotto di pertinenza non era un problema di abusività rilevante negli anni ’60 e ’70, posto che il tema della variazione essenziale in genere nasce solamente nel 1985, a seguito della entrata in vigore dell’art.8 L.47/85, che dava per la prima volta un rilievo del progetto approvato relativamente alla localizzazione dell’edificio, inverando quindi una fattispecie di abusività successiva alla data della entrata in vigore della L.10/77, preso quale parametro applicativo della LR 50/19.

La fattispecie è oggi oggetto della disciplina dettata dall’art.32 DPR 380/01 che annovera la diversa localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza tra le variazioni essenziali rispetto al progetto approvato, rimettendone la relativa determinazione alle Regioni.

Come già esposto, la Regione Veneto non ha dato alcun seguito alla indicazione statale, trovando la fattispecie una propria disciplina ancora una volta nell’art.92 comma 3 lett.c) LR 61/85.

Il testo normativo della LR 50/19 sembra abbastanza semplice nel descrivere la fattispecie, sostanziata dalla oggettiva – diversa – collocazione del manufatto sul territorio rispetto a quanto assentito nel titolo o nel progetto approvato.

Nondimeno, balza agli occhi l’evidente contrasto, in linea di principio, tra la indicazione statale e quella dell’art.92 LR 61/85 che qualificano il diverso collocamento del manufatto sul territorio come una variazione essenziale (senza indicare misure e dimensioni del fenomeno, rimesse alla legislazione regionale), e la previsione della LR 50/19 che, a sua volta, fa rientrare la fattispecie in una difformità parziale, quindi di minore portata rispetto alla essenziale, anch’essa senza – invero – prevedere alcuna determinazione dimensionale.

Si deve quindi ritenere che il legislatore veneto abbia inteso regolarizzare unicamente una variante “minore”, quindi non certamente quelle ipotesi dove il diverso sedime della costruzione comporta la riconduzione dell’intervento nel novero della variazione essenziale, occupandosi quindi di situazioni diverse; nel silenzio della norma, la individuazione di tali ultime situazioni non è così agevole.

In realtà, si tratta di una fattispecie che presenta una casistica assai differenziata, spaziando da ipotesi di un posizionamento dell’intero edificio su un sedime del tutto diverso all’interno del lotto di pertinenza, passando per ipotesi di una coincidenza o sovrapposizione, maggiore o minore, del manufatto con il sedime autorizzato, finendo per rientrare nella fattispecie anche le ipotesi di rotazione dell’edificio.

La norma regionale detta in merito un solo criterio interpretativo, quello della “non sostanzialità” della diversa collocazione, per cui – in linea di massima – non tutte le situazioni predette potranno sostanziare una ipotesi regolarizzabile, anche dove non riconducibili alla variazione essenziale; peraltro, nel silenzio del legislatore, avendo riguardo al fatto che la regolarizzazione ha quale proprio oggetto una parziale e lieve difformità, per individuare i caratteri della non sostanzialità, occorrerà rifarsi alle innumerevoli decisioni del giudice amministrativo in tema di collocazione dell’edificio sull’area di pertinenza.

Anche per tale contesto, si ricorda che anche l’art.92 comma 3 lett.c) LR 61/85 non contiene alcun riferimento dimensionale della diversa localizzazione (quindi prescindendo dalla sua “sostanzialità” rispetto al progetto e anche all’ambito dell’area di pertinenza del fabbricato), ritenendola rilevante solo nella ipotesi in cui il diverso posizionamento andasse a violare i limiti di distanza, anche a diversi livelli di altezza, e in più che il fatto recasse un sensibile pregiudizio alle esigenze della zona sotto il profilo igienico-sanitario, degli allineamenti previsti e della ordinata distribuzione dei volumi, escludendo quindi una rilevanza della difformità se non in contrasto con tali aspetti; come già esposto, l’art.92 si occupa della variazione essenziale, senza dettare anch’esso alcun parametro, in una logica di rilievo della diversa localizzazione molto più “aperto” rispetto alle interpretazioni fornite del sopravvenuto art.32 DPR 380/01, in quanto la diversa localizzazione sostanzialmente non rileva, salvo la intervenuta violazione delle norme indicate.

Pur non essendo questa la sede per affrontare in modo esaustivo e risolutivo la questione, nondimeno occorre brevemente considerare gli elementi caratteristici della fattispecie, e quindi alla misura della diversa collocazione e al parametro della localizzazione sull’area di pertinenza.

Va in primis chiarito cosa deve intendersi per area di pertinenza; se questa coincida con il lotto di proprietà, ovvero se corrisponda al mappale dove avrebbe dovuto essere svolta l’attività edilizia, o se invece si richiamino concetti urbanistici diversi, come l’area genericamente interessata a livello superficiario dalla volumetria da costruirsi e poi realizzata.

La soluzione preferibile è quella che fa coincidere l’area di pertinenza con il contesto spaziale (che costituisca mappale o lotto intero è indifferente) all’interno del quale avrebbe dovuto collocarsi correttamente il sedime del manufatto autorizzato; in merito, si è affermato (in una fattispecie che presentava un nuovo parziale sedime pari a 45 metri, abbinato ad altre difformità edilizie ulteriori, per un edificio licenziato nel 1958) come la occupazione in senso formale di un mappale diverso non costituisca in sé variante essenziale (Cons.St.VI,2512/15 ).

È evidente che la realizzazione di un intero manufatto in un’area completamente diversa, senza neppure una sovrapposizione tra le due piante progettuali è una variazione essenziale e sostanziale e quindi al di fuori della presente ipotesi di regolarizzazione.

Per quanto attiene al “quantum” dello scostamento del realizzato rispetto all’autorizzato, le ipotesi che si prospettano sono abbastanza omogenee.

Per quanto riguarda l’ipotesi di un sedime completamente diverso, seppure all’interno del lotto/mappale, da quello autorizzato, come detto, ci si trova al cospetto di una fattispecie esclusa dalla regolarizzazione con la LR 50/19, in quanto il diverso posizionamento è sostanziale, rappresentando quindi in pieno una variazione essenziale rispetto al titolo, concretando la avvenuta realizzazione di un manufatto in un luogo del tutto diverso rispetto a quanto previsto, anche se all’interno della medesima area di pertinenza, andando ad occupare un sito non destinato nel progetto ad ospitare alcuna edificazione.

In merito la giurisprudenza è ferma nella qualificazione di un simile intervento come variazione essenziale; si è affermato come “costituisce variante essenziale rispetto al progetto approvato la modifica della localizzazione dell’edificio tale da comportare lo spostamento del fabbricato su un’area totalmente o pressoché totalmente diversa da quella originariamente prevista” (Cons.St.I,3295/12, IV, 5743/08 e 5080/12, IV 6069/13).

Quindi la assoluta non coincidenza di sedime tra autorizzato e realizzato non pare regolarizzabile, in quanto totale difformità.

Per quanto invece riguarda la ipotesi della parziale coincidenza o sovrapposizione tra il sedime autorizzato e quanto realizzato, in linea di massima la regolarizzazione sembra ammissibile, avendo presente che lo scostamento deve essere quantitativamente ridotto e contenuto per sostanziare quella lieve difformità che la LR 50/19 vorrebbe regolarizzare, anche se la disposizione non precisa alcun limite.

Viene però da chiedersi quale debba essere il livello di tale coincidenza parziale, se sia sufficiente una limitata coincidenza (5-10% della superficie) o sia possibile farvi rientrare un valore maggiore (fino, ad esempio, al 50%).

Per quanto attiene alla ipotesi della parziale coincidenza, appare di difficile quantificazione un limite certo della sovrapposizione che possa escludere la “sostanzialità”; si può azzardare un criterio cautelativo, per cui la difformità potrebbe ragguagliarsi a lievi scostamenti (5-10%).

Peraltro, in assenza di un limite, potrebbe anche valere un diverso approccio, per cui si potrebbe arrivare anche a ipotizzare una regolarizzazione per una coincidenza parziale con valori maggiori (40-50%); certamente, per valori superiori al 50% di scostamento, sussiste una ipotesi di essenzialità della variazione (ad esempio, TAR Puglia,LE,III,637/17 ha considerato quale variazione essenziale dove la coincidenza parziale si presentava limitata a 15 mq su 260 mq autorizzati).

Va ricordato, peraltro, che in tema la giurisprudenza ha individuato ipotesi di essenzialità anche a fronte di limitati scostamenti, anche in presenza di una sovrapposizione autorizzato/realizzato che si presentasse inferiore al 50% (Cons.St.VI,5087/19).

Anche con riguardo alla ipotesi della rotazione dell’edificio, il TAR Veneto (sentenza n.240/11) ha riconosciuto la variazione essenziale ex art.32 DPR 380/01 in costanza di una rotazione di novanta gradi del manufatto, con una lieve traslazione di qualche metro (abbinato, peraltro, alla circostanza che la nuova collocazione veniva a modificare la sagoma del manufatto visibile dalla strada).

A parere dello scrivente, anche in considerazione della previsione dell’art.2 lett.b) potrebbe essere ragionevole ancorare il limite dello scostamento sino al 20% della superficie, indipendentemente da rotazioni o diversi posizionamenti, potendosi quindi regolarizzare quelle situazioni in cui il manufatto realizzato presenti, a seguito di sovrapposizione, una coincidenza non inferiore all’80% del sedime autorizzato e come individuato nel titolo o nei progetti autorizzati.

Va poi evidenziato come per la regolarizzazione secondo la LR 50/19 non valgano i limiti esposti nell’art.92 LR 61/85 (nel silenzio dell’art.32 DPR 380/01), non rilevando quindi quelle situazioni che sono invece menzionate come qualificanti la variazione essenziale, che sussisterebbe allorquando vi sia la violazione della disciplina delle distanze tra fabbricati, dai confini e dalle strade; infatti, la violazione regolarizzabile secondo la LR 50/19 non pare in alcun modo interessata dalla eventuale possibile violazione delle normative predette.

Viene invece da chiedersi se per effetto della regolarizzazione conseguita, la difformità possa ritenersi “sanata” anche con riferimento alla eventuale violazione delle norme in tema di distanza dai fabbricati, dai confini e dalle strade, quindi con disposizioni che non sono precipuo oggetto della pianificazione urbanistica comunale, trovando una disciplina da parte del legislatore nazionale (con il DM 1444/68, il Codice Civile, il Codice della Strada e annesso Regolamento attuativo).

Trattandosi di regolarizzazione straordinaria, si dovrebbe ritenere che il conseguimento del titolo regolarizzante elimini la antigiuridicità di eventuali contrasti con la predetta normativa statale.

 

lett.e) – modifiche che non rilevino in termini di superfici o volume e non siano modificative della struttura e dell’aspetto complessivo dell’edificio > sanzione massima € 750,00

Nonostante l’apparenza del dettato normativo, è tutt’altro che agevole individuare l’ambito applicativo della disposizione, alla quale dovrebbe essere riconosciuta una funzione di norma residuale, nel quale convogliare la possibile regolarizzazione di tutte quelle lievi difformità non ricomprese nelle precedenti lettere.

Con la disposizione il legislatore avrebbe dunque inteso regolarizzare forse tutte quelle difformità leggere che infatti non abbiano determinato modifiche del volume e della superficie dell’edificio autorizzato o di progetto, avendo quindi presente tutta quella serie di violazioni “minori” e comunque incidenti su altri parametri edilizi che la pratica quotidiana propone; si fa riferimento, per esemplificare, alle forometrie o alle finestre realizzate in numero, posizione, dimensioni diverse da quanto autorizzato, alle recinzioni di dimensioni e consistenza alterate, modificazioni prospettiche, difformità esecutive di vario genere, e via dicendo.

A prima vista, l’ambito residuale appare molto ampio, escludendo già il disposto normativo quelle difformità che rilevino in termini di superficie e di volume (che, dunque non rilevano come parametri violati) e che non devono anche aver inciso sulla struttura e sull’aspetto complessivo dell’edificio.

Anche in assenza di una precisazione relativamente alle modificazioni della struttura dell’edificio, il già menzionato connubio appare in realtà fortemente limitativo; si pensi alla ipotesi di una diversa inclinazione delle falde del tetto, situazione in cui indubbiamente la struttura del manufatto viene modificata in modo evidente. Non è poi chiaro cosa debba intendersi con “struttura”, se vada riferita ad una parte interna e costitutiva della costruzione o, se invece, possa riferirsi anche all’esterno in quanto tale.

Anche il parametro dell’aspetto complessivo dell’edificio lascia perplessi, perché nella fattispecie potrebbero rientrare tutte quelle situazioni in cui la lieve difformità abbia provocato una modifica significativa della sagoma di un manufatto (si pensi alla realizzazione di uno sporto, o ad un prospetto) che, in ragione delle dimensioni dell’edificio interessato, potrebbe divenire modificativo dell’aspetto complessivo dell’edificio, alterandone una “armonia” costruttiva, divenendo quello in questione un parametro tutto da verificare.

Si pensi, inoltre, alle ipotesi della realizzazione di nuove aperture e finestre, situazione che può portare a conclusioni contraddittorie ed insoddisfacenti; avendo a riferimento le finestre, viene da chiedersi se e come, ad esempio la loro diversa collocazione sulla facciata, possa determinare la modifica dell’aspetto complessivo dell’edificio; se in tale ipotesi debba interessare o meno tutti i piani dell’edificio; quale rilievo dare alle dimensioni diverse, in un contesto in cui la norma ha solamente preso quale parametro di riferimento un giudizio finale dello scostamento esecutivo in questione, connesso all’aspetto complessivo, quindi alla percezione esteriore dell’edificio, proponendo – invero – una valutazione che parrebbe essere molto soggettiva e altrettanto generica.

Sotto altro profilo va anche chiarito se il limite dell’aspetto esteriore dell’edificio sia un principio generale della intera LR 50/19 o se, invece, la precisazione – per cui non sarebbero regolarizzabili le modifiche all’aspetto esteriore dell’edificio – debba essere necessariamente confinata alla ipotesi della lett.e) dell’art.2, non potendo quindi estendersi alle altre lettere della medesima disposizione; così facendo, infatti, ogni modifica volumetrica, incidendo sulla sagoma, non potrebbe essere regolarizzata, perché altererebbe l’aspetto esteriore del manufatto, svuotando il senso della disposizione protesa alla regolarizzazione.

All’evidenza si tratta di una fattispecie che dovrà essere meglio precisata nella pratica.

La natura residuale della disposizione consente anche ulteriori considerazioni con riguardo alla possibile violazione di altri parametri edilizi, diversi da quelli esposti nelle precedenti lettere dell’art.2 comma 1.

Diversamente da quanto previsto dall’art.34 comma 2 ter DPR 380/01, nella LR 50/19 non compare alcun riferimento al parametro dell’altezza, proposto invece dall’art.92 comma 3 lett.b) LR 61/85, secondo cui la variazione è essenziale quando si modifica di 1/3 l’altezza dell’edificio, in una previsione che a tale parametro affianca la ipotesi dell’aumento della cubatura, evidenziando quindi una specifica attenzione sul tale tipologia di violazione del legislatore precedente.

La assenza del parametro altezza induce a ritenere che una eventuale difformità di tale parametro non rilevi in via autonoma, in quanto già ricompresa nella fattispecie dell’aumento di volume che, determinando un diverso sviluppo dimensionale dell’edificio, determina anche una possibile modifica dell’altezza, e quindi automaticamente si rientra nella previsione dell’art.2 lett.a), incontrando un limite nel terzo della altezza autorizzata (per cui la violazione sconfinerebbe nella variazione essenziale).

Peraltro, non tutti i nuovi volumi implicano una altezza diversa dell’edificio, come in ipotesi di ampliamenti volumetrici orizzontali (si pensi alla avvenuta chiusura di verande o di balconi o alla realizzazione di vano a fianco di quello esistente).

Nella fattispecie dell’art.1 lett.e) dovrebbero rientrare le modifiche della distribuzione interna delle singole unità immobiliari, ammesso che si tratti di una difformità rilevante (contra si veda, infatti, TAR Campania,NA,4605/17).

Le disposizioni della LR 50/19 non risolvono dubbi con riguardo ad ulteriori ipotesi di difformità che, in realtà, appaiono di problematica riconduzione ad una delle fattispecie delle cinque lettere dell’art.2, sempre salva la possibilità di farle rientrare nella lett.e).

Sono le ipotesi in cui la difformità si palesi non tanto come un qualcosa in “più” in termini volumetrici o dimensionali, ma come un qualcosa in “meno”, essendosi in presenza di una parziale attuazione dell’autorizzato o del progettato, sostanziante una oggettiva una difformità, per la quale (non rappresentando un qualcosa in più, ma in meno) è anche problematico determinare anche il presupposto di una eventuale sanzione, visto che la LR 50/19 sembra vada a colpire aspetti quantitativi in aumento della difformità.

Da ultimo, la genericità della previsione della lett.e) si riflette anche sull’eventuale calcolo della sanzione applicabile, perché non è chiaro se – nel limite della istanza di regolarizzazione – si debba pagare per ogni singola difformità o meno; si pensi alla realizzazione di tre finestre per dimensioni e collocazioni diverse rispetto all’autorizzato: in tal caso la sanzione andrebbe applicata per ciascuna di esse o, invece, dovrebbe essere applicata una sola volta avendo riguardo all’esito – globale – della difformità.

In merito si evidenzia come il comma 3 dell’art.2 in tema di sanzioni, stabilisce che il pagamento avviene per “le difformità edilizie” e non quindi per ciascuna singola opera, per cui un cumulo di sanzioni non dovrebbe avvenire all’interno delle singole lettere di massima, ma in caso di concorso di fattispecie rientranti in lettere diverse; a ciò si aggiunga come ancora l’art.2 comma 3 lett.e) precisa che la sanzione per la corrispondente violazione di cui al comma 2 lett.e) vada applicata in generale per le “opere” e non per ogni singola “opera”; la disposizione appare chiara.

Problemi applicativi potrebbero sorgere, invece, nelle ipotesi in cui il progetto autorizzato sia lui stesso poco preciso e grossolano, per cui in sede esecutiva – soprattutto su preesistenze rispetto al 1977 – in costanza di errori di misure, di rapporti, di distanze, già la situazione rappresentata fosse in qualche modo errata e non corretta, per cui l’attività esecutiva ha prodotto una attuazione con esiti di inconciliabilità non solo con il progetto, ma anche con la situazione di fatto e precedentemente autorizzata, per cui viene difficile collocare le eventuali difformità, mancando in tale ipotesi un presupposto certo elemento di raffronto.

 

8. LE SANZIONI E L’ISTANZA DI REGOLARIZZAZIONE

L’art.2 comma 3 LR 50/19 contiene le disposizioni che disciplinano le sanzioni, il cui pagamento consente la regolarizzazione, prevedendo quindi i singoli importi dovuti.

8.1 Le sanzioni – La norma precisa come debbano considerarsi “salvi gli effetti civili e penali dell’illecito”, dettando quindi il perimetro applicativo della intera normativa, restando quindi esclusa qualsiasi valenza della eventuale regolarizzazione nel contesto civilistico e, soprattutto, penale, non tanto avendo a riguardo eventuali procedimenti in corso (che si dubita possano essere oggi in corso per abusi ultraquarantennali), quanto affermando la inefficacia ed irrilevanza della regolarizzazione ai fini della responsabilità penale del trasgressore.

Anche sotto tale aspetto la regolarizzazione in questione differisce tanto dai condoni edilizi di origine statale quanto dall’ordinario accertamento di conformità, che escludono la responsabilità penale a seguito del rilascio del relativo provvedimento favorevole.

La disposizione fissa l’entità delle sanzioni, precisando che, oltre all’importo previsto per la stretta sanzione indicata, dovrà essere corrisposto anche il contributo di costruzione, ove dovuto, relativo alla parte difforme.

La previsione lascia perplessi, in quanto usualmente con il versamento della sanzione/oblazione prevista l’illecito viene meno in ipotesi di sanatoria ordinaria, per cui all’istante non viene richiesta anche la corresponsione del contributo di costruzione; viceversa, la corresponsione degli oneri era prevista dalla L.47/85 in materia di condono edilizio.

E’ di tutta evidenza che l’onere in questione diviene una vera e propria sanzione che si aggiunge a quella nominale prevista dalle cinque ipotesi del comma 3, rifacendosi a quanto stabilito dalla L.47/85 in materia di condono edilizio; considerando che l’intervento edilizio, in generale, ante 1977, non prevedeva la corresponsione di alcun contributo, sul punto il dettato normativo non lascia dubbi, per cui, nelle ipotesi in cui il contributo sia dovuto, questo diviene un onere aggiuntivo rispetto alla sanzione in senso stretto.

Nondimeno, essendo il principio della onerosità della concessione ad edificare introdotto proprio con la L.10/77 (per cui certamente con riguardo ai titoli rilasciati precedentemente nulla era dovuto per tale titolo e quindi non esisteva una quantificazione), si deve ritenere che il contributo in questione debba essere calcolato facendo applicazione degli attuali e vigenti criteri determinativi, nonostante l’attività edilizia in difformità sia stata svolta quando il contributo non esisteva neppure; in merito si richiama anche il recentissimo pronunciamento (inerente al condono del 2003) del Consiglio di Stato che ha affermato come “gli oneri concessori vadano determinati secondo le tabelle vigenti al momento del rilascio del titolo in sanatoria … perché è soltanto con l’adozione del provvedimento di sanatoria che il manufatto diviene legittimo e, quindi, concorre alla formazione del carico urbanistico che costituisce il presupposto sostanziale del pagamento del contributo e, in secondo luogo, su considerazioni di ordine teleologico, in quanto consente di meglio tutelare l’interesse pubblico all’adeguatezza della contribuzione rispetto ai costi reali da sostenere (da ultimo, C.d.S. Sez.VI 2 luglio 2019 n.4514)” (Cons.St.II,2680/20).

Per la determinazione del contributo eventualmente dovuto troverà quindi applicazione la normativa ordinaria in materia prevista oggi dall’art.16 DPR 380/01.

Le sanzioni previste sono di carattere pecuniario e sono state individuate in cinque lettere (da a) a e) come riferite alle rispettive fattispecie di difformità esposte al comma 2.

Le singole ipotesi di sanzione non presentano elementi peculiari, salvo forse la lett.e) dove precisa che la sanzione va applicata in generale per le “opere” e non per ogni singola “opera”, come già esposto, forse presupponendo una sorta di “cumulo”.

La normativa non detta poi alcuna indicazione in ipotesi, tutt’altro che remota, di simultanea presenza di diverse difformità sullo stesso immobile ascrivibile alle varie lettere dell’art.2, aprendo quindi al possibile concorso e cumulo di sanzioni applicabili per la regolarizzazione in presenza di due o più concomitanti violazioni riscontrate.

La disposizione prevede un aspetto procedimentale rilevante, per cui la regolarizzazione deve essere pagata (sanzione e contributo) in via anticipata rispetto alla presentazione della istanza mediante SCIA, di cui si dirà a breve.

La imposizione di un pagamento “anticipato” desta qualche perplessità, in quanto, solitamente, la sanzione viene applicata una volta accertata e verificata, non solo la sussistenza, ma anche la entità dell’abuso; peraltro, la norma è precisa, per cui si deve ritenere che la sanzione vada versata prima della presentazione della istanza di regolarizzazione, restando inteso che in presenza di un versamento non corretto o insufficiente rispetto a quanto l’istruttoria comunale sulla pratica dovesse rivelare, il richiedente potrà esser ammesso ad  integrare il versamento effettuato, senza incorrere in decadenze o in respingimenti della domanda stessa per ragioni conseguenti a parziali versamenti della sanzione.

Se il pagamento della sanzione viene espressamente richiesto in via preventiva rispetto al deposito della istanza, non è chiaro se anche il contributo, dove dovuto, debba essere corrisposto anch’esso anticipatamente o, invece, se possa essere versato successivamente, in altro momento; nel silenzio, considerando che la istanza è presentata mediante SCIA, si deve ritenere che anche il versamento del contributo debba essere effettuato prima del deposito della istanza.

Per altro verso, laddove la domanda di regolarizzazione dovesse essere respinta, è evidente che il soggetto istante avrà il diritto di rimborso delle somme tutte così come versate.

All’art.3 comma 2 viene stabilito che con cadenza quinquennale l’importo delle sanzioni di cui all’art.2 viene automaticamente rivalutato e adeguato alla variazione ISTAT indicata, disponendo quindi una forma di aggiornamento al quale il Comune dovrà adeguarsi.


8.2 L’istanza di regolarizzazione
– Il legislatore della LR 50/19 ha scelto quale modello operativo-procedimentale della regolarizzazione il modulo della Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) che l’interessato, al pari della ordinaria SCIA edilizia, dovrà presentare agli Uffici Comunali, corredata della relativa documentazione tecnica e delle ricevute di pagamento della sanzione e del contributo versati.

Anche tale aspetto non presenta particolari questioni, anche se non sono mancate osservazioni nel corso dell’iter approvativo della legge che volevano, comunque, che la regolarizzazione, anche per ragioni strettamente documentali, fosse presidiata dal rilascio di un permesso di costruire, il cui procedimento – anche a livello temporale – avrebbe consentito di avere maggiore spazio per le opportune verifiche e i controlli necessari, anche in relazione alla presenza di eventuali vincoli o di quei peculiari aspetti costruttivi espressi dall’art.2 comma 4, circa la normativa antisismica, igienico-sanitaria e di sicurezza.

Come già invalso nell’edilizia ordinaria o nell’ambito della applicazione del “Piano Casa”, nulla preclude che una domanda di regolarizzazione possa essere presentata con una domanda di permesso di costruire, sottostando il tutto ai maggiori tempi procedimentali, dovendo comunque dubitarsi della operatività nella fattispecie del silenzio-assenso.

Con riferimento alla presentazione della istanza di regolarizzazione, come più volte evidenziato, risulta decisivo il tema della comprova che dovesse essere richiesta o fornita della data effettiva e reale di esecuzione delle opere difformi oggetto della regolarizzazione; si può ritenere che la questione, riprendendo la analoga problematica emersa in materia di abusi edilizi, potrebbe essere la fonte di certo contenzioso.


8.3 – La riserva dell’art.2 comma 4 LR 50/19
– L’art.2 si chiude con il comma 4 contenente una previsione che non pare proprio chiarissima nel suo enunciato.

Il comma 4 esordisce ponendo un punto fermo per cui “Resta ferma l’applicazione della disciplina sanzionatoria di settore ..”; si tratta di un inciso che potrebbe essere interpretato in vari modi e con vari riflessi, tenendo conto che si tratta di difformità edilizie esistenti da 45 anni.

Alcuni interpreti hanno infatti individuato nella serie di riferimenti normativi contenuti nella disposizione un elenco di una ulteriore serie di limiti normativi “esterni” alla possibilità di una regolarizzazione, in quanto la parziale abusività non sarebbe regolarizzabile in presenza di violazioni interessanti una serie di normative di settore come indicate dal  comma 4, tra cui quelle antisismiche, idrauliche, idrogeologiche, di sicurezza, di ordine igienico-sanitario, e quindi quella di cui al D.Lgs 42/04.

Il dettato normativo non sembra, in realtà, indicare che le normative suddette, benchè di primario rilievo per le discipline cautelative che contengono, rappresentino un limite ex se o ulteriori ipotesi di esclusione dalla regolarizzazione.

Se il legislatore avesse voluto aprioristicamente escludere dalla regolarizzazione immobili che, seppure con lievi difformità, si presentassero in contrasto con aspetti disciplinati dalle normative indicate, non vi è dubbio che lo avrebbe fatto espressamente (come, ad esempio, avvenuto con il condono edilizio regionale di cui alla LR 21/04).

Va poi considerato che oggetto del “fermo” contenuto nella disposizione non sarebbero tanto le norme sostanziali, quanto quelle di carattere sanzionatorio poste dalle norme di settore, per cui si deve ritenere che il legislatore abbia ammesso la regolarizzabilità anche di situazioni di possibile contrasto con le normative cautelative indicate, prevedendo una logica salvaguardia delle misure sanzionatorie che le predette normative contengano, con la conseguenza che l’eventuale pagamento della sanzione ex art.2 comma 3 non varrebbe ad escludere.

In disparte il fatto che si potrebbe anche opinare che non dovrebbe essere fatta alcuna valutazione di compatibilità in senso stretto della istanza con le normative suddette, assumendosi una piena capacità derogatoria della regolarizzazione anche in relazione a tali aspetti, appare più corretto ritenere che le normative indicate sostanzino comunque un insieme di disposizioni con cui l’istanza di regolarizzazione deve confrontarsi.

Il riferimento al solo aspetto sanzionatorio non deve fuorviare, in quanto – in ogni caso – anche la domanda di regolarizzazione dovrà confrontarsi con le predette normative, per verificarne la compatibilità, lasciando quindi spazio ad eventuali ulteriori sanzioni che dovessero essere applicabili in ragione della avvenuta violazione delle normative indicate; l’esempio che viene in mente in prima battuta è quello della violazione che implica rilievi paesaggistici (di cui al DPR 31/17), regolarizzabili anche secondo i parametri della normativa vincolistica, per cui l’eventuale rilascio di una compatibilità paesaggistica viene accompagnato dal pagamento della sanzione prevista dal D.Lgs 42/04.

Si tratta, peraltro, di normative che sono tra loro omogenee e che presentano anche alcuni problemi pratici applicativi e di coordinamento con una ipotesi di regolarizzazione; nel caso, ad esempio, della compatibilità igienico-sanitaria, non si comprende come relazionarla con l’avvenuto rilascio del certificato di abitabilità/agibilità secondo la precedente normativa; sempre in materia igienico-sanitaria, alcuni dubbi potrebbero porsi per le dimensioni di quei vani o volumetrie in relazione al DM 1975 sulle altezze interne che, invero, non pare possa trovare applicazione per opere ed edifici ante 1975.

Peraltro, la ipotesi che propende per una applicazione della normativa vincolistica pone il dubbio di quale sia, nell’ambito delle singole normative in tema, come indicate dall’art 2 comma 4, la stessa disciplina applicabile, avendo riguardo al profilo della temporalità del vincolo; infatti, le opere interessate dalla regolarizzazione, eseguite anteriormente al 1977, potrebbero essere state realizzate in zone, o riguardanti beni, all’epoca non sottoposti a vincoli di sorta (si pensi a quelli imposti nel 1985 dalla Legge “Galasso”), per cui si potrebbe ipotizzare che nessun vincolo sarebbe stato violato, proprio perché all’epoca non sussistente e solo successivamente venuto in essere.

In merito, pur in presenza di opinioni difformi, si afferma che la compatibilità della regolarizzazione dove essere verificata avendo come parametro le previsioni vincolistiche attuali e non con quelle precedenti (come esistenti al 30 gennaio 1977), sempre che fossero esistenti, come notoriamente ribadito dalla giurisprudenza.

E’ infatti principio consolidato in giurisprudenza quello secondo cui la compatibilità dell’opera da regolarizzare rispetto al regime di salvaguardia garantito da un vincolo, al fine di verificare la effettiva tutela del bene protetto, deve essere valutata con riferimento alla normativa e al vincolo esistente al momento dell’esame della domanda di regolarizzazione, con il risultato che, se non sussistono le condizioni di rispetto della normativa vincolistica, in quel momento vigente, il titolo in sanatoria non potrebbe essere assentito, anche se in ipotesi l’edificazione originaria rispettasse tale normativa al momento della sua realizzazione, avvenuta senza autorizzazione o in difformità da questa, ovvero nel caso in cui la situazione non avesse neppure una disciplina positiva.

Pertanto, richiamando quanto indicato in materia di condono edilizio, al momento del rilascio dell’autorizzazione della sanatoria, sussiste l’obbligo di acquisire il parere dell’autorità preposta al vincolo, ancorchè le opere in discussione siano state eseguite prima della apposizione del vincolo stesso; si afferma infatti che “è irrilevante che il vincolo sia sopravvenuto alla costruzione dell’immobile” (Cons.St.VI, 1941/16, IV,5366/16, VI, 5326/15), facendo piena applicazione dei principi dettati da Ad.Plen.Cons.St 20/99 (circa i primi due condoni), per cui si afferma che in caso di vincoli sopravvenuti “il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria, per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo è sempre subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”.

Con il terzo condono, peraltro, è stato direttamente il legislatore nazionale ad escludere la valutazione di compatibilità con il vincolo laddove questo fosse stato imposto successivamente alla esecuzione delle opere, se il vincolo è però di inedificabilità assoluta, mantenendo la verifica dove questo sia invece relativo (cfr. Cons.St.VI, 283/18 e TAR Lombardia,MI,II,2095/18).

Nella presente vicenda, si potrebbe obiettare che la regolarizzazione della LR 50/19 non è un condono, non avendo infatti gli effetti penali della sanatoria straordinaria come posti in primo luogo dalla L.47/85; e, in ogni caso, si dovrebbe prescindere da una qualche conformità del costruito ad un parametro esterno, quale è il vincolo, soprattutto dove questo sia stato apposto successivamente alla esecuzione della difformità, per cui si dovrebbe prescindere da questa, anche in considerazione della portata “regolarizzante” del conseguimento del titolo eventualmente emesso.

La tesi non pare convincente, anche se la realtà oggettiva contrappone un abuso (di oltre quaranta anni fa) a discipline che in quell’epoca neppure esistevano, evidenziando anche per tale aspetto il rapporto “sofferto” tra condoni e sopravvenute discipline vincolistiche, rimandando l’esito di una istanza di regolarizzazione al momento della sua valutazione e alla normativa vincolistica eventualmente vigente in quel momento.

Per concludere, si ritiene che in applicazione delle norme indicate, l’istanza di regolarizzazione non possa non confrontarsi con le attuale previsioni vincolistiche, anche se venute in essere successivamente alla commissione dell’abuso, dove un eventuale incompatibilità non potrà che condurre al rigetto della domanda.

 

9. GLI ALTRI ARTICOLI DELLA LR 50/19

L’art.3 LR 50/19 significativamente prevede che i proventi dal pagamento delle sanzioni (e non del contributo), siano riscossi (e trattenuti) dai Comuni, e che gli stessi dovrebbero “preferibilmente” essere destinati al finanziamento di programmi locali per la riqualificazione urbana e per il potenziamento delle attività di controllo e accertamento delle violazioni edilizie, e non quindi alla loro eventuale repressione.

Il richiamo all’avverbio indicato lascia intravvedere altri approdi per i proventi in questione, anche se l’impiego delle somme da destinarsi agli interventi di riqualificazione urbana dovrebbe essere oggetto di apposita relazione come da trasmettersi nelle scadenze temporali indicate dall’art.4 LR 50/19.

I successivi articoli 4, 5 e 6 della LR 50/19 non hanno aspetti di rilievo, salvo il già richiamato termine di entrata in vigore della legge, fissato all’art.6 al sessantesimo giorno successivo alla sua pubblicazione nel BUR, quindi al 25 febbraio 2020, in attesa dell’impugnazione statale, come avvenuta.

10. IL NUOVO ORIENTAMENTO DELLA CORTE DI CASSAZIONE IN TEMA DI TRASFERIMENTO DI IMMOBILI CON ABUSIVITA’

Deve essere peraltro evidenziato come il tema della difformità edilizia di un edificio, quale ostacolo al trasferimento inter vivos di beni immobili, ha recentemente visto una sostanziale rivisitazione in forza della sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n.8230/19.

Il pronunciamento in questione è stato emesso a seguito delle alterne pronunce delle sezioni della Corte, con riguardo al dettato normativo dell’art.46 DPR 380/01 (e di cui agli artt.16 e 40 L.47/85) che dichiara nulli gli atti notarili di alienazione immobiliare aventi ad oggetto edifici connotati da abusi edilizi non menzionati negli atti e quindi non sanati, ovvero nella ipotesi di mancata indicazione dei titoli edilizi rilasciati nell’atto notarile.

Inizialmente erano due gli orientamenti che si erano proposti.

Accanto ad un orientamento formale, che riconosceva strettamente la nullità unicamente nel caso in cui fosse mancata la indicazione nell’atto notarile, per dichiarazione dell’alienante, degli estremi della concessione edilizia, sia ad edificare, come in sanatoria dove rilasciata ai sensi dell’art.13 L.47/85 (oggi dell’art.36 DPR 380/01), indipendentemente dal contenuto di questi ultimi atti autorizzatori, esisteva anche un orientamento sostanziale, secondo cui gli atti di trasferimento immobiliare di edifici con abusi non sarebbero ex se invalidi (anche dove fossero immobili abusivi) per illiceità dell’oggetto, potendo la fattispecie dare luogo ad azioni di carattere contrattuale come la risoluzione per inadempimento, l’actio quanti minoris ovvero l’azione per evizione (Cass.Civ.6399/84, 6663/95, 4786/07, 16876/13, 14804/17).

Considerando la insufficienza dei predetti orientamenti a garantire il diritto dell’acquirente di buona fede a fronte di immobili anche parzialmente abusivi, nel corso del tempo si era anche proposto un terzo orientamento, maggiormente garantista per l’acquirente, per cui superando il tema della indicazione formale della sussistenza di un titolo edilizio nell’atto, prendendo atto che le disposizioni della L.47/85 (come poi trasfuse nel DPR 380/01) andavano a reprimere e sanzionare gli abusi edilizi, si era affermato che il contratto avente ad oggetto un bene irregolare dal punto di vista urbanistico-edilizio sarebbe affetto da una nullità di ordine sostanziale, essendo altrimenti svuotato lo scopo della normativa, che era quello di rendere incommerciabili gli immobili non in regola dal punto di vista edilizio (Cass.Civ.23591/13 e 28194/13); con tale ultimo orientamento di evidente favore, gli acquirenti all’oscuro di abusività più o meno celate e rilevabili venivano garantiti anch’essi da una nullità della compravendita di un bene irregolare a livello edilizio.

La recente pronuncia a Sezioni Unite della Corte di Cassazione n.8230/19 ha quindi composto la contrapposizione fra i diversi orientamenti in tema di nullità, optando per una soluzione che ha accantonato il terzo orientamento, quello di maggior tutela dell’acquirente, ritornando a quello originario di natura strettamente formale, rilevando come “ .. oggetto della compravendita secondo la definizione data dall’art.1470 c.c. è il trasferimento della proprietà della res che, in sé, non è suscettibile di valutazione in termine di liceità o di illiceità, attenendo l’illecito alla attività della sua produzione e, considerato che la regolarità urbanistica di un bene è estranea alla causa della compravendita, tradizionalmente definito nello scambio – cosa contro prezzo – che ne costituisce la sua funzione economico-sociale ed altresì il suo effetto essenziale ..”, lasciando quindi l’acquirente “.. utilizzando la diligenza dovuta in rerum suis ..”, nella possibilità di svolgere le indagini ritenute più opportune per appurare la regolarità urbanistica del bene, anche in riferimento alla eventuale mancata corrispondenza della costruzione al titolo dichiarato (per un maggiore approfondimento sia consentito rinviare alle note di F.Bocchini, in Riv.Giur.Ed., 2019,I,625 e ss., D.M.Traina in Riv.Giur.Ed., 2019,I,960 e ss., E.Amante, in Urb.Appalti, 4/2019,503 e ss.).

Dovendosi fare applicazione dei principi elaborati dalle Sezioni Unite, dovrebbe anche ridursi in modo significativo l’impatto di eventuali difformità edilizie, non più presidiate da possibili pronunce di nullità radicale del contratto, ma assistite dalle ordinarie azioni di natura contrattuale come promovibili nei confronti del venditore in presenza di vizi e difformità, cui dovrebbe conseguire una maggiore circolazione dei beni.

 

11. CONCLUSIONI

Il destino della LR 50/19 sembra segnato, secondo le più autorevoli opinioni, e difficilmente supererà il vaglio della Corte Costituzionale, sempre più protesa ad una tutela del centralismo normativo statuale, come emerge anche con riguardo al delicatissimo problema della regolarizzazione delle abusività, anche le minori e, soprattutto, risalenti nel tempo, in ordine alla quale la Corte negli anni non ha mancato di censurare le varie iniziative di regolarizzazione proposte di volta in volta dalle Regioni.

D’altro canto, non pare neppure coerente, anche con la prospettiva del contenimento del suolo e della auspicata rigenerazione del costruito, che un gran numero di manufatti resti in condizione di abbandono ed incuria perché non vi è una regolarità edilizia, connessa poi ad abusi minori, laddove questa non sia conseguibile in alcun modo in via ordinaria e, soprattutto, si versi in una situazione di incolpevolezza soggettiva dell’attuale proprietario del bene stesso.

Per altro verso, una pronuncia di incostituzionalità non risolve evidentemente il problema posto dagli edifici in questione, il tutto abbinato alla, notoria, aperta contrarietà alla possibile applicazione della c.d. “sanatoria giurisprudenziale” (avversata, da ultimo, fermamente dal Consiglio di Stato, cfr. Sez.VI, 6107/19), non consentendo quindi di “recuperare” in alcun modo una legittimazione dell’esistente, neppure ricorrendo all’esercizio di poteri impliciti o immanenti al sistema, come delineato dalla dottrina (cfr. B. Graziosi in Riv.Giur.Ed. 2020,II,53 e ss.).

Destino non migliore sembra profilarsi ad eventuali iniziative legislative, ovvero di matrice pianficatoria comunale, per effetto di apposite delibere, che in qualche modo individuino proprio nell’esistente, come presente sul territorio, un quid di aprioristicamente “legittimo”, quale precondizione dell’ammissibilità di ogni intervento e, quindi in quanto tale bene trasformabile o alienabile, superando così le eventuali problematiche di legittimità intrinseca dell’edificato; in merito è sufficiente richiamare ancora una volta la Corte Costituzionale che, con la sentenza n.290/19, ha dichiarato la illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della LR Lazio n.7/18, tra cui il nuovo testo dell’art.57 ter LR 38/99, contenente una definizione di edifici legittimi esistenti, tra i quali sono ricompresi “anche quelli realizzati in assenza di titolo abilitativo in periodi anteriori antecedenti alla data di entrata in vigore della legge 6 agosto 1967 n.765 .. ovvero che siano stati oggetto di accertamento di conformità, da parte dei responsabili dell’abuso, ai sensi degli articoli 36 e 37 del DPR 380/2001.”; la Corte ha pronunciato la illegittimità costituzionale della norma, considerando come erroneamente “il legislatore regionale pretende di attribuire la qualifica di edifici legittimi esistenti a determinati edifici sia pure ai limitati fini dell’art.57 e dell’art.57 bis della legge reg. Lazio n.38 del 1999, sostituendosi, per questo verso, al legislatore statale cui spetta, nell’esercizio della competenza concorrente in materia di governo del territorio, il compito di porre le norme di principio che consentano di qualificare un immobile come edificio legittimo esistente. La natura di normativa di principio della disciplina statale concernente il regime della sanatoria degli interventi edilizi abusivi rende illegittimo l’intervento regionale che, quand’anche fosse meramente ripetitivo delle previsioni statali, non potrebbe superare il test di costituzionalità.”.

Insomma, non se ne viene fuori.

Come ipotizzato da autorevoli commentatori, una soluzione alla diffusa problematica potrebbe essere quella, nel contesto di futuri interventi del legislatore regionale, di prevedere una rigenerazione urbana ed edilizia che ricomprenda anche immobili connotati da lievi difformità che, per effetto dell’intervento autorizzato concretamente, verrebbero eliminate o rese conformi, consentendo così di recuperare l’immobile interessato, ipotizzandosi di apporre al titolo edilizio relativo una sorta di condizione preventiva da adempiere (un facere per rendere legittimo previamente il bene) e quindi la vera e propria autorizzazione ad intervenire a livello edilizio, una volta soddisfatto l’onere; ma si tratta di una ipotesi dai contorni molto incerti e tutta da verificare.

Allora, non resta che considerare positivamente la finestra temporale attualmente aperta, sfruttarla dove possibile, in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale.

Antonio Ferretto

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