1. Maria Rosaria Ferrarese, sociologa e autrice del bel volume sul “diritto sconfinato”, in un saggio dal titolo “i confini e la voglia di attraversarli”[1]– scrive: “I confini sono delle semplici linee. Ma quelle linee hanno una doppia e contraddittoria capacità. Da una parte rimandano infatti all’idea della loro invalicabilità…Dall’altra, tuttavia, esse…rimandano all’idea del loro attraversamento”. E si crea così uno “spazio ricco di incontri e di attraversamenti”.

È questo spazio che oggi stiamo cercando di riempire, con un confronto di idee, sempre proficuo, ma che denota, pur in una ristretta cerchia di persone sostanzialmente formatesi alla stessa temperie di cultura giuridica, una varietà di vedute che inevitabilmente conduce a quella “incertezza del diritto” così ben tratteggiata, nei suoi tratti problematici, nella relazione introduttiva del prof. Volpe.

I temi trattati mi sembrano essere sostanzialmente quelli collegati alla disciplina degli appalti e quelli relativi al rapporto tra giurisdizioni. Il filo che lega questi temi, anche nei loro risvolti più specifici, mi sembra essere quello delle tutele, se vogliamo intendere sia la disciplina anche sostanziale di determinati settori (nel caso nostro, quello degli appalti), sia le questioni inerenti all’assetto delle giurisdizioni come volte a costituire un sistema di tutele efficace, prima ancora che effettivo, nei confronti dell’azione dell’amministrazione. E uso un termine –azione- volutamente non qualificato e non qualificante, perché è proprio dalla qualificazione dell’azione che deriva un corretto approccio alle più specifiche tematiche che sono state affrontate.

Una cosa va premessa: oggi l’azione amministrativa è in espansione, perché sempre più è richiesta l’intermediazione amministrativa negli svariati campi della società. Si tratti, nel settore dell’economia, di un’azione di regolazione e controllo dei mercati o di intervento diretto nella produzione a mezzo di figure soggettive pubbliche o di forme ibride con il privato o decisamente privatistiche; si tratti, nel settore dei diritti sociali, di servizi pubblici in senso stretto o di forme di incentivazione o contribuzione di servizi offerti dai privati ma ritenuti rilevanti dal pubblico. Oggi, per esempio, il governo del territorio non è più la vecchia urbanistica, ma una congerie di discipline comprendenti urbanistica, edilizia, espropriazione, ma anche problematiche ambientali (es. bonifiche, vincoli idrogeologici) o di interesse culturale. L’attraversamento dei confini avviene dentro il diritto amministrativo, nei rapporti tra diritto costituzionale (che guarda verso il diritto sovranazionale) e il diritto amministrativo (che rende “attuali” i diritti riconosciuti nella Costituzione e nel diritto sovranazionale), nei rapporti tra diritto privato e diritto pubblico, il primo, per dirla con Cassese, che invade campi e strumenti del diritto amministrativo e quest’ultimo che si applica sempre più anche a soggetti privati. E avviene tra il diritto e altri rami della conoscenza e delle applicazioni di questa, in un intersecarsi di saperi imposto da una società complessa.

E le Corti sono inevitabilmente protagoniste di questa complessità, in un quadro sempre più generale, se non generico, di riferimento normativo, dovuto, da una parte, alla difficoltà dei legislatori di seguire con tempestività il mutarsi dei bisogni, delle esigenze e dei valori di una società in rapido mutamento, e dall’altra dalla domanda di tutela non sempre ancorata a specifiche previsioni legislative; con il conseguente dubbio per il giudice di trovarsi di fronte a una lacuna da colmare o a una positiva voluntas legis di non disciplinare un dato fenomeno o addirittura di non voler fornire riconoscimento e protezione giuridica a un determinato “interesse”.

E vengo ai temi trattati, inevitabilmente in modo schematico e riassuntivo.

 

2. Appalti

La problematica degli appalti e il tema delle opere pubbliche sospese dal Tar costituisce oramai una nota ricorrente del dibattito italiano. Un dibattito non sempre informato sul piano della politica. Come dimostra uno studio fatto dal nostro ufficio studi su dati della giustizia amministrativa, dell’Anac e della Consip, la percentuale delle aggiudicazioni impugnate è molto bassa, e ancor più quella delle opere sospese. Sicché i ritardi nell’esecuzione delle opere pubbliche sono probabilmente da ricercare altrove (es. nella fase della progettazione, in misura minore nelle gare nonostante il numero ancora smisurato delle stazioni appaltanti, nella fase di esecuzione dei contratti spesso per ragioni extragiuridiche, quali il fallimento delle aggiudicatarie).

Per restare al processo, il punto cruciale potrebbe essere costituito dai tempi: questi, però, sono ovviamente molto brevi per i giudizi cautelari e nel 2019 sono scesi al di sotto dell’anno per le sentenze definitive di merito in due gradi. Si può migliorare un po’, difficile scendere al di sotto, a meno, forse, di non ridurre il giudice amministrativo a giudice dei (soli) appalti.

Le criticità di ordine sostanziale sono state poste bene in luce da Lipari: per esempio con riferimento ai profili della trasparenza, su cui è intervenuto anche il DL 76. Mentre il controverso e complesso rapporto tra conclusione dei contratti e ricorsi giurisdizionali è stato analizzato da Andrea Manzi, anche in rapporto allo stand still. In un recente saggio[2] Guido Greco sostiene che non ci sia da scandalizzarsi se, una volta intervenuta la conclusione del contratto, il suo annullamento, ovviamente in caso di illegittimità dell’aggiudicazione, debba cedere il posto al risarcimento del danno: purché però la previsione sia limitata agli appalti di lavori (essendo meno problematico il subentro negli appalti di servizi e forniture), sia assicurata un’efficace tutela cautelare e sia rispettato un ragionevole termine di stand still. In realtà queste “condizioni” sono messe in crisi dal dl 76 (la prima in realtà non è nel nostro ordinamento positivo), che incide, nella legge di conversione meno che nel decreto legge, proprio su una tendenziale sovrapposizione tra giudizio cautelare e giudizio di merito (di dubbia realizzabilità come osservava Lipari) e a un accorciamento dello stand still. Soprattutto, però, con l’estensione dell’ art.125 comma 2, ai sensi del quale in fase cautelare occorre tener conto del preminente interesse nazionale all’esecuzione dell’opera (cosa che il giudice amministrativo ha in concreto sempre fatto senza però che la preminenza fosse “imposta” dalla legge) è chiaro che si mina la compatibilità comunitaria della limitazione della tutela definitiva al solo risarcimento, se la tutela cautelare perde in effettività perché non si fonda su una cognizione, semipiena sì, ma riferita sia al periculum sia al fumus della violazione del diritto europeo (Guido Greco, e in tal senso mi sembra si sia espresso anche Cintioli oggi).

Quanto ai tempi del processo, se i termini stretti per il deposito della sentenza può creare difficoltà al giudice (che specie in primo grado sarà tentato di “essenzializzare” la motivazione, che non è detto sia un danno in sé), è chiaro che l’originaria previsione della risoluzione del giudizio cautelare in quello di merito delineava un’opzione impossibile, salvo, come dicevo, a rendere il contenzioso amministrativo diverso dagli appalti del tutto residuale nella giustizia amministrativa. E avrebbe creato un serio problema di difesa anche per le parti, soprattutto l’amministrazione e il controinteressato.

 

3. Giurisdizione – Il prof. Volpe bene rileva le incongruenze insite nella genesi della giustizia amministrativa; due su tutte: la mancata abolizione della legge abolitiva del contenzioso amministrativo al momento della introduzione della doppia giurisdizione; le lacune del patto D’Amelio-Santi Romano cui comunque riconosce il merito di avere, bene o male, retto per decenni in maniera dignitosa. Del resto conosciamo le ragioni storiche della reintroduzione della giurisdizione amministrativa senza che venisse intaccato, in apparenza, l’ambito oggettivo della giurisdizione ordinaria di cui alla legge del 1865; ciò in quanto la legge del 1889 si poneva in una dichiarata ottica di completamento della tutela offerta dalla legge 1865 (cosa vera forse dal punto di vista pratico e storico, perché in effetti fu offerta tutela a situazioni soggettive che non ricevevano tutela dal giudice ordinario, ma -va riconosciuto- dal punto di vista concettuale gli impianti delle due leggi non erano compatibili).

Condivido pure le forti perplessità, sottolineate anche dal presidente Rordorf, rispetto a una estensione della giurisdizione esclusiva, eccessiva non solo rispetto al tradizionale parametro dell’intreccio tra diritti e interessi, ma anche rispetto all’esercizio di una funzione pubblica, o, per dirla diversamente, all’agire della pubblica amministrazione in veste di autorità.

Ho perplessità invece, se ho ben compreso quanto dice il prof. Volpe, sul fatto che il sindacato giurisdizionale si sia spostato da un sindacato per vizi di legittimità a un sindacato per clausole generali di marca civilistica, quale è quello sulla buona fede. Perplesso in primo luogo perché il sindacato per eccesso di potere è un sindacato sostanzialmente condotto per clausole generali o per princìpi (so che sono due cose distinte, la cui distinzione non sempre è agevole), quanto meno in relazione ad alcune delle fattispecie sintomatiche, alcune delle quali hanno trovato una più moderna declinazione nei princìpi (o clausole, o test) di ragionevolezza, proporzionalità e, per l’appunto, buona fede e affidamento. Ciò è probabilmente dovuto anche all’osmosi, favorita dalla giurisprudenza europea e dal metodo della triangolazione, tra famiglie del diritto e quindi, per quanto ci riguarda, all’influsso del diritto comune di marca anglosassone. Ma che questa sia una delle caratteristiche del Judicial review dipende a mio avviso anche dalla struttura delle norme sostanziali di diritto amministrativo, che spesso costituiscono modelli normativi “aperti” (con la conseguente tensione di tale modello con una visione classica del principio di tipicità e, a monte, dello stesso principio di legalità). Per altro verso, vorrei poi rimarcare il ruolo che una moderna declinazione di altre fattispecie sintomatiche dell’eccesso di potere (travisamento del fatto e difetto di istruttoria) possono svolgere per assicurare al processo amministrativo una giurisdizione “piena”, attraverso l’accesso diretto del giudice al fatto e al materiale probatorio.

Ma due aspetti critici sono il criterio di riparto e la questione di giurisdizione, come è stato evidenziato da più relatori: nella stessa relazione introduttiva, dai presidenti Rordorf e Filippi. In parte alcune ricorrenti questioni derivano dall’uso di categorie già inappropriate all’origine e che si rivelano oggi ancor più inadeguate: mi riferisco alla distinzione tra attività vincolata e discrezionale o a quella tra carenza (magari in astratto o in concreto) e cattivo uso del potere, che talvolta continuano a comparire in sentenze del giudice ordinario come di quello amministrativo (e non nego che queste distinzioni possano costituire un parametro argomentativo di riferimento, ma un criterio di identificazione delle situazioni soggettive direi di no). In realtà, esclusa ogni possibilità di fondare un criterio di riparto sulla materia o sulla presenza di un’amministrazione nella controversia (come invece avviene sostanzialmente in Francia o in Germania), il criterio di fondo, alla luce della sentenza n. 204 del 2004, è costituito dal trovarsi la situazione soggettiva del privato di fronte dell’esercizio di un potere pubblico in senso stretto, nell’ambito di un rapporto caratterizzato, come direbbe Scoca, dalla compresenza di due situazioni soggettive entrambe attive, il potere dell’amministrazione procedente e quello che chiamiamo interesse legittimo (cioè l’interesse giuridicamente protetto a fronte dell’esercizio di un potere pubblico) che si contrappongono l’un l’altra. Siamo molto lontani dallo schema della degradazione e anche da quello delle situazioni legittimanti “dietro” la posizione dell’interesse legittimo, secondo la sistematica di Pietro Virga.

È chiaro che se non ci si libera da certe categorie continueremo ad avere pronunce contrastanti tra giurisdizioni e anche all’interno della stessa. Penso a una recente pronuncia della Corte di cassazione in materia di revisione prezzi che si richiama alla distinzione tra attività vincolata e discrezionale. O a una recente pronuncia della Terza sezione che attribuisce, ritengo correttamente, la giurisdizione sul diniego di cure all’estero al giudice amministrativo, a prescindere dal carattere vincolato o discrezionale della relativa attività, non senza aver fatto giustizia della teoria della incomprimibilità dei diritti fondamentali, cui per la verità aveva già pensato la Corte costituzionale. Del resto, oltre a non aver alcun appiglio teorico, la teoria della non degradabilità si scontrava sulla difficoltà storica e pratica di definire un diritto fondamentale (un catalogo aperto, come è stato osservato), ma soprattutto con la realtà delle cose, che semmai suggerisce un concorso di giurisdizioni nelle ipotesi in cui ci sia un concorso di azioni previsto dalle norme: penso alla localizzazione di una industria pericolosa, contro cui è sicuramente proponibile un’impugnazione dinanzi al giudice amministrativo dell’atto di localizzazione (pur) facendo valere la lesione del diritto alla salute e alla tutela dalle immissioni che potrebbe essere fatta valere dinanzi al giudice ordinario.

Altro punto critico del riparto è quello del risarcimento del danno, la cui cognizione da parte del giudice amministrativo si è oltremodo estesa per il combinato disposto della risarcibilità dell’interesse legittimo e della giurisprudenza costituzionale, non tanto in tema di giurisdizione esclusiva, ma anche in sede di giurisdizione generale di legittimità. Esempio di questa criticità è proprio la questione, trattata da Volpe e Filippi, sulla lesione dell’affidamento. Io, fin dal 2011, propendo per la tesi di Maddalena Filippi della giurisdizione amministrativa. Ma il punto non è questo. Io credo che qui il problema sia originato da una diversità di approccio “culturale”. Volpe dice che vi sarebbe una lesione del principio di tipicità della giurisdizione sui diritti “se è vero che in tali casi l’oggetto dell’accertamento giudiziale sarebbe il diritto di credito al risarcimento del danno e che la lesione dell’interesse esprimerebbe, rispetto al primo, solo una questione pregiudiziale, valutata in sede incidentale”. Il ragionamento, per la verità, potrebbe essere capovolto: a seguire la tesi si avrebbe un accertamento diretto, sia pure con effetti incidenter tantum, sulla legittimità dell’atto amministrativo attraverso la cognizione sul diritto al risarcimento del danno, con una sorta di disapplicazione (che Sandulli ebbe a criticare nel suo Manuale) del provvedimento. Ma non è questo il punto. In realtà, parlavo di diverso approccio culturale perché il risarcimento del danno, nell’ottica del giudice ordinario e dello stesso sistema civilistico, è un vero e proprio diritto (di credito, lo definisce Volpe, e condivido, anche se la posizione della dottrina civilistica in materia di illecito è più articolata), in qualche misura autonomo dalla situazione sottostante (una volta che di questa si riconosca la protezione giuridica dall’ordinamento). Nell’ottica del giudice amministrativo, in questo sostenuto dalla Corte Costituzionale e da quella parte della dottrina civilistica maggiormente propensa a una teoria dell’illecito in un’ottica rimediale (Di Majo), il risarcimento è adoperato essenzialmente come un rimedio all’impossibilità o alla eccessiva difficoltà di tutela in forma specifica, tanto che tutti conosciamo le difficoltà con cui, in teoria prima del codice e in pratica anche dopo, è riconosciuta dal giudice amministrativo l’azione risarcitoria autonoma. D’altra parte, non può negarsi che la responsabilità delle pubbliche amministrazioni nell’esercizio del potere, anche quando ne sia affermata la natura analoga a quella civilistica, è marcatamente oggettiva, pure per l’influsso del diritto europeo, ben oltre anche una visione oggettiva della colpa nei termini propugnati, per esempio, da Trimarchi. Ed effettivamente somiglia non poco a un indennizzo, anche quanto ai criteri concreti di liquidazione. Su ciò potrebbe avviarsi una riflessione de iure condendo.

Una cosa finale va detta per quanto riguarda il rischio, paventato giustamente da Rordorf, di una nomofilachia diversa per figure giuridiche sostanzialmente analoghe (per esempio proprio la materia risarcitoria). Questo è vero, anche se nella pratica i due giudici sono abbastanza attenti a evitarlo, a cominciare dallo stesso Consiglio di Stato che guarda attentamente alla giurisprudenza della Corte di cassazione in tema ordinariamente di diritti.

Però qui una precisazione va fatta con una certa nettezza: la nomofilachia appartiene all’organo posto al vertice della giurisdizione; quindi, in un sistema plurale di giurisdizioni, all’organo posto al vertice di quella giurisdizione. Mortara ebbe a scrivere: “Se la corte di cassazione è l’organo supremo della giurisdizione ordinaria, non è forse stato detto che la quarta sezione del consiglio di Stato è la corte di cassazione fra le giurisdizioni amministrative?”[3]. Correva l’anno 1897. Ma c’è una ragione di ordine logico e una, più recente, di ordine positivo. La prima: se la nomofilachia mira ad assicurare l’uniforme applicazione della legge in una data materia, che senso avrebbe affidare tale funzione all’organo posto al vertice di una giurisdizione che non ha giurisdizione su quella materia, e che quindi non è chiamata ad applicare quella legge? Dal punto di vista positivo: la funzione nomofilattica affidata ai tre organi di vertice delle relative giurisdizioni è sancita positivamente dai codici di rito (civile, amministrativo e contabile) che affidano tale funzione alle rispettive Corti in una data composizione. Del resto credo che in nessun ordinamento plurale la funzione nomofilattica sia attribuita a un organo appartenente alla diversa giurisdizione.

Noi abbiamo però un’altra norma, che potrebbe sostenere il nostro ragionamento: l’articolo 111 della Costituzione, che attribuisce il sindacato sulle sentenze del Consiglio di Stato alla Corte di cassazione per i “soli motivi inerenti alla giurisdizione” (il corsivo è mio e lo sottolineo perché in genere l’attributo non compare in gran parte del dibattito). Quindi non anche per motivi inerenti all’errata interpretazione o applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale. Conseguenza ovvia, sulla base della semplice lettura della norma costituzionale, ma di recente messa in dubbio anche da autorevole dottrina che sembrerebbe ritenere compatibile con l’art.111 una interpretazione che, nel vietare di equiparare il Consiglio di Stato a una Corte di appello quanto a mezzi di impugnazione, consenta la ricorribilità delle sentenze del Consiglio di Stato per alcuni dei motivi previsti dal codice di procedura civile purché non per tutti. E in particolare per quegli errori in iudicando o in procedendo che “ineriscano alla giurisdizione”[4]. Non mi soffermo.

Noi scontiamo una carenza storica: la mancanza di un Tribunale dei conflitti (come in Francia, a composizione paritetica e con turnazione della presidenza) o un criterio di riparto netto fondato sulla presenza in giudizio dell’amministrazione (come sostanzialmente in Germania, il che consente di risolvere i rari conflitti con una telefonata, o poco più, dei presidenti delle rispettive Corti supreme). Ma conosciamo le ragioni della devoluzione alla Corte di cassazione, nel 1877, dei conflitti e poi, in Costituzione, anche del riparto: nel 1877 non esisteva il giudice amministrativo come tale e i conflitti riguardavano essenzialmente giudice e amministrazione; e questa tradizione viene mantenuta in Costituzione che configura Consiglio di Stato e Corte dei conti, sul piano formale, come giudici “speciali”. E non mi sembra il momento di mettere in discussione questo assetto che può ben funzionare, come, con qualche alto e basso, ha ben funzionato.

Ma occupiamoci di una criticità seria e vera: la nozione di giurisdizione ai sensi dell’articolo 111. Qui il percorso giurisprudenziale è stato ben delineato da Renato Rordorf, che ha anche sottolineato come nella pratica, al di fuori delle problematiche del riparto, l’ammissibilità del rimedio sotto il profilo dell’eccesso o del diniego di giurisdizione sia stato assai limitato. L’intervento della Corte costituzionale, con la sentenza n.6 del 2018, ha riportato la giurisdizione della Corte di cassazione sostanzialmente alla sola materia del riparto. Il confine tra eccesso o diniego di potere giurisdizionale rispetto alla errata interpretazione o applicazione di diritto è in effetti molto sfumato. Soprattutto è incerta l’individuazione del diniego di giurisdizione che dovrebbe risolversi nella (sola) ipotesi in cui il giudice amministrativo erroneamente sostenga che in astratto una data situazione soggettiva non riceva tutela nell’ordinamento e non anche in tutte quelle ipotesi in cui la tutela sia negata per ragioni di ordine processuale o per ragioni di merito. Nell’ipotesi “abnorme” io arriverei anche a comprendere una tesi che sostenga la ricorribilità per cassazione, ma sono ipotesi, come si evince dalla stessa giurisprudenza della Corte, “estreme”. La Corte costituzionale è stata molto più tranchant negando in assoluto la riconducibilità del diniego o dell’eccesso di giurisdizione (ovviamente non ci riferiamo allo sconfinamento nell’attività legislativa o nel merito amministrativo, che pone altre problematiche) ai motivi inerenti alla giurisdizione. E la Corte di cassazione da circa due anni si è adeguata a questa interpretazione della norma costituzionale, che, tutto sommato, è stata fornita dalla Corte costituzionale.

Se non che, con la nota ordinanza 18 settembre 2020 n. 19598 delle Sezioni unite, tutto è stato rimesso in discussione (cosa lecita), per di più dinanzi alla Corte di giustizia UE. E a tale riguardo, prescindendo dal merito della questione, ciò che colpisce dell’ordinanza di rinvio pregiudiziale –come osserva, tra gli altri, Beniamino Caravita[5]– è la rimessione a una corte sovranazionale di una questione concernente, tutto in una volta, una norma costituzionale, una sentenza della Corte costituzionale e l’assetto costituzionale e stratificatosi nel tempo della giurisdizione nella nostra Carta. Dubito, con Caravita, che ciò sia mai avvenuto e mai pensavo potesse accadere. Tralascio la complessità, che talvolta si riduce a singolarità, di certe argomentazioni –e per la verità anche il tono- della sentenza; così come il caso sottoposto denota l’incertezza dei confini tra diniego di giurisdizione e insussistenza dei presupposti processuali e delle condizioni dell’azione (nella nota fattispecie del ricorso incidentale escludente in cui oramai l’Adunanza plenaria si è definitivamente adeguata alla Corte di giustizia). Ma queste brevi notazioni mi sentirei di farle:

  1. Qual è il principio di diritto europeo che, in contrasto anche col principio dell’autonomia procedurale, impone un mezzo di impugnazione e tre gradi di giudizio a un ordinamento statale, prima di far scattare, in caso di violazione del diritto europeo, il principio di responsabilità dello Stato;
  2. Perché, pur in tale ottica, la Corte di cassazione è l’organo che meglio assicura la corretta interpretazione a livello nazionale del diritto europeo pur in materie che non rientrano nella propria giurisdizione;
  3. Se la Corte di giustizia affermasse tali princìpi, aprendo un conflitto diretto con la Corte costituzionale e indiretto con la Corte di vertice della giurisdizione amministrativa, come potrebbe negarsi che, applicando, questa volta correttamente, il principio di equivalenza, analoga protezione avverso gli errori di diritto non debba essere estesa anche alle situazioni non di derivazione comunitaria.

È quest’ultima la tesi sostenuta dagli autorevoli processualcivilisti nel saggio a sei mani sopra richiamato; e sorge il dubbio che sia questo il retropensiero dell’ordinanza della Corte di cassazione. Ma una tale conclusione oggettivamente sovvertirebbe l’assetto costituzionale “per via giudiziaria”.

Né varrebbe la soluzione, prospettata de Constitutione condenda, della giurisdizione unica, su cui non è certo il caso di soffermarsi. Una simile riforma apparirebbe fuori contesto temporale nel panorama europeo, in cui numerosi sono i modelli di doppia giurisdizione anche se non sempre secondo il modello francese (dal quale oramai di scosta significativamente anche il nostro) e comunque non mi sembra il problema più importante del nostro ordinamento giudiziario, almeno se non lo si guardi in un’ottica ideologica bensì di funzionalità del servizio.

Ma, in realtà, non è la doppia giurisdizione in sé che crea il problema, ma piuttosto, come si è accennato, il criterio di riparto (molto più complicato di quello per esempio adottato in Germania) e l’assenza di un tribunale dei conflitti, come in Francia. Per converso, le questioni di competenza tra Sezione per le controversie amministrative e Sezioni per le altre controversie della Corte suprema spagnola dimostrano che anche in un sistema formalmente di giurisdizione unica problemi possono insorgere.

 

4. Chi mi conosce, e mi rivolgo soprattutto al presidente Rordorf, con il quale ho avuto in passato l’onore, insieme con altri colleghi ordinari e amministrativi, di coltivare spazi di convergenza e leale cooperazione tra giurisdizioni, sa che, forse anche per carattere, sono persona che pensa che tutto possa risolversi col dialogo e col confronto anche dialettico, purché nel rispetto delle posizioni. Però, che in un momento di positivo “attraversamento dei confini” da parte delle Corti, di un dialogo “competititivo” ma proficuo tra Corti nazionali e Corti sovranazionali, di un dialogo orizzontale tra Corti dei vari Stati nel segno della convergenza e della pienezza delle tutele, mi sembra frutto di provincialismo giudiziario e di una logica autoreferenziale che insorga una forma di “attraversamento dei confini” con le sembianze di uno “sconfinamento”, una sorta di trespassing, più simile a una sorta di Jurisdiction Grabbing, parafrasando il fenomeno del Land Grabbing (cioè l’accaparramento di terre da parte delle multinazionali dell’agribusiness), cioè di accaparramento di giurisdizione svolto nell’ottica di rivendicazione di poteri tra Corti anzi che di messa a disposizione dei cittadini, e non solo, di un sistema pieno, integrato e soprattutto armonico di tutele. Che è invece ciò di cui avremmo bisogno.

Il luogo di questo dialogo sono incontri come questo, sono gli scritti della dottrina, sono gli Uffici studi delle rispettive Corti, sono le sentenze. Sentenze che siano il frutto della capacità dei magistrati di cogliere il fatto e il diritto dei casi loro sottoposti, che sono prima di tutto vicende di vita, e di “ascoltare” gli avvocati con il metodo del confronto dialettico. E capacità degli avvocati non semplicemente di “vincere la causa”, che è ovviamente cosa comprensibile e conforme alla deontologia, ma di sentirsi parte attiva di un sistema di tutele di cui nessuno può ritenersi detentore assoluto né sufficiente.

Il luogo principe delle tutele è il processo. E segnatamente l’udienza. In questi tempi emergenziali abbiamo sperimentato grazie all’innovazione digitale, il processo da remoto, prima nella forma opinabile del contraddittorio cartolare coatto, poi con la partecipazione dei difensori da remoto. Non mi convinceva il contraddittorio cartolare coatto, cioè la decisione sulla base degli scritti –pur presente in via ordinaria in altri processi, presso Corti nazionali e non; non mi convince la partecipazione all’udienza indifferentemente in presenza o da remoto di giudici o avvocati, comodamente “seduti sul divano di casa”, come ho letto di recente nell’intervento di un avvocato sulla stampa. Il confronto con lo schermo del computer può essere una necessità nel bilanciamento per far andare avanti la giustizia in periodo emergenziale, e in questo il processo da remoto ha dato buona prova di sé; e forse può tornare utile in periodo ordinario per attività “collaterali” al processo (es.giuramento del c.t.u.). L’udienza non è una pratica amministrativa da sbrigare, come chiedere on line gli estremi catastali di un edificio o iscriversi all’Asl. Discutere o non discutere una causa non può discendere dalla maggiore o minore comodità. Recarsi o non recarsi in udienza non può equivalere a vedersi o meno al bar: né per gli avvocati tra loro che devono confrontarsi, né per i giudici che a lungo andare nemmeno si conoscerebbero tra loro. Resto convinto che il processo è il processo in presenza; è il momento di condivisione tra giudici e avvocati; e la condivisione crea l’aggregazione, l’in idem sentire tra gli attori del processo. Il processo virtuale in via ordinaria sarebbe un non-processo. E non vi sarebbe ragione di tenere aperti i tribunali, se non, forse, in qualche appartamento di pochi metri quadrati, dove allocare le macchine e qualche tecnico della manutenzione. Fino a che anche questa non possa essere completamente assicurata da remoto.

Filippo Patroni Griffi

 

[1] M.R. Ferrarese, I confini e la voglia di attraversarli, in Attraversare i confini del diritto, a cura di L.Torchia, Bologna 2016, 55 ss.

[2] G.Greco, Coronavirus e appalti (A proposito dell’art.125 c.p.a.), in Riv.It.Dir.Pubbl.Comunit. 2020, 517 ss.

[3] Ancora sui limiti rispettivi delle attribuzioni dell’autorità giudiziaria e della autorità amministrativa, in Giur.it. 1897, I, 1, 1034

[4] G.Costantino, A.Carratta, G.Ruffini, Limiti esterni e giurisdizione: il contrasto fra Sezioni unite e Corte costituzionale arriva alla Corte UE, in www.questionegiustizia.it . Gli Autori precisano che il rapporto tra il settimo e l’ottavo comma dell’articolo 111 va risolto nel senso che il ricorso contro le sentenze del Consiglio di Stato sarebbe escluso non per tutti gli errores in iudicando o in procedendo ma solo per quegli errori “che non ineriscano alla giurisdizione”. Per cui sarebbe addirittura “evidente (sic!) che, per la parte in cui detti motivi siano sovrapponibili, i due tipi di ricorso possano in qualche modo essere assimilati” (il corsivo è nostro). Il “rasoio di Occam” non sempre trova adeguata fortuna.

[5] In Federalismi

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