Commercio ed urbanistica appartenevano a suo tempo a materie considerate autonome e distinte. Nell’assetto delineato dalla legge n. 426 del 1971 la distinzione trovava una sua armonizzazione nella subordinazione del Piano del commercio al Piano regolatore. La distinzione era tanto nitida che l’art. 11 imponeva di impostare la programmazione commerciale “nel rispetto delle previsioni urbanistiche”. La legge ne introduceva così una esplicita sotto-ordinazione formale rispetto alla pianificazione territoriale: dal punto di vista operativo, questo si risolveva in una esigenza di costante adeguamento a quest’ultima, in ogni articolazione dei diversi livelli pianificatori, prova ne sia che il regolamento attuativo obbligava espressamente il pianificatore commerciale a conformarsi alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, anche attuativi (art. 30, sesto comma, del D.M. 4 agosto 1988 n. 375).

Questo modello, incentrato sul primato della strumentazione urbanistica comunale, venne accantonato con il “Decreto Bersani” che superò la rigida separazione tra tutela urbanistica e tutela commerciale, sopprimendo il Piano del commercio e affidando alle Regioni il compito di definire gli “indirizzi generali per l’insediamento delle attività commerciali” e di stabilire i criteri di “programmazione urbanistica” inerenti al settore commerciale (cfr. art. 6 del D. Lgs. n. 114 del 1998).

I Comuni, pertanto, venivano privati della signoria programmatoria goduta in precedenza e chiamati ad una opera di fedele traduzione locale degli indirizzi e dei criteri regionali: abdicando alla ferrea divisione tra competenze commerciali ed urbanistiche, la normativa sopravvenuta indicava nei piani regolatori il modulo elettivo con cui assicurare la definitiva messa a regime delle linee di programmazione elaborate dalla Regione.

Di fatto, si passava dal precedente sistema dualistico, basato sulla centralità delle due pianificazioni (commerciale e urbanistica), ad un sistema monistico che perseguiva una tutela unitaria di entrambi gli interessi.

Si iniziò, non a caso, a parlare di <<urbanistica commerciale>> in considerazione delle incisive contaminazioni urbanistico-edilizie a cui la disciplina del commercio era sottoposta su sollecitazione della legislazione statale. In effetti, anche la normativa commerciale veneta cominciò a segnalarsi per una pluralità di disposizioni prettamente urbanistiche che dettavano in maniera minuziosa parametri e dotazioni di riferimento (parcheggi, viabilità, ecc.: cfr. artt. 13 e 14 della L.R. n. 37 del 1999 e art. 17 della L.R. n. 15 del 2004), anche enucleando specifiche sotto-zonizzazioni ad hoc, come le zone D deputate all’insediamento delle grandi strutture di vendita (di cui all’art. 15 della L.R. n. 37 del 1999 e all’art. 18 della L.R. n. 15 del 2004), ovvero meccanismi di prevalenza e di variazione automatica dei piani comunali nei casi di mancato adeguamento (si veda l’art. 16, u.c., della L.R. n. 15 del 2004) ed ancora procedure speciali di conformazione dei P.T.C.P., Piani territoriali di coordinamento provinciale (come quelle delineate dalle disposizioni di coordinamento statuite dall’art. 38 della L.R. n. 15 del 2004).

Anche la legge regionale n. 50 del 2012 replica questo assetto, addirittura introducendo una sorta di “blocco urbanistico” delle nuove iniziative commerciali. Fatta salva la generale insediabilità in tutto il territorio comunale (art. 21, primo comma) della medie-strutture di vendita sino a 1500 metri di superficie, le strutture medio-grandi e grandi conoscono una autorizzabilità necessariamente filtrata dalla attuazione locale dei criteri fissati dal regolamento regionale (previsto ex art. 4 della legge). In buona sostanza, nei successivi commi dell’art. 21 in esame (secondo, terzo e quarto) la legge prefigura un sistema di adeguamento “a cascata” che, sulla scorta dei dettami del regolamento n. 1 del 2013, coinvolge direttamente la strumentazione urbanistica comunale, con dovizia di disciplina di procedimenti mirati, di termini appositi e di relative disposizioni transitorie.

Il commercio si incista nella pianificazione urbanistica divenendone un contenuto tipico ed essenziale.

In realtà, l’urbanistica aveva metabolizzato da tempo la possibilità di assumere previsioni attinenti alle attività economiche e – in fondo – lo stesso zooning concerneva le finalità economiche di utilizzo del territorio (industriali, artigianali, turistiche, agricole e – per l’appunto – commerciali). Con il D.Lgs. n. 112 del 1998 erano state poi assegnate ai Comuni (si veda l’art. 23) le funzioni amministrative riguardanti la realizzazione, l’ampliamento, la cessazione e la localizzazione di impianti produttivi, ponendo la basi del S.U.A.P. di diffusa applicazione pure in ambito commerciale.

Ora, però, si affida all’esercizio delle potestà urbanistiche il governo degli insediamenti commerciali, quasi negando un governo differenziato del settore commerciale. Non stupisce, pertanto, che tra i contenuti propri del Piano di Assetto del Territorio si ritrovino “i criteri per l’individuazione di ambiti preferenziali di localizzazione delle grandi strutture di vendita e di altre strutture alle stesse assimilate” (cfr. art. 13, lett. j, della L.R. n. 11 del 2004).

Questo tendenziale assorbimento della disciplina del commercio nell’ambito della normativa urbanistica viene testimoniato anche da una lunga serie di disposizioni, sia statali che regionali, di apparente contenuto urbanistico-edilizio ma – in realtà – ispirate da evidenti finalità di promozione o di regolazione del commercio.

Ad esempio, per quanto riguarda gli obbiettivi promozionali, va ricordato il decreto “Sblocca – Italia” che introducendo, nei casi di ristrutturazione edilizia, la possibilità di rilasciare permessi in deroga anche alle destinazioni d’uso ne afferma esplicitamente l’applicabilità agli insediamenti commerciali (cfr. art. 14, comma 1 bis, del D.P.R. n. 380 del 2001); ed ancora, l’art. 5 della L.R. n. 25 del 2014 il quale dispone che nei piccoli comuni montani l’attivazione di superfici commerciali sino a 250 metri quadrati diventa “compatibile con qualsiasi destinazione d’uso in essere” (comma 3). Oppure, sul versante della regolazione limitativa, come non menzionare l’art. 54 della L.R. n. 30 del 2016 che, per gli illeciti edilizi relativi alle sale da gioco e agli esercizi commerciali assimilati, prescrive un sistema sanzionatorio di estremo rigore, circoscrivendo addirittura a sessanta giorni il termine massimo di esecuzione delle ingiunzioni comunali, e assegnando ai piani comunali la potestà di dettare puntuali previsioni ubicazionali e financo “gli elementi architettonici, strutturali e dimensionali” (comma 5) degli esercizi. Inoltre, i termini procedimentali, riferiti sia alla ristrutturazione, sia alla nuova costruzione sono raddoppiati (settimo comma); gli interventi edilizi eseguiti in assenza del permesso di costruire, in sua totale o parziale difformità, comportano sempre la riduzione in pristino (ottavo comma); tanto gli interventi di ristrutturazione edilizia, quanto i mutamenti di destinazione d’uso (con o senza opere) sono senz’altro assoggettati a permesso di costruire, senza dire che fino all’adeguamento degli strumenti urbanistici comunali, le nuove sale possono essere realizzate solo in zone riservate ad attività produttive (decimo comma).

Per converso, la pratica professionale insegna che è proprio sul fronte urbanistico-edilizio che si giocano molte delle odierne vertenze riguardanti le iniziative commerciali, spesso alla ricerca pratica di pertugi, dispense ed eccezioni all’applicazione delle regole poste a governo del territorio.

Ne è certamente una riprova la giurisprudenza che ammette la possibilità di derogare al P.R.G., anche al di fuori dei casi di ristrutturazione edilizia prima richiamati e pur in presenza di attività commerciali private di natura lucrativa, se sussiste un interesse pubblico concreto collegato all’intrapresa (il pensiero va al caso “Fontego dei Tedeschi” trattato dalla decisione della Sezione V del Consiglio di Stato n. 2761 del 5 giugno 2015) che ne bilanci l’impronta speculativa. Frequente si è rivelato anche il ricorso alle flessibilità in materia di destinazione d’uso consentite dal secondo comma dell’art. 23 ter del D.P.R. n. 380 del 2001, secondo cui la destinazione dell’immobile “è quella prevalente in termini di superficie utile”, e dal comma 2 bis dell’art. 9 della L.R. n. 14 del 2009 (introdotto con il “Piano – Casa ter”) che prospetta(va) la possibilità di modifica d’uso dell’intero volume di edifici dismessi non situati in zona agricola (ora, la previsione viene ripresa, in termini diversi, pure dalla L.R. n. 14 del 2019: cfr. art. 7.7).

Di minore ricorrenza pratica si è – invece – rivelato l’utilizzo a fini commerciali del S.U.A.P. stante il fatto che l’art. 8 del D. Lgs. n. 160 del 2010 esclude chiaramente le varianti al piano comunale “afferenti alle strutture di vendita di cui agli articoli 8 e 9 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114” (comma 3).

La compenetrazione tra i due settori in esame è giunta a tal punto che è possibile arguire anche un processo di osmosi inversa, nel senso che il legislatore affida alla normativa commerciale finalità prettamente urbanistiche: ne costituisce una riprova il quinto comma dell’art. 21 citato che permette nei centri storici l’apertura diretta di medio e grandi strutture “in deroga a quanto previsto dal comma 2 e dal comma 3” e che rassomiglia – di conseguenza – ad una disposizione di pura incentivazione della rivitalizzazione di tali spazi; come eloquente è anche il disposto dell’art. 7 che regola la promozione di programmi di riqualificazione e sviluppo delle attività commerciali nei centri storici ed urbani.

Del resto, nella L.R. n. 50 del 2012 è dato di cogliere in modo palese l’emersione di obbiettivi di politica legislativa tipicamente urbanistici, tant’è che l’art. 2, comma 1, lett. d), indica tra i principi informatori la finalità di “salvaguardare la sostenibilità territoriale ed ambientale ed il risparmio del suolo, incentivando il recupero e la riqualificazione urbanistica di aree e strutture dismesse e degradate” e l’art. 4, comma 1, lett. c), individua tra gli indirizzi regionali anche quello di “incentivare il risparmio di suolo, favorendo gli interventi di consolidamento dei poli commerciali esistenti, gli interventi di recupero e riqualificazione di aree o strutture dismesse e degradate, gli interventi che non comportano aumento della cubatura esistente in ambito comunale”.

Si avverte, di fronte a questa fusione regolativa, la perdita della chiarezza applicativa conosciuta in passato. Non è superfluo rammentare come fosse stato interpretato l’ultimo comma dell’art. 24 della legge n. 426 del 1971, il quale stabiliva che “l’autorizzazione, fermo il rispetto dei regolamenti di polizia urbana, annonaria, igienico-sanitaria e delle norme relative alla destinazione e all’uso dei vari edifici nelle zone urbane, è negata solo quando il nuovo esercizio risulti in contrasto con le disposizioni del Piano commerciale”.

Ebbene, la giurisprudenza aveva precisato che “è illegittimo il diniego di licenza commerciale motivato con la considerazione che l’immobile in cui dovrebbe svolgersi l’attività ha una destinazione d’uso diversa da quella commerciale; infatti, l’art. 24, L. 11 giugno 1971, n. 426, nel richiamare l’esigenza del rispetto delle norme locali relative, fra l’altro alla destinazione d’uso degli edifici, non comporta che il sindaco, in sede di rilascio della licenza di commercio, debba verificare anche l’osservanza di tali norme, ma solo che il rilascio della licenza commerciale non pregiudica tale verifica, che il sindaco potrà effettuare, in altra sede, in base ai procedimenti tipici previsti per la valutazione dell’osservanza delle norme locali stesse”(T.A.R. Toscana 5 giugno 1984, n. 346); detto diversamente, si asseriva che “il disposto dell’art. 24, ultimo comma, L. 11 giugno 1971, n. 426, non ha il significato di condizionare il rilascio della licenza di commercio alla verifica della compatibilità dell’esercizio con la normativa edilizia, ma solo quello di assicurare che la determinazione sindacale, anche se positiva, non rechi pregiudizio alla tutela di interessi diversi da quelli commerciali»”(ibidem).

In buona sostanza, una lettura della normativa basata su quello che veniva definito “il principio della distinzione dei poteri” (Cons. Stato, sez. V, 15 marzo 1984, n. 246), ragion per cui il potere “nell’interesse commerciale deve essere esercitato autonomamente rispetto a quelli che afferiscono alla tutela di interessi urbanistici o di altra natura”.

Aver smarrito la cognizione della validità di queste distinzioni, che venivano battezzate come “sedes materiae”, pungola in modo incisivo la nostra formazione giuridica e ci interroga nel concreto dell’operare quotidiano, chiamandoci a verificare la tenuta effettiva degli stili normativi recenti e, specialmente, interpellandoci per una riflessione senza preconcetti sugli effetti pratici che ne derivano.

Su questo crinale delicato e dai complessi riverberi applicativi, soprattutto in tempi di “provvedimento unico”, nulla sembra comunque opporsi ad un auspicabile recupero di utile consapevolezza.

 Enrico Gaz

 

*L’intervento riprende la relazione tenuta il 13 aprile 2019 in Padova nel corso del seminario, organizzato dalla Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti, dal titolo “La legislazione in tema di commercio: analisi della recente normativa e giurisprudenza”.

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