Sommario: 1. Introduzione; 2. L’accesso alla proprietà fondiaria e il riordino fondiario nella Costituzione; 3. Gli strumenti del riordino fondiario; 4. Sulle competenze regionali in materia di ricomposizione fondiaria: il limite dell’ordinamento civile; 5. L’esperienza della ricomposizione nella Provincia Autonoma di Bolzano; 6. Gli assetti fondiari collettivi

 

1. Introduzione

L’eccessiva frammentarietà e polverizzazione della proprietà fondiaria rendono assai difficoltoso l’esercizio dell’attività agricola. Ciò si verifica soprattutto nelle aree montane ove la scarsa reddittività dei suoli rende ancora più problematica la messa in atto di politiche tese all’accorpamento di terre che possano costituire la base di aziende agricole competitive.

Non è possibile porre freno all’abbandono dell’agricoltura, anche nelle zone di Italia più fragili a causa del dissesto idrogeologico, senza aver prima trovato una soluzione allo spezzettamento della proprietà che la divisione in natura, principio fondamentale dell’ordinamento giuridico in materia di successione, ha portato quale propria ineludibile conseguenza.

Se le cause della frammentazione e della polverizzazione della proprietà sono già state individuate da tempo dai giuristi e dagli economisti, non altrettanto può dirsi dei possibili rimedi che potrebbero essere assunti per arginare il fenomeno.

E’ noto, infatti, come istituti quali la prelazione agraria (art. 8 l. 26 maggio 1965 n. 590, art. 7 l. 14 agosto 1971 n. 817), l’opzione coattiva di cui all’art. 4 della l. 31 gennaio 1994, n. 97, l’istituzione del compendo unico[1], rinvengano la propria ratio nell’esigenza di favorire l’acquisto di nuove terre in capo all’imprenditore agricolo consentendo così l’espansione delle aziende agricole. La disciplina dei vari istituti è stata analizzata nel dettaglio[2], pur essendo chiaro che essi non possano considerarsi misure definitive e stabili.

Anche l’istituto della ricomposizione non può ritenersi un rimedio risolutivo. Lo stesso termine, composto dal suffisso “ri” e dal verbo “comporre”, allude ad un processo in cui alla costituzione di unità produttive di dimensioni efficienti subentra una successiva fase di smembramento, che richiederà un successivo ed ulteriore sforzo di composizione.  Si tratta di un processo circolare, senza soluzione di continuità, fin tanto che nel nostro ordinamento verrà privilegiata la divisione in natura dei beni in comunione ereditaria.

 

2. L’accesso alla proprietà fondiaria e il riordino fondiario nella Costituzione

Il tema dei limiti e della funzionalizzazione della proprietà fondiaria è stato affrontato dall’assemblea costituente e disciplinato nel titolo III, relativo ai rapporti economici, della parte prima, di seguito all’art. 42 che fissa i principi generali del diritto di proprietà[3]. L’art. 44 della Costituzione lega indissolubilmente il riconoscimento del diritto soggettivo della proprietà fondiaria all’obbligo del razionale sfruttamento della terra, sancendo così l’obbligo positivo di coltivare il fondo ed indirizzando il comportamento del proprietario verso fini socialmente utili[4]. Nell’ordinamento costituzionale viene, infatti, chiaramente stabilito che per i caratteri intrinseci, naturali, del bene terra, questa debba essere oggetto di attività di produzione, in quanto interesse della collettività nazionale intera.

Il diritto di proprietà è così messo a contatto con l’impresa e, proprio per lo stretto legame tra proprietà della terra e produzione, la ricostituzione delle unità produttive efficienti è diventato uno degli obiettivi principali che il Costituente ha voluto includere all’interno dell’art. 44 Cost..

L’articolo 44 indica, quindi, i principi programmatici in agricoltura e determina le linee essenziali dell’azione pubblica nel settore primario richiedendo al legislatore di promuovere ed imporre “la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive”, al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e l’instaurazione di equi rapporti sociali, le due principali finalità a cui la disciplina della proprietà fondiaria deve tendere.

In tale quadro costituzionale, che si è qui solo potuto tratteggiare nelle sue linee principali, si collocano gli interventi legislativi di riordino fondiario.

L’importanza di procedere alla ricostituzione delle unità produttive venne, tuttavia, già avvertita dal legislatore prima della promulgazione della Costituzione Italiana. Con il r.d. n. 215 del 13 febbraio 1933, convertito dalla l. n. 232 del 1933, infatti, fu introdotta una disciplina specifica per la bonifica dei terreni. Poco dopo anche il codice civile recepì i principi fondamentali della bonifica integrale inserendoli nella sezione III (articoli da 857 a 865) del capo II, sezione II del libro terzo, mentre la sezione III venne dedicata specificatamente alla bonifica integrale stessa.

Nell’immediato dopoguerra tra le principali direttive su cui trovò fondamento la riforma agraria si segnalano proprio la formazione e il potenziamento della piccola proprietà contadina e l’imposizione di un limite di estensione della proprietà privata, con l’assegnazione delle terre eccedenti tale limite ai coltivatori manuali della terra[5].

Tuttavia, mentre vi fu un riconoscimento concorde nella necessità di fissare un limite massimo alla proprietà fondiaria, non venne immediatamente affrontato il problema dell’individuazione di un limite minimo. Ciò a causa dell’eccesso demografico presente nel settore agricolo.

Nemmeno l’esodo dalla campagna, compiutosi tra gli anni Sessanta e Settanta, ha consentito di risolvere il diffuso disordine fondiario presente in Italia. I lavoratori emigrati, nell’incertezza della loro nuova condizione, non sono riusciti a disfarsi della proprietà dei terreni situati nei loro paesi d’origine. I modesti ricavi ritraibili dalla vendita dei terreni hanno contribuito a rendere poco interessante le alienazioni di terre destinate all’attività agricola[6].

In assenza di interventi incisivi in materia di riordino fondiario non è stato posto così alcun freno alla polverizzazione della proprietà, fenomeno attraverso il quale le dimensioni delle strutture agrarie si assottigliano a tal punto che il fondo non è più convenientemente utilizzabile, e alla frammentazione dei fondi rustici che determina la suddivisione delle strutture agrarie in varie porzioni, distanti tra loro.

La terra costituisce, tuttavia, ancora per molte aziende agricole un fattore della produzione essenziale, sicché le ridotte dimensioni delle strutture fondiarie attualmente esistenti in Italia rendono ancora di attualità la ricerca di una soluzione al persistente disordine fondiario.

I dati relativi alle attuali aziende agricole presenti in Italia confermano l’esiguità delle dimensioni delle strutture fondiarie. Nel 2016 la superficie media delle aziende agricole italiane ha raggiunto gli 11 ettari, in aumento rispetto alla superficie media rilevata nel 2013 consistente in 8 ettari[7].  In media la superficie agricola di proprietà risulta pari a circa soli 6 ettari (54,70 %), mentre la restante superficie è detenuta ad altro titolo (per lo più tramite affitto o comodato gratuito)[8].

E’ chiaro che in assenza di strumenti che possano garantire all’agricoltore la disponibilità di strutture agrarie di dimensioni sufficienti per trarre un reddito adeguato per sé e per la propria famiglia, il fenomeno dell’abbandono e del conseguente dissesto idrogeologico, soprattutto sui territori più fragili come quelli montani, è destinato ad aumentare[9].

Sotto questo punto di vista il legame tra agricoltura e tutela dell’ambiente appare strettissimo, come percepito dalla stessa dottrina agraristica che dagli anni Novanta ha abbandonato una lettura della norma legata alle necessità di massimizzazione della produzione, incominciando a leggere il “razionale sfruttamento del suolo” a cui, secondo la disposizione costituzionale, doveva indirizzarsi l’attività agricola, non in senso puramente produttivistico, bensì come sostenibilità dei modi di coltivazione[10]. Non solo, quindi, l’ordinamento deve garantire che l’esercizio dell’agricoltura, per essere “razionale” come richiesto dal costituente, sia diretto a conservare per le generazioni future le risorse naturali, ma deve apprestare tutti gli strumenti necessari affinché permanga sul territorio l’esercizio dell’agricoltura, poiché senza di essi non può essere posto alcun argine al degrado.

 

3. Gli strumenti del riordino fondiario

L’attuale sistema di misure di riordino fondiario si compone di un variegato insieme di norme, contenute nel codice civile o in sparse leggi speciali, rispetto alle quali non è semplice cogliere il filo conduttore.

Per chiarezza espositiva occorre precisare che per riordino fondiario si intendono tutte quelle misure legislative finalizzate ad una migliore “sistemazione” dei terreni agricoli[11], distinti in rimedi preventivi, diretti ad impedire il frazionamento dei fondi, e in rimedi successivi che mirano ad accorpare fondi polverizzati o frammentati. Per ricomposizione fondiaria si intende, invece, quel rimedio successivo che si attua attraverso operazioni finalizzate al riassetto delle proprietà frammentate attraverso l’accorpamento delle disperse particelle appartenenti allo stesso proprietario così da formare una unità fondiaria coltivabile in maniera economicamente conveniente.

Tra i rimedi preventivi, poco prima dell’entrata in vigore del codice civile del 1942, la legge del 3 giugno 1940, n. 1078[12], anticipando l’istituto della minima unità colturale, ha assoggettato le unità poderali, costituite in comprensori di bonifica e assegnate in proprietà a contadini diretti coltivatori, ad un vincolo perpetuo di indivisibilità che impediva il loro frazionamento per effetto di trasferimenti a causa di morte o per atti tra vivi. La legge 29 maggio 1965 n. 379 ha esteso il divieto di frazionamento previsto dalla legge n. 1078 del 1940 anche alle terre di riforma fondiaria riscattate ai sensi della predetta legge n. 379 del 1965, mentre la legge del 19 febbraio 1992 n. 191 ha limitato il divieto di frazionamento, costituente un vincolo con durata tendenzialmente perpetua, a soli trent’anni[13].

Il codice civile ha recepito il rimedio preventivo della l. n. 1078/1940 sancendo, all’art. 846 c.c., il divieto di procedere a frazionamenti di fondi al di sotto della minima unità colturale, intesa quale superficie di terreno d’estensione necessaria e sufficiente per il lavoro di una famiglia agricola o, se il terreno non era appoderato, d’estensione occorrente per esercitarvi una conveniente coltivazione secondo le tecniche della buona tecnica agraria. La norma non ha trovato applicazione, in quanto l’art. 847 c.c. ha demandato ad una autorità amministrativa che non è mai stata identificata il compito di individuare la superficie secondo le regole sopraindicate, sicché l’intero apparato predisposto dal codice civile sul riordinamento della proprietà rurale è rimasto pressoché inapplicato.

Gli articoli del codice civile sulla minima unità coltivatrice sono stati abrogati dall’art. 5 bis, comma 10, del decreto legislativo 29 marzo 2004, n. 99. Il legislatore ha voluto sopperire alla mancata attuazione degli articoli 846-848 c.c. introducendo l’istituto del compendio unico con l’art. 52 della legge 28 dicembre 2001, n. 448[14].

Il decreto legislativo n. 99 del 2004 ha successivamente esteso l’istituto a tutta la penisola prevedendo che il compendio unico possa essere costituito con dichiarazione di colui che è proprietario dei terreni. Detti terreni, per volontà di quest’ultimo, vengono a far parte del compendio che diventa così unico ed indivisibile per dieci anni, con l’impegno del costituire a coltivare o a condurre i terreni ivi inclusi per almeno dieci anni (art. 5 bis, comma 2, d,lgs n. 99/2004)[15]. I vantaggi conseguenti alla costituzione del compendio unico sono preminentemente di natura fiscale e consistono nell’esenzione dalle imposte di registro, ipotecaria, catastale, di bollo e di ogni altro genere. Gli onorari notarili per gli atti di trasferimento a qualsiasi titolo di terreni agricoli a coloro che si impegnino a costituire un compendio unico sono ridotti ad un sesto.

Sempre all’interno del codice civile si rinviene l’altro rimedio preventivo previsto dall’art. 720 del c.c.. Tale norma prescrive che gli immobili compresi nell’eredità non comodamente divisibili o il cui frazionamento rischia di recare pregiudizio alle ragioni della pubblica economia o dell’igiene, debbano essere preferibilmente compresi per intero nella porzione di quello tra gli eredi avente diritto alla quota maggiore, o anche nelle porzioni di più coeredi qualora quest’ultimi ne chiedano l’assegnazione congiunta. L’art. 720 c.c. non è stato, tuttavia, applicato al fondo rustico inteso nella sua espressione di azienda agraria[16].  Secondo la giurisprudenza, infatti, il concetto di comoda divisibilità di un immobile presupposto dal citato art. 720 c.c. postula, sotto l’aspetto strutturale, che il frazionamento del bene sia attuabile mediante determinazione di quote concrete suscettibili di autonomo e libero godimento, che possano formarsi senza dover fronteggiare problemi tecnici eccessivamente costosi e, sotto l’aspetto economico – funzionale, che la divisione non incida sull’originaria destinazione del bene e non comporti un sensibile deprezzamento del valore delle singole quote rapportate proporzionalmente al valore dell’intero, tenuto conto dell’usuale destinazione e della pregressa utilizzazione del bene stesso[17]. Sotto questo profilo qualsiasi fondo rustico sarebbe, pertanto, astrattamente sempre divisibile.

Tra i rimedi preventivi è incluso anche l’art. 230 bis del codice civile che riconosce ai partecipanti dell’impresa famigliare il diritto di prelazione sull’azienda, in caso di divisione ereditaria. Tale istituto si configura quale diritto all’acquisto coattivo delle quote riconosciuto in capo ai partecipanti dell’impresa familiare ed esperibile nei confronti degli eredi non compartecipi. Analogamente gli artt. 4 e 5 della l. 31 gennaio 1994, n. 97 stabiliscono il diritto potestativo dell’erede, considerato affittuario, ai sensi dell’art. 49 della legge 3 maggio 1982, n. 203, delle porzioni di fondi rustici ricomprese nelle quote degli altri coeredi, di acquistare, alla scadenza del rapporto di affitto instaurato per legge, la proprietà di tali porzioni, unitamente alle scorte, alle pertinenze ed agli annessi rustici[18].

L’art. 8, co. 3, della legge 26 maggio 1960 n. 590 ha, infine, previsto il diritto di prelazione in capo al componente della famiglia coltivatrice in presenza di un atto di trasferimento a titolo oneroso da parte di un altro componente.

Tra i rimedi successivi sono compresi, invece, gli interventi di ricomposizione fondiaria, su cui ci si soffermerà più diffusamente infra, e la ricostituzione coattiva delle unità colturali prevista dall’art. 851 c.c., attraverso la quale è possibile procedere coattivamente ad espropri, trasferimenti, rettificazioni di confini e arrotondamenti al fine della migliore sistemazione delle unità fondiarie[19].

 

4. Sulle competenze regionali in materia di ricomposizione fondiaria: il limite dell’ordinamento civile

L’articolazione della Repubblica nei vari ordinamenti regionali ha consentito di rivedere nella ricomposizione fondiaria uno strumento capace di dare ai fondi rustici dimensioni più razionali, adattandoli ai vari e differenti contesti locali presenti sulla penisola italiana.

Si è accennato come il riordino della proprietà fondiaria, disegnato dal codice civile, ruotasse attorno alla nozione di minima unità colturale (m.u.c.), intesa quale estensione di terreno necessaria e sufficiente per il lavoro di una famiglia agricola se si trattava di terreno appoderato o, se altrimenti, per esercitarvi una conveniente coltivazione secondo le regole della buona tecnica agricola (art. 846).

La ricostituzione coattiva di unità colturali non inferiori alla minima unità colturale sarebbe dovuta avvenire attraverso l’ingrossazione, che consente al proprietario di terreni che intercludono appezzamenti inferiori alla m.u.c. di chiederne a proprio favore il trasferimento della proprietà (art. 849 c.c.), e la costituzione, anche autoritativa, di un consorzio tra i vari proprietari affinché si possa procedere alla formazione di un piano di riordino (art. 851 c.c.).

La mancata individuazione in concreto della estensione minima della unità colturale, lasciata alla determinazione dell’autorità amministrativa, ha comportato che le norme del codice civile rimanessero inattuate.

In assenza di un preciso riferimento all’autorità amministrativa competente in merito, la dottrina civilistica ed agraristica aveva riconosciuto alle Regioni la competenza ed il potere di completare la disciplina sulla m.u.c.[20]. Gli ordinamenti regionali, tuttavia, non hanno contribuito a determinare una propria nozione di m.u.c. ed il legislatore nazionale, permanendo la mancata attuazione della norma civilistica, è intervenuto con l’art. 5 bis d.lgs. 99/2004 sul compendio, abrogando al co. 10 gli articoli del codice civile 846-847-848.

Rimane, peraltro, ancora senza soluzione il problema della sorte delle norme del codice civile sulla ingrossazione (art. 849 c.c.) e sulla ricomposizione fondiaria (art. 850 c.c.) che fanno espresso richiamo alla m.u.c.[21].  L’art. 5 bis non ha previsto in modo espresso che in tutte le disposizioni in cui veniva fatto richiamo alla minima unità coltivatrice dovesse farsi riferimento al compendio unico, condannando di fatto tali norme alla loro perpetua inapplicabilità.

Viene, tuttavia, consentita dall’ordinamento giuridico la possibilità di procedere alla redazione dei piani di riordino all’interno delle operazioni di bonifica.

Alcune tra le Regioni e le Province autonome italiane avevano peraltro già inserito nei rispettivi Statuti la materia del riordino fondiario tra le competenze legislative primarie e, pur non dando diretta attuazione alla nozione di m.u.c., hanno poi provveduto a promulgare in tempi più recenti leggi speciali sul tema.

In Friuli Venezia Giulia solo con la L.R. 10 agosto 2016, n. 10 è stata emanata una normativa speciale con l’obiettivo di promuovere la razionalizzazione fondiaria e l’attività agricola limitatamente alle aree montane, ove il problema della polverizzazione e frammentazione del diritto di proprietà è maggiormente sentito. Le norme non innovano gli istituti di diritto privato già individuati nell’ordinamento giuridico statale, ma si limitano a ribadire che la razionalizzazione fondiaria sui comprensori in zone montane nelle quali lo stato di frammentazione, di polverizzazione e di dispersione della proprietà fondiaria sia tale da influire negativamente sulle condizioni economico-sociali, da impedire l’esecuzione di opere di miglioramento strutturale e da ostacolare il razionale sfruttamento del suolo e il normale sviluppo dell’economia agricola, venga attuata attraverso la ricomposizione fondiaria, l’ingrossazione (già disciplinata dall’art. 849 c.c.), il riordino delle proprietà polverizzate (già previsto negli artt. 850 e 851 c.c.), l’arrotondamento delle superfici dei fondi, la rettificazione dei confini e la realizzazione delle eventuali opere infrastrutturali necessarie (art. 3, co. 3). L’intervento legislativo regionale si concentra principalmente sugli aspetti procedimentali del riordino fondiario disciplinando l’avvio dei procedimenti (art. 7), le modalità di partecipazione (art. 15 co. 4) e i criteri di stima dei vari terreni (art. 12).

La Regione Autonoma Valle d’Aosta aveva, invece, disposto con la L. R. 12 agosto 1987, n. 70 alcuni specifici interventi regionali per la promozione e lo sviluppo del riordino, riuscendo ad avviare ben 87 piani di riordino. Attualmente la materia è regolata dalla L. R. 18 luglio 2012 n. 20 (successivamente modificata dalla L.R.  24 aprile 2019, n. 5), con la quale il legislatore regionale ha tentato di intervenire soprattutto sulle modalità di attuazione delle fasi conclusive del piano di riordino con l’obiettivo di consentire l’ultimazione di numerosi procedimenti ancora non portati a compimento[22].

Sul punto si è, tuttavia, pronunciata la Corte Costituzione la quale, con la sentenza del 22 luglio 2020 n. 187, ha richiamato l’attenzione del legislatore regionale sulla necessità di rispettare il limite della competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile.

La Consulta ha così dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 12 della L. R. n. 5/2019[23] che aveva introdotto un procedimento specifico in caso di approvazione di piano di riordino qualora nell’area interessata fossero presenti beni intestati a soggetti irreperibili, sconosciuti o deceduti senza eredi. L’intento manifesto della norma era quello di superare le difficoltà connesse al reperimento dei soggetti ancora catastalmente intestatari del terreni e non più reperibili. Soprattutto nelle aree montane la diffusa emigrazione nell’immediato dopoguerra ha reso, infatti, particolarmente complessa l’individuazione dei proprietari dei fondi che hanno spostato la propria residenza all’estero ormai da decenni favorendo l’abbandono delle terre.

L’art. 12 della L. R. n. 5/2019 sanciva, in questo senso, che in relazione a beni che risultino «intestati a soggetti irreperibili, sconosciuti o deceduti senza eredi», l’assemblea dei consorziati potesse accertare alla presenza di un notaio, l’esistenza di eventuali diritti vantati da terzi sugli stessi. Secondo la Corte Costituzionale detta norma inciderebbe, principalmente, su istituti propri del diritto civile di competenza esclusiva statale e, per tale motivo, ne ha sancito l’illegittimità costituzionale.

Inoltre il citato art. 12 della L. R. n. 5/2019 con lo stabilire che, ove non risultino soggetti che possano vantare diritti di proprietà sui beni suddetti, questi siano «ricompresi nel piano di riordino» – violerebbe le disposizioni codicistiche a tenore delle quali, invece, «[i]n mancanza di altri successibili l’eredità è devoluta allo Stato» (art. 586 cod. civ.) e «[i] beni immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato» (art. 827 cod. civ.).

Ne deriva che, pur essendo la materia del riordino fondiario ricompresa in modo espresso tra le competenze legislative primarie di alcune Regioni e Province autonome, la potestà legislativa di quest’ultima sul tema risulterebbe fortemente compressa dal limite costituito dall’ “ordinamento civile” di competenza statale (art. 117, c. 2, lett. l).

Il limite in questione è fondato, come noto, sull’esigenza sottesa al principio costituzionale di eguaglianza, di garantire nel territorio nazionale l’uniformità della disciplina dettata per i rapporti tra privati[24].

Fin dalle sue pronunce la Corte Costituzionale ha, quindi, avocato alla competenza legislativa statale la materia del “diritto privato”[25],  sebbene non sia riuscita a chiarire la portata generale di tale limite offrendone una definizione capace di trascendere il caso singolare oggetto del sindacato di legittimità costituzionale[26] .

A salvaguardia dell’autonomia regionale, tale limite deve tuttavia arretrare ogniqualvolta la norma emanata realizzi un adattamento ragionevole, intendendosi tale ogni adattamento che risulti in stretta connessione con una materia di competenza della Regione, persegua finalità apprezzabili, ed impieghi, all’uopo, strumenti necessari ed adeguati[27].  La ragionevolezza della normativa regionale non dovrebbe, tuttavia, sacrificare in maniera intollerabile l’esigenza di uniformità del diritto privato. Ne discende che la Corte Costituzionale dopo aver verificato la ragionevolezza della normativa localistica dovrebbe sempre accertare che quest’ultima non comprometta quel “nucleo duro” del diritto privato che deve ritenersi ontologicamente inderogabile.

Non sarebbero, pertanto, precluse anche nella materia della ricomposizione interventi che trascendano gli aspetti procedimentali e che incidano, quindi, anche sugli istituti di diritto privato, nel rispetto tuttavia del principio di ragionevolezza e di uniformità del diritto di privato. E’ chiaro, tuttavia, che l’iniziativa regionale non possa spingersi fino al punto di privare il contenuto del diritto di proprietà del proprio contenuto minimo e di superare i limiti imposti dalle norme in tema di successione ereditaria, il che comporterà l’inevitabile divisione dei fondi accorpati nei vari piano di riordino, dando corso a quel circolo vizioso di cui si è inizialmente detto.

 

5. L’esperienza della ricomposizione nella Provincia Autonoma di Bolzano

La Provincia di Bolzano è riuscita a frenare la polverizzazione delle strutture agrarie grazie all’istituto del maso chiuso.

Quest’istituto tipico della montagna altoatesina, trova diffusione in tutto il Tirolo e dà vita ad un’azienda agricola economicamente sufficiente per una famiglia composta da un minimo di quattro membri senza tuttavia superare il triplo del reddito medio annuo del maso, provvista di fabbricati, campi e prati, boschi e pascoli (art. 1, l.p. Bolzano, 28 novembre 2001, n. 17)[28].

Il principio fondamentale che caratterizza l’istituto è costituito dal vincolo di indivisibilità assoluta dell’azienda familiare, che impedisce nella divisione del patrimonio ereditario la frammentazione dell’unità produttiva considerata appunto quale bene indivisibile.  L’assunzione del maso da parte di un solo erede in deroga all’art. 718 cod. civ., con l’assegnazione, quindi, dell’azienda ad un unico erede che priva così i legittimari del diritto di pretendere una quota in natura del compendio ereditario, ai quali verrà invece corrisposta una somma di danaro determinata in base all’estimazione del reddito fondiario medio del maso.

L’efficienza del maso chiuso viene, infatti, garantita dalla sua stessa consistenza che, come si è detto, deve essere in grado di fornire un reddito medio anno sufficiente per un adeguato mantenimento di almeno quattro persone, consistenza che è tutelata dal controllo della Commissione locale la quale è tenuta ad autorizzare tutti i cambiamenti di estensione ovvero le modifiche dei diritti reali che lo riguardano. Il maso chiuso costituisce, quindi, un’unità fondiaria inscindibile che deve mantenere la sua integrità nei trasferimenti inter vivos e mortis causa[29].

Nei territori dove tale istituto non ha trovato applicazione si è assistito, come nelle altre zone d’Italia, alla frantumazione delle aziende agricole in tante unità di modeste dimensioni.

In un primo momento, infatti, l’intervento pubblico in questo settore è consistito nel dare attuazione alle norme statali in materia di bonifica agricola, di cui al r.d. 13 febbraio1933, n. 215, senza introdurre una disciplina regionale speciale. Pur avendo la Provincia Autonoma di Bolzano potestà legislativa esclusiva in materia, non è stata innovata, quindi, la disciplina programmata per l’intero territorio nazionale.

Successivamente con la legge del 28 settembre 2009 n. 5 la Provincia ha introdotto una propria normativa di bonifica di interesse generale a tutela, difesa e conservazione del suolo, comprendendovi anche la possibilità di riunire più appezzamenti, pur se appartenenti a proprietari diversi, in convenienti unità fondiarie (art. 2, co. 1, lett. j).

La LP. di Bolzano n. 5 del 2009 si è limitata, per lo più, a disciplinare gli aspetti procedimentali relativi all’approvazione del piano di ricomposizione fondiari, nonché l’intavolazione dei diritti di proprietà, dei diritti reali di godimento minori e dei diritti reali di garanzia.

Il piano incide, tuttavia, pesantemente sui diritti dominicali, in quanto può determinare la riunione di più appezzamenti di terreni in un’unica unità fondiaria, al fine di dare a ciascun proprietario, un appezzamento unico o se convenga, anche più di uno, purché ciò sia rispondente ai fini della bonifica.

I trasferimenti dei diritti di proprietà prescindono, inoltre, dall’espressione del consenso perché il piano ha efficacia coattiva, in quanto si applica anche ai dissenzienti qualora l’esecuzione della ricomposizione venga approvata dal 70 per cento degli intervenuti all’assemblea degli interessati, e questi rappresentino almeno il 50 per cento di tutti i proprietari interessati dal piano di ricomposizione.

Con l’approvazione del piano anche le servitù prediali vengono estinte, conservate o costituite in relazione alle esigenze della nuova sistemazione, sicché il codice civile, che all’art. 1031 cod.civ. prevede le servitù possono essere costituite coattivamente o volontariamente, risulta integrato anche dalla normativa provinciale.

L’importante incidenza sui diritti di proprietà richiede che venga dedicata particolare attenzione al momento partecipativo dei proprietari dei fondi interessati che si esprime attraverso la loro adesione al consorzio. In questo senso l’art. 34 della L.P. Bolzano n. 5/2009 stabilisce che il piano debba essere compilato, per quanto possibile, d’intesa con i proprietari interessati.

La proposta di avvio del procedimento che porterà all’approvazione del piano di ricomposizione viene presentata, infatti, ai diretti interessati per mezzo del consorzio.

L’incarico al professionista di redigere il piano può essere conferito direttamente dall’Ufficio Provinciale competente, oppure dal consorzio che abbia stipulato un’apposita convenzione con l’Ufficio Provinciale stesso. Oltre alla descrizione analitica e motivata della nuova sistemazione dei terreni, il piano deve contenere l’indicazione dei terreni interessati e dei diritti reali preesistenti, l’elenco descrittivo delle servitù prediali richieste dalla nuova sistemazione, anche se corrispondono a quelle preesistenti, la descrizione delle opere d’interesse comune necessarie per la riunione dei fondi e la migliore utilizzazione di essi, nonché l’indicazione dei conguagli eventualmente dovuti e il preventivo della spesa e della ripartizione di essa.

Il piano compilato viene, quindi, pubblicato all’albo del Comune.

L’Ufficio competente della Provincia esamina poi tutta la documentazione relativa e viene predisposta una relazione per il comitato tecnico amministrativo di bonifica, il quale sarà tenuto ad emettere un parere vincolante. Il piano viene, infine, approvato dalla Giunta Provinciale e formerà titolo per l’intavolazione tavolare dove viene annotato il vincolo ventennale di indivisibilità (art. 35, co. 8)[30].

 

6. Gli assetti fondiari collettivi

Le esperienze giuridiche che si sono succedute nel tempo si sono da sempre confrontate con la necessità di mantenere unità fondiarie di dimensioni tali da garantire il proficuo esercizio dell’attività agricola. La presenza costante nei secoli di vari assetti fondiari collettivi, diffusi su tutta la penisola italiana e in tutta Europa[31], dimostra come esistano istituti giuridici che sono riusciti a frenare l’eccessivo frazionamento fondiari, garantendo la sopravvivenza di intere popolazioni, grazie alloro intrinseca struttura.

Si tratta dei casi di vasti compendi fondiari, per lo più composti da pascoli e boschi, che per secoli sono stati goduti dalle collettività locali, in alcuni casi costituite solo dalle famiglie dei discendenti maschi degli antichi originari[32].

Proprio la particolare natura di questi beni ne ha imposto il godimento collettivo.

La coltivazione del bosco richiede, infatti, una programmazione che coinvolga più di una generazione, a causa del lento accrescimento della massa legnosa.  La concreta esigenza di proteggere i villaggi dalle valanghe, di garantire un costante approvvigionamento di combustile e di ritrarre anche materiale da opera per uso commerciale pretende tuttora una pianificazione del territorio su vasta scala capace di mantenere un uso sostenibile delle risorse anche per le generazioni future.

L’alpeggio richiede anch’esso, al pari del bosco, che la struttura fondiaria su cui il bestiame viene condotto al pascolo mantenga dimensioni ampie senza subire spezzettamenti in piccoli fondi, del tutto insufficienti per l’esercizio della pastorizia.

Il bosco e il pascolo, quindi, per loro natura si sono da sempre prestati ad un godimento in forma collettiva. Il diritto è riuscito a plasmarsi sull’essenza del bene, traducendo in norme giuridiche il rapporto di dipendenza tra la terra e gli uomini, che si sono espresse nei noti principi di inalienabilità, inusucapibilità, indivisibilità e del vincolo di destinazione agro-silvo-pastorale.

Il regime di indisponibilità riconosciuto dall’art. 12 della legge 27 giungo 1927, n. 1766, dall’art. 3 della l. 31 gennaio 1994, n. 97 ed infine dall’art. 3, comma e, della l. 20 novembre 2017 n. 168, ha così permesso la conservazione di vasti patrimoni collettivi, salvandoli dalla polverizzazione e frammentazione.

Con lo sviluppo economico, che ha investito anche l’Italia nel dopoguerra, l’esigenza di conservare gli assetti fondiari collettivi si è slegata dalla necessità di mantenere i mezzi di sopravvivenza delle popolazioni locali trovando, invece, nell’interesse pubblico ambientale[33] la massima ragione giustificatrice della loro sopravvivenza in un ordinamento giuridico, ove la proprietà individuale costituisce ancora il paradigma per eccellenza del rapporto giuridico tra l’uomo e le cose[34].

La Corte Costituzione ha ormai da tempo colto il forte legame tra il regime degli assetti fondiari collettivi e la tutela dell’ambiente, sancito anche dall’imposizione del vincolo paesaggistico sulle zone gravate da uso civico di cui all’art. 142, comma 1, lettera h), del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004,  n. 42[35], mettendo forse in ombra la capacità della proprietà collettiva di consentire l’efficiente esercizio delle attività forestali ed agricole in forma imprenditoriale[36].

In tale contesto meritano particolare attenzione le sentenze della Corte Costituzionale[37] secondo le quali anche il sistema delle quotizzazioni delle terre collettive convenientemente utilizzabili per l’attività agricola, stabilito dall’art. 11 lett. b della l. n. 1766/1927, dovrebbe considerarsi superato con l’introduzione del vincolo paesistico- ambientale e con le mutate condizioni economiche del Paese.

Il legislatore fascista intendeva, infatti, conservare solo la proprietà collettiva di tipo forestale assegnata alla categoria a) dell’art. 11, regolata da un regime di tipo demaniale, che doveva assicurare l’integrità della risorsa da gestire tramite l’impresa pubblica. Non c’era spazio per gli utilizzi agricoli in senso stretto perché lo sviluppo in agricoltura poteva essere garantito solo dalla proprietà individuale; conseguentemente se era opportuno che le terre civiche rimaste fossero gestite da enti collettivi quali i Comuni, le Frazioni e le Associazioni agrarie, occorreva anche prendere atto che questi non avrebbero potuto garantire una loro gestione efficiente dal punto di vista dell’attività agricola in senso stretto. Ciò, però, non escludeva la possibilità di un utilizzo agricolo delle terre civiche, ma essa era consentita solo a seguito del procedimento di cambio di destinazione delle terre.

Secondo la Corte la previa assegnazione a categoria dei beni civici non sarebbe ora più necessaria, in quanto il suddetto vincolo paesaggistico-ambientale svolgerebbe pienamente i suoi effetti a prescindere da tale operazione, la quale non sarebbe nemmeno più funzionale agli scopi colturali, come un tempo configurati.

Con la legge del 1927, infatti, si riteneva che l’assegnazione a categoria dovesse essere funzionale alla quotizzazione dei terreni coltivabili[38], il cui fisiologico esito diventava poi l’affrancazione qualora fosse accertata la realizzazione di migliorie colturali sul fondo. La questione agraria e la volontà di assicurare terre coltivabili ai contadini, tramite la formazione di piccole proprietà e piccole imprese, avevano spinto il legislatore – convinto di poter trovare in questo modo anche il consenso delle classi in parte estranee all’ideologia fascista – ad abbracciare una soluzione che già in passato aveva mostrato i propri limiti[39].

La trasformazione in allodio delle terre affrancate ha infatti portato con sé l’applicazione, anche sui fondi affrancati, dei principi in materia di successione ereditaria, destinandoli così alla loro ineluttabile polverizzazione e frammentazione, con conseguente loro abbandono e degrado.

Per i domini collettivi si aprirebbe ora la possibilità di avviare, oltre alla pastorizia e all’attività forestale, anche l’esercizio della coltivazione dei fondi attraverso la gestione diretta dell’ente esponenziale oppure per mezzo delle assegnazioni temporanea delle terre agli aventi diritto, come già praticato da secoli nelle Partecipanze emiliane[40]. Con ciò verrebbe superato il problema della divisione in natura dei fondi alla morte del coltivatore, in quanto al termine dell’assegnazione le terre ritornerebbero all’ente esponenziale affinché provveda a concederne il godimento, sempre temporaneo, ad altri[41].

Gli assetti fondiari collettivi possono considerarsi, quindi, pienamente conformi ai principi sanciti dall’art. 44 della Costituzione in quanto capaci, per loro caratteristiche intrinseche, di tutelare l’integrità dei beni in favore delle generazioni future e di consentire l’esercizio delle attività agricole su fondi di adeguata estensione, senza subire il frazionamento che la successione ereditaria porta inevitabilmente con sé.

Elisa Tomasella

 

[1] Per i riferimenti normativi sul compendio unico cfr. più diffusamente il paragrafo 3.

[2] Per una panoramica generale sugli strumenti del riordino fondiario cfr. FERRUCCI, Riordinamento della proprietà rurale, in Dig.disc.priv., UTET, Torino, 2000, p. 658.

[3] RODOTA’, Il terribile diritto: studi sulla proprietà privata, Il Mulino, Bologna, 1990. Cesare Beccaria, nel suo libro “Dei delitti e delle pene” elaborò Il concetto di “terribile diritto”. Tale concetto venne ripreso da Rodotà ed attribuito al diritto di proprietà. Il contenuto di questo diritto non è stato costante nel tempo. A seconda delle diverse esperienze giuridiche che si sono succedute nella storia ha assunto contenuti diversi. Alla fine della rivoluzione francese si è imposto un modello di regolazione che pose al centro del vivere civile un «terribile» diritto, quello appunto di proprietà, che ha configurato l’individuo come soggetto isolato, unico signore sulle cose.

[4] PUGLIATTI, Proprietà ed impresa. Con particolare riguardo al diritto agrario, Jovene, Napoli, 1965, p. 318; IRTI, Profili di programmazione agricola, in Riv.dir. agr., 1972, I, pp. 392 e ss. L’art. 44 Cost. non dovrebbe essere letto in relazione all’art. 42, come se il primo fosse stato scritto dal costituente intendendolo quale species del più ampio genere proprietà. L’art. 44 presupporrebbe già la proprietà come diritto soggettivo, e determinerebbe, invece, la sfera delle azioni che il titolare può compiere o non compiere imponendo il duplice fine del razionale sfruttamento del suolo e di equi rapporti sociali. Secondo la Carta Costituzionale, dunque, la terra è destinata ad un razionale sfruttamento e il proprietario non ha la libertà di decidere l’uso del bene ma ha l’obbligo di destinare la terra alla produzione. Pur sussistendo effettivamente un legame tra l’art. 41 Cost. e l’art. 44 Cost. è innegabile che il Costituente, imponendo un dovere al proprietario fondiario, determina in concreto anche il contenuto del diritto di proprietà fondiaria. PERLINGIERI, Proprietà, impresa e funzione sociale, in Riv.dir. impresa», 1989, I, p. 224, rifiuta invece una lettura meramente produttivistica del diritto di proprietà. L’A., infatti, evidenzia come al centro del sistema costituzionale sia stata posta la persona. Ne conseguirebbe che la proprietà e l’impresa devono essere funzionali alla garanzia e al pieno sviluppo della persona umana, senza limitarsi a realizzare maggiore produttività e/o più equi rapporti sociali.

[5] ROMAGNOLI, in Riforma agraria, Enc. It., II Appendice, 1, 1961, p. 92.

[6] Sul punto cfr. GRASSO, Aspetti giuridici della ricomposizione fondiaria in Italia, Giuffré, Milano, 1974, pp. 3 e ss.

[7] ISTAT, indagine sulla struttura aziende agricole, in http://dati.istat.it. La superficie agricola utilizzata nel 2016 era pari a 12.598.161 ettari e le aziende agricole con superficie agricola utilizzata erano invece pari a 1.143.958. Nel 2013, invece, il numero delle aziende agricole con superficie agricola utilizzata era pari a 1.467.076 mentre la consistenza della superficie agricola utilizzata era pari a 12.425.996. Rispetto ad un calo del numero di aziende sarebbe, invece, aumentata la superficie agricola utilizzata.

[8] ISTAT, indagine sulla struttura aziende agricole italiane, dati rielaborati da Federazione Nazionale della Proprietà Fondiaria (http://www.federfondiaria.it/wp-content/uploads/2019/03/PROSPETTO.pdf)

[9] ARZENI – SOTTE Lo sviluppo imprenditoriale agricolo nelle aree montane, in https://agriregionieuropa.univpm.it/it/content/issue/31/agriregionieuropa-anno-9-ndeg34-set-2013 “Le aziende di montagna hanno quindi una dimensione mediamente più estesa in termini di Sau, in quanto le coltivazioni sono prevalentemente estensive e a basso valore aggiunto per unità di superficie. La produzione standard (PS) stima le potenzialità economiche delle attività agricole, comprese quelle zootecniche, ed è evidente l’elevato differenziale tra aziende montane e non montane. La maggiore estensione in termini di superficie non compensa la minore produttività, per cui le aziende non montane presentano valori medi di produzione standard quasi doppi di quelle montane”.

[10] ROOK BASILE, Introduzione al diritto agrario, Giappichelli, Torino, 1995, p. 77; GULLA’, Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo: Per una rilettura dell’articolo 44 Cost. (dalla legislazione nazionale sulla concessione delle terre incolte alla normativa comunitaria sul set-aside), in Riv. dir. agr., 1995, I , pp. 75 e ss.

[11] FERRUCCI, Riordinamento della proprietà rurale, in Dig.disc.priv., UTET, Torino, 2000, p. 658.

[12] Sul tema cfr. ROOK BASILE – GERMANO’, “La ricomposizione fondiaria. Analisi di esperienze giuridiche europee”, in Quaderni di Documentazione del servizio Studio della Camera dei Deputati. Segreteria Generale. Ufficio Stampa e pubblicazioni, Roma, 1984.

[13] Secondo la Cass. civ. Sez. II, 20 giugno 2017 n. 15268, “L’articolo unico della l. n. 191 del 1992, stabilendo che il diritto di frazionamento delle unità poderali di cui all’art. 1 della l. n. 1078 del 1940 ha durata trentennale dalla prima assegnazione, ha portata innovativa e non meramente interpretativa delle precedenti disposizioni, poiché modifica il regime giuridico vigente, eliminando il vincolo d’indivisibilità perpetua ed introducendo quello di durata temporanea trentennale dalla prima assegnazione, sicché gli atti di divisione del podere stipulati prima dell’entrata in vigore della citata l. n. 191 sono affetti da nullità assoluta ed insanabile, perché contrari a norma imperativa”. L’art. 11 della legge del 14 agosto 1971, n. 817 ha, invece, imposto un vincolo di indivisibilità dei fondi acquistati con le agevolazioni creditizie concesse dallo Stato per la formazione e l’ampliamento della proprietà coltivatrice di 30 anni, che l’art. 11 del decreto legislativo del 18 maggio 2001, n. 228 ha ridotto a 15.

[14]L’art. 52 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 ha introdotto l’art. 5 bis  della legge 31 gennaio 1994 n. 97, secondo il quale “Nei territori delle  comunità  montane,  il  trasferimento  a  qualsiasi titolo di  terreni  agricoli  a coltivatori diretti e ad imprenditori agricoli a titolo  principale  che  si  impegnano  a  costituire un compendio unico e a
coltivarlo o   a   condurlo   per   un   periodo  di  almeno  dieci  anni  dal trasferimento è  esente  da  imposta  di  registro, ipotecaria, catastale, di  bollo e  di  ogni altro genere. I terreni e le relative pertinenze, compresi i fabbricati, costituiti in compendio unico ed entro i limiti della superficie minima indivisibile di cui al comma 6, sono considerati unità indivisibili per quindici anni dal momento dell’acquisto e per questi anni non possono essere frazionati per effetto di trasferimenti a causa di morte o per atti tra vivi.  In caso di successione i compendi devono essere compresi per intero nella porzione di uno dei coeredi o nelle porzioni di più coeredi che ne richiedano congiuntamente l’attribuzione. Tale disciplina si estende anche ai piani di ricomposizione fondiaria e di riordino fondiario promossi
da regioni, province, comuni e comunità montane”.

[15] Il legislatore statale ha dato una definizione sussidiaria di compendio unico, destinata a cedere nell’eventualità in cui le Regioni dispongano in materia. Sull’istituto del compendio unico e sul rapporto tra legislazione regionale e statale cfr. GERMANO’, Il compendio unico, in Dir.giur. e ambiente, 2005, pp. 485 e ss.

[16] GERMANO’, Sulla successione mortis causa nell’azienda agricola, in Scritti in onore di Emilio Romagnoli. Agricoltura e diritto, Milano, Giuffré, 2000, p. 1073.

[17] Cass. civ., sez. II, 29 maggio 2007, n. 12498

[18] Secondo l’art. 8 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228, le disposizioni di cui agli articoli 4 e 5 della legge 31 gennaio 1994, n. 97, si applicano, a decorrere dal 1° gennaio 2002, anche alle aziende agricole ubicate in comuni non montani.

[19] Sugli interventi di ricostituzione fondiaria cfr. ROOK BASILE, Sulla ricostituzione coattiva di convenienti unità colturali, in Proprietà e gestione produttiva della terra. Seconda tavola rotonda italo-polacca, Giuffré, Milano, 1988, pp. 125 e ss.

[20] GERMANO’, Il compendio unico, in Dir.giur. e ambiente, cit., pp. 485 e ss

[21]  L’art. 5 bis del D.lgs. n. 99/2004 ha disciplinato il compendio unico, che, al pari della minima unità coltivatrice, ha inteso evitare l’eccessivo frazionamento dei fondi agricoli. Secondo la Cassazione, tuttavia, non sarebbe possibile accomunare il compendio unico alla m.u.c. “se infatti è indubbio che entrambi mira(va)no a impedire l’eccessivo frazionamento dei fondi in agricoltura, il primo aveva quale parametro di riferimento le necessità della famiglia diretto coltivatrice o, in caso di terreni non appoderati, quella della conveniente coltivazione secondo le regole della buona tecnica agraria; con il secondo invece si è inteso dato rilievo all’aspetto produttivo dell’azienda e, per far ciò, si sono stabilite condizioni per il conseguimento di agevolazioni fiscali al fine di garantire un minimo di redditività” (Cass. civ., Sez. II, 8 luglio 2014, n. 15562).

[22] TRIONE, “Politica di ricomposizione fondiaria promossa dalla Regione Autonoma Valle d’Aosta “, in “Indagine sul mercato fondiario in Italia. Rapporto regionale 2017”, a cura di A. Povellato e A. Tantari, Dicembre, CREA, Dicembre 2018, p. 14 e ss.

[23] L’art. 12 della L. R. n. 5/2019 prevedeva che “Ai fini della redazione del piano di riordino fondiario, qualora nell’area interessata risultino beni intestati a soggetti irreperibili, sconosciuti o deceduti senza eredi, il Consorzio convoca l’assemblea dei consorziati affinché i soggetti interessati possano dichiarare, alla presenza di un notaio, le ragioni per vantare l’eventuale titolarità dei predetti beni. L’assemblea si pronuncia su tali dichiarazioni, approvandole ai fini della predisposizione del piano di assegnazione dei terreni di cui al comma 2, lettera b), con la maggioranza di cui all’articolo 5, comma 3. A tali fini, il notaio verbalizza le generalità dei dichiaranti e, per ognuno di loro, le particelle catastali e le quote di proprietà di cui essi vantano la titolarità, dando atto, nello stesso verbale, che nessuno dei presenti abbia dichiarato di vantare, sui predetti beni, altri diritti di godimento. Resta ferma, in caso di esito negativo della procedura, la possibilità, per il Consorzio, di dare atto che i predetti beni sono ricompresi nel piano di riordino subordinatamente all’avvio, ove consentito dalla normativa vigente e previa dichiarazione di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 11, comma 2, del procedimento espropriativo di cui alla legge regionale 2 luglio 2004, n. 11 (Disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità in Valle d’Aosta. Modificazioni delle leggi regionali 11 novembre 1974, n. 44, e 6 aprile 1998, n. 11)”.

[24] Corte cost., 1° aprile 1998, n. 82 in Giornale Dir. Amm., 1998, 6, 540 . Sul tema cfr. GERMANO’, La “materia” agricoltura nel sistema definito dal nuovo art. 117 Cost.”, in Il governo dell’agricoltura nel nuovo titolo V della Costituzione, Atti dell’incontro di studio, Firenze 13 aprile 2002, Giuffré, Milano, 2003, pp. 277.

[25] LAMARQUE, Regioni e ordinamento civile, Padova, 2005, p. 11

[26] Per quanto riguarda l’agricoltura, in particolare, la Consulta già nel 1956 ebbe modo di stabilire che “le leggi regionali non possono disciplinare rapporti nascenti dall’attività privata rivolta alla terra, quale bene economico, sia nella fase organizzativa, che in quella produttiva; rapporti che devono essere regolati dal codice civile. Possono, invece, occuparsi dei problemi attinenti alla organizzazione anche tecnica e allo sviluppo agricolo e forestale dell’isola alla cui soluzione è interessata la collettività”, cfr.  Corte Cost. 2 luglio 1956, n. 7 in Giur.it. 1956, I, 1, c. 874.

[27] Corte cost. 6 novembre 2001, n. 352

[28] Sul maso chiuso FRASSOLDATI, Il maso chiuso e le associazioni agrario-forestali dell’Alto Adige nella recente legislazione della provincia di Bolzano, Giuffrè, Milano, 1963; CAMOZZI, Sintesi della giurisprudenza italiana sulla legge provinciale di Bolzano sul maso chiuso, in Rivista di diritto agrario, 1958, II, pp. 493 e ss.;  SCHWARZENBERG, Maso chiuso, in Enciclopedia del diritto, XXV, Giuffrè, Milano, 1975, pp. 703 e ss..

[29] La Corte Costituzionale ha ritenuto costituzionalmente legittimo l’istituto del maso chiuso nonostante quest’ultimo presenti numerosi punti di frizione con il sistema successorio istituito dall’ordinamento italiano. Secondo la Corte Costituzionale l’istituto del maso chiuso, il quale non trovava precedenti nell’ordinamento italiano, non poteva qualificarsi né rivivere se non con le caratteristiche sue proprie derivanti dalla tradizione e dal diritto vigente sino all’emanazione del r.d. n. 2325 del 1928, in base al quale esso cessò di avere formalmente vita (Corte Costituzionale, 15 giugno 1956, n. 4, in Giurisprudenza costituzionale, 1956, p. 575; Corte Costituzionale, 26 gennaio 1957, n. 5, in Giurisprudenza costituzionale, 1957, p. 33, Corte Costituzionale, 28 febbraio 1957, n. 40, in Giurisprudenza costituzionale, 1957, p. 507). Il legislatore provinciale era legittimato, quindi, a disciplinare la materia dei masi chiusi nell’ambito della tradizione e del diritto preesistente anche in deroga ai principi di diritto civile e processuale comune (Corte Costituzionale, 23 giugno 1964, n. 55, in Giurisprudenza costituzionale, 1964, p. 641).

[30] Fino al 1° gennaio 2014, potevano beneficiare dell’esenzione dell’applicazione delle imposte di registro, ipotecaria, catastale e di bollo (nonché da «ogni altro genere» di imposta), ai sensi dell’articolo 5-bis, 9° comma, d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228; e dell’articolo 5-bis, 1° comma, legge 31 gennaio 1994, n. 97, tutti i  trasferimenti a qualsiasi titolo di terreni agricoli (e relative pertinenze, compresi i fabbricati rurali) intervenuti in attuazione di «piani di ricomposizione fondiaria e di riordino fondiario promossi dalle regioni, province, comuni e comunità montane». Tale agevolazione è stata soppressa, a partire del 31 dicembre 2013, per effetto dell’articolo 10, 4° comma, d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23. Per essere poi riproposta dall’articolo 1, 57° comma, legge 28 dicembre 2015, n. 208, in vigore dal 1° gennaio 2016, ove si dispone che «tutti gli atti e i provvedimenti emanati in esecuzione dei piani di ricomposizione fondiaria e di riordino fondiario promossi dalle regioni, dalle province, dai comuni e dalle comunità montane sono esenti da imposta di registro, ipotecaria, catastale e di bollo». L’imposta sul valore aggiunto e le tasse ipotecarie rimangono disciplinate dalla loro normativa “ordinaria”. Cfr. BUSANI, Le agevolazioni per l’acquisto dei terreni agricoli, in Dir. e Prat. Trib., 2016, 3, p. 968

[31] GROSSI in Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, Giuffrè, 1977, evidenzia le peculiarità del dominio collettivo quale modello alternativo, fondato su una propria antropologia giuridica distinta rispetto alla proprietà individuale, che è riuscito a sopravvivere nonostante i vari tentativi abolizionistici avviati nel corso dell’ottocento. Sul tema cfr. anche GUIDETTI E STAHL, Il sangue e la terra. Comunità di villaggio e familiari nell’Europa dell’800, Jaka Book, 1977.

[32] Si tratta delle forme di proprietà collettiva chiusa dove l’appartenenza delle terre spetta ai discendenti degli antichi originari ad esclusione dei cd. foresti. Sulla distinzione tra usi civici, terre civiche e terre collettive cfr. GERMANO’, Usi civici, in Digesto. Discipline privatistiche, XIX, UTET, Torino,1999, pp. 535 e ss.

[33] Il premio nobel per l’economia E. Ostrom ha sottolineato, attraverso l’analisi di casi concreti, come la gestione collettiva delle risorse non solo consenta alle comunità di soddisfare i propri bisogni, ma allo stesso tempo, a mezzo di accordi diretti a disciplinare il godimento comune dei beni delle comunità attuali e future, sia idonea a salvaguardare l’ambiente più del diritto di proprietà sancito e tutelato dai codici civili modellati sull’esempio del codice Napoleone del 1804 (cfr. OSTROM, Come alcune comunità hanno evitato la tragedia delle risorse comuni, in P. Nervi (a cura) Le terre civiche tra l’istituzionalizzazione del territorio e il declino dell’autorità locale di sistema. Atti della IV Riunione Scientifica (Trento, 7-8 novembre 1998), Cedam, Padova, 2000, pp. 35 e ss.). GAMBARO in La proprietà. Beni, proprietà, comunione, in ZATTI P., IUDICA G. (Trattato di diritto privato), Giuffré Milano, 1990, p. 9 riflette anch’egli sulla “tragedy of commons”, evidenziando come l’apprensione egoistica senza controllo dei beni comuni porti ineluttabilmente alla loro tragedia.

[34] A seconda delle varie esperienze giuridiche il rapporto tra l’uomo e le cose è variato nel tempo. Nell’esperienza romana il diritto di proprietà rispecchiava la signoria piena e assoluta del civis sulla res, indipendentemente dal contenuto di questa. Nell’esperienza giuridica medioevale, invece, dopo le invasioni barbariche l’uomo ha dovuto subire il mondo esterno e non è più riuscito a prescindere dalla concretezza della cosa, da cui dipendeva la propria esistenza. Nel medioevo diventa, allora, importante il rapporto effettivo che si instaura con la res e non il potere che sulla cosa viene esercitato dal dominus Su questi concetti v. ampiamente GROSSI, Il dominio e le cose. Percezioni medioevali e moderne dei diritti reali, Milano, Giuffré, 1992.

[35] La Corte Costituzionale nella sentenza del 1° aprile 1993, n. 133, in Diritto e giurisprudenza agraria e dell’ambiente, 1993, pp. 279 e ss. ha riconosciuto che nei beni civici «emerge l’interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente e del paesaggio (cfr. GERMANO’, La tutela della natura civica delle terre e degli usi quale interesse pubblico generale: il dictum della Corte Costituzionale, in Diritto e giurisprudenza agraria e dell’ambiente, 1993, pp. 280 e ss. L’orientamento è stato confermato anche dalla successiva sentenza 20 febbraio 1995, n. 46, in Diritto e giurisprudenza agraria e dell’ambiente, 1995, p. 145 e ribadito costantemente negli anni nelle successive pronunce in materia di usi civici.

[36] Sul collegamento tra l’istituto della proprietà collettiva e l’attività di impresa cfr. CIASCHI – TOMASELLA, La montagna e il diritto, Bononia University Press, Bologna, 2007, pp. 193 e ss.

[37] Si tratta della sentenza del 24 aprile 2020 n. 71 che riprende e ribadisce i principi già espressi con la sentenza del 31 maggio 2018 n. 113.

[38] Il legislatore fascista intendeva dunque mantenere solo la proprietà collettiva di tipo forestale, regolata da un regime di tipo demaniale, che doveva assicurare l’integrità della risorsa da gestire tramite l’impresa pubblica. Non c’era spazio per gli utilizzi agricoli in senso stretto perché lo sviluppo in agricoltura era garantito solo dalla proprietà individuale; conseguentemente se era opportuno che le terre civiche rimaste fossero gestite da enti collettivi quali i Comuni, le Frazioni e le Associazioni agrarie, occorreva anche prendere atto che questi non avrebbero potuto garantire una loro gestione efficiente dal punto di vista dell’attività agricola in senso stretto. Ciò, però, non escludeva la possibilità di un utilizzo agricolo delle terre civiche, ma essa era consentita solo a seguito del procedimento di cambio di destinazione

[39] Prima dell’Unità d’Italia, in varie regioni i beni civici boschivi vennero ripartiti in pochi ettari ed assegnati ai contadini poveri. Le risorse boschive vennero quindi distrutte e ridotte a coltura agraria. Gli assegnatari delle quote di beni civici furono però costretti a vendere ai latifondisti gli appezzamenti ricevuti, perché troppo esigui per garantire un adeguato sostentamento (CASSESE, La nuova Costituzione economica, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 19).

[40] Le Partecipanze agrarie emiliane hanno potuto godere del regime differenziato della legge del 1927 n. 1766.  L’art. 65 del reg. n. 332/1928 prevede, infatti, che le disposizioni contenute nel capo II della legge sugli usi civici relative alla sistemazione, ripartizione, e godimento dei beni dei Comuni e delle Associazioni agrarie, comprese quindi le disposizioni in tema di quotizzazione delle terre coltivabili,  non vengano applicate alle Associazioni agrarie, composte da determinate famiglie, che, possedendo esclusivamente terre atte a coltura agraria, vi abbiano apportato sostanziali e permanenti migliorie. Cfr. GALGANO, Sulla natura giuridica delle partecipanze agrarie emiliane, in Rivista di diritto agrario, 1993, I, pp. 179 e ss.

[41] Nella partecipanza di Nonantola si procede al riparto le terre suddividendole in venticinque parti dette “cò”, cioè venticinque appezzamenti ai quali è attribuito un raccolto possibilmente uguale e mediante l’estrazione a sorte si assegna ciascun appezzamento al controllo di un partecipante considerato uomo dabbene detto il capo-cò. Ogni appezzamento è poi ulteriormente suddiviso in frazioni minori, tante quante sono gli individui, – uomini, donne, bambini – che godono del diritto: prende vita così l’unità di misura chiamata bocca. Ad ogni partecipante spetta una bocca. La ripartizione dei terreni fin dai tempi più antichi avveniva ogni nove anni, oggi si svolge ogni 18 anni (cfr. www.partecipanzanonantola.it). Nella partecipanza di Sant’Agata Bolognese la superficie destinata a coltura è di 495 ettari suddivisa, nell’anno 2011, in 237 famiglie. La durata dell’assegnazione è di durata pari a 9 anni. Oltre alle terre coltivabili la partecipanza ha destinato anche un’importante superficie alla realizzazione di boschi, prati e zone umide che arricchiscono il paesaggio e migliorano la qualità ambientale dell’area, il che dimostra la grande sensibilità dimostrata dagli enti gestori verso la tutela ambientale (www.partecipanza.org).

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