1) La vicenda: l’incarico per la redazione del piano regolatore di Catanzaro.
Ha destato scalpore – non soltanto nel mondo degli operatori del diritto amministrativo – la sentenza della sez. V del Consiglio di Stato n. 4614 del 3 ottobre 2017 che ha giudicato legittimo l’affidamento a titolo gratuito del “servizio” consistente nella redazione dello strumento urbanistico del Comune di Catanzaro: nonostante il codice dei contratti pubblici all’art. 3 comma 1 lett. ii) qualifichi gli “appalti pubblici” come contratti a titolo oneroso sia relativamente all’esecuzione di lavori, forniture di prodotti e prestazione di servizi.
Con tale sentenza il giudice d’appello ha annullato la sentenza del TAR Calabria-Catanzaro, sez. I, del 13 dicembre 2016 n. 2435 che aveva annullato il bando che prevedeva la gratuità della prestazione professionale (salvo il rimborso delle spese autorizzate e documentate nel limite massimo di € 250.000) su ricorso degli ordini degli architetti, ingegneri, agronomi ecc.
Successivamente alla sentenza del Consiglio di Stato il TAR Catanzaro si è trovato a decidere su altro ricorso, proposto da un singolo ingegnere contro il medesimo bando: che evidentemente non era stato riunito al precedente.
Il TAR Catanzaro, dopo aver dato atto dell’annullamento, ad opera del Consiglio di Stato, della propria precedente sentenza su ricorso degli Ordini professionali, ha ritenuto con la successiva sentenza della sez. I, 2 agosto 2018 n. 1507 di dover motivatamente dissentire dall’orientamento del Consiglio di Stato annullando nuovamente il bando.
La nuova sentenza del TAR Catanzaro è stata impugnata e, secondo quanto risulta dal sito della Giustizia Amministrativa, l’udienza di discussione avanti la sez. V è già stata fissata, a seguito della rinuncia all’istanza cautelare.
La questione è dunque molto delicata, perché nell’ipotesi in cui il Consiglio di Stato dovesse rivedere il proprio orientamento verrebbe a determinarsi un contrasto tra giudicati: il primo consistente nel rigetto dell’impugnazione del bando ed il secondo nell’annullamento del medesimo bando.
In tale situazione sembrerebbe quanto mai opportuna una rimessione all’Adunanza Plenaria sia per la rilevanza della questione, sia per il contrasto giurisprudenziale.
Entrando ora nel merito della questione si deve innanzitutto rilevare che la motivazione della sentenza è piuttosto complessa ed articolata, talché non è facilmente ricavabile una massima che riassuma fedelmente e compiutamente il contenuto della decisione: e ciò in mancanza di un passo riepilogativo dei vari concetti impiegati per giungere alla decisione.
Di qui il tentativo fatto da chi scrive di esercitarsi nell’ardua impresa di “massimatore”:
“L’espressione “contratti a titolo oneroso” di cui all’art. 3 lett. ii) D.Lgs. n. 50/2016 può assumere un significato alternativo ed in parte diverso rispetto all’accezione tradizionale che presuppone che il corrispettivo finanziario della prestazione contrattuale dell’appalto costituisca un elemento strumentale ed indefettibile per la serietà dell’offerta.
Deve pertanto ritenersi ammissibile un bando che preveda le offerte gratuite (salvo il rimborso delle spese) ogniqualvolta dall’effettuazione della prestazione contrattuale il contraente possa figurare di trarre un’utilità economica lecita ed autonoma, quand’anche non corrispostagli come scambio contrattuale dall’amministrazione appaltante.
Tale utilità è costituita dal potenziale ritorno di immagine per il professionista che può essere insita anche nell’appalto di servizi a titolo gratuito per l’effetto indiretto di potenziale promozione esterna dell’appaltatore come conseguenza della comunicazione al pubblico della prestazione professionale” (Cons. di Stato, sez. V, 3 ottobre 2017 n. 4614: che annulla TAR Calabria-Catanzaro, sez. I, 13 dicembre 2016 n. 2435).
Il radicale contrasto tra il giudice di primo grado ed il secondo è reso evidente dalle massime (tratte da Lexitalia, agosto 2018) della sentenza del TAR Calabria-Catanzaro 12 agosto 2018 n. 1507 emessa dopo l’annullamento, da parte del Consiglio di Stato, della precedente sentenza, del seguente tenore:
“Una gara per l’affidamento dell’incarico per la redazione del nuovo piano strutturale comunale va qualificata quale appalto di servizi; tale natura è desumibile dalla natura imprenditoriale che si richiede all’organizzazione delle risorse, soprattutto umane, da parte dell’operatore economico partecipante, in considerazione della peculiare complessità dell’oggetto della specifica organizzazione e dalla predeterminazione della sua durata.
L’appalto pubblico di servizi rientra nella categoria dei “contratti speciali di diritto privato” connotata da una disciplina, di derivazione europea, derogatoria dei contratti di diritto comune, in ragione degli interessi pubblici sottesi e della natura soggettiva del contraente pubblico, e che trova la sua principale fonte nel cd. Codice dei Contratti Pubblici (d.lgs. n. 50 del 2016). Non vi è dubbio che, alla stregua di tale normativa speciale, il contratto di appalto sia contraddistinto dalla necessaria “onerosità” e sinallagmaticità delle prestazioni, essendo connotato sia dalla sussistenza di prestazioni a carico di entrambe le parti che dal rapporto di reciproco scambio tra le stesse. E’ pertanto illegittima la lex specialis di una gara per un appalto di servizi (nella specie per l’affidamento dell’incarico per la redazione del nuovo piano strutturale comunale) che non preveda alcun corrispettivo e l’affidamento a titolo gratuito” (TAR Calabria-Catanzaro, sez. I, 12 agosto 2018 n. 1507).
2) La sentenza del Consiglio di Stato.
Va detto, ai fini di una migliore comprensione della vicenda, che la decisione del Comune di Catanzaro di procedere all’affidamento gratuito dell’incarico di redazione del piano regolatore era stata preceduta da una richiesta di parere alla Corte dei Conti, Sezione Regionale di Controllo per la Regione Calabria, che si era espressa favorevolmente con delibera del 29 gennaio 2016 n. 6 (prima cioè dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 18 aprile 2016 n. 50).
La sentenza del Consiglio di Stato, pur dando atto nelle premesse dell’esistenza del parere favorevole emesso dalla Corte dei Conti, non vi ha fatto riferimento nella motivazione avendo seguito un diverso percorso logico-giuridico per addivenire alla medesima conclusione in ordine alla legittimità dell’appalto gratuito.
Sia la sentenza del Consiglio di Stato che il parere della Corte dei Conti sono stati pubblicati nella Rivista Trimestrale degli Appalti, n. 1/2018, con commenti di due autorevoli magistrati (Ezio Maria Barbieri e Pier Maria Piacentini, entrambi già presidenti del TAR Milano): il primo fortemente critico nei confronti della sentenza ed il secondo favorevole (ma non troppo) nei confronti della medesima sentenza, condivisa nel dispositivo più che nella motivazione(1).
Non è il caso di soffermarsi più di tanto sul parere della Corte dei Conti: non solo perché, come appena rilevato, è stato emesso prima del nuovo codice dei contratti pubblici del 2016, ma anche perché è impostato prevalentemente sugli aspetti civilistici del contratto di prestazione d’opera intellettuale più che su quelli pubblicistici derivanti alla disciplina europea (basti osservare che nel parere non è mai menzionata la direttiva UE 2014/24 che qualifica all’art. 1.2.a gli appalti pubblici di forniture, lavori e servizi come “contratti a titolo oneroso”).
La Corte dei Conti si sofferma invece sull’art. 7, comma 6 del D.Lgs 30 marzo 2001 n. 165 senza considerare che, ancor prima delle modifiche introdotte con l’art. 5 del D.Lgs n. 75/2017, prevedeva che gli incarichi individuali ad esperti estranei all’amministrazione dovessero essere conferiti previa determinazione anche del compenso della “collaborazione”.
Il suddetto parere richiama la giurisprudenza della Cassazione ed in particolare la sentenza delle Sezioni Unite del 19 settembre 2005 n. 18450 che ha ritenuto valida la clausola che subordina il compenso per la progettazione di un’opera pubblica alla concessione del finanziamento per la realizzazione dell’opera, in quanto ritiene che “il compenso spettante al professionista, ancorché elemento naturale del contratto di prestazione d’opera intellettuale, sia liberamente determinabile dalle parti e possa anche formare oggetto di rinuncia da parte del professionista”(2).
Stupisce che la sentenza del Consiglio di Stato richiami espressamente il quarto “considerando” della direttiva 2014/24 del 26 febbraio 2014 che all’art. 2 n. 5 definisce gli appalti pubblici come “contratti a tiolo oneroso…aventi ad oggetto l’esecuzione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi” (ed anche la definizione contenuta nell’art. 3 lett. ii) del codice n. 50/2016): e ciononostante esplicitamente riconosca di aver optato per una concezione “debole” del contratto a titolo oneroso, ritenendo che l’onerosità possa essere riconosciuta pur in assenza della “gratuità finanziaria” (espressione usata) che non andrebbe confusa con la “gratuità economica” (affermata in presenza del “potenziale ritorno di immagine”, avente valenza economica).
“Debole“, in verità, appare il ragionamento del Consiglio di Stato, anche in relazione alle argomentazioni usate per sostenere che l’onerosità economica (per l’amministrazione) non è un requisito indispensabile nei contratti pubblici.
Non pertinente appare il riferimento al contratto di sponsorizzazione che, pur non avendo natura onerosa per l’amministrazione, non comportando un’uscita finanziaria, “genera un interesse economico attivo per lo sponsor insito in un prodotto immateriale del valore aggiunto che va a suo vantaggio“(3).
Come è stato acutamente osservato, infatti, “il punto debole dell’argomentazione posta a base della sentenza in esame è costituito, a mio avviso, dalla difficoltà di individuare la prestazione dell’amministrazione capace di dare consistenza ad un sinallagma contrattuale che consenta di qualificare il contratto non come gratuito, ma come oneroso“(4).
Altrettanto “debole” è il riferimento alle “figure del c.d. terzo settore” che, secondo la sentenza, sarebbero “per loro natura prive di finalità lucrative, vale a dire di soggetti che perseguono scopi non di stretto utile economico, bensì sociali o mutualistici; a loro è stato ritenuto non estensibile il principio del c.d. “utile necessario”“.
Valga anche a tal proposito il rilievo che “in ogni caso l’ammissibilità chiaramente eccezionale di offerte “deboli” sembra riferibile a soggetti che riesce difficile ritenere strutturalmente e funzionalmente analoghi a professionisti, associazioni, imprese o società dediti alla programmazione urbanistica“(5).
Non va poi trascurato che l’invito rivolto ad una platea indifferenziata di professionisti a predisporre gratuitamente il piano regolatore di un comune capoluogo di regione (per il quale è previsto soltanto il rimborso spese fino all’importo di € 250.000: a riprova del rilevante impegno professionale richiesto) è solo apparentemente rispettoso del principio di libera concorrenza.
Infatti la “certezza di un costoso e prolungato impegno lavorativo sommata a gratuità ed aleatorietà del prestigio ricavabile conferiscono alla proposta contrattuale dell’amministrazione un carattere economicamente escludente rispetto a tutti coloro che, pur avendo la capacità professionale per formulare ed eseguire una propria offerta, sono privi della personale potenzialità necessaria per assumere un impegno del genere, mentre lo sarebbero se alla domanda si accompagnasse una giusta retribuzione. Gratuità ed aleatorietà conferiscono dunque alla proposta dell’amministrazione un’efficacia escludente…E’ ben possibile infatti, che non si possano affrontare mesi o anni di lavoro gratuito, pur avendo la possibilità di dotarsi di strutture capaci di dare esecuzione alla prestazione richiesta.
Questo effetto concretamente escludente di forze presenti sul mercato e potenzialmente capaci di fornire la prestazione richiesta rende l’offerta solo apparentemente aperta al mercato; essa, però è in realtà preclusiva della concorrenza ed appetibile soltanto da soggetti dotati di una propria capacità economica…”(6).
Pare a chi scrive che la critica di maggior rilievo che si può muovere al Consiglio di Stato relativamente al riferimento poco plausibile alle sponsorizzazioni ed al “terzo settore” sia che le ragioni che impongono di escludere le offerte anomale dovrebbero a fortiori condurre all’esclusione delle offerte gratuite: identico è il rischio che l’offerta anormalmente bassa o gratuita possa pregiudicare la buona esecuzione della prestazione.
Quanto al “ritorno di immagine” che, secondo il Consiglio di Stato, costituirebbe il corrispettivo non monetario della prestazione gratuita, si potrebbe allora paradossalmente sostenere l’ammissibilità delle offerte anormalmente basse proprio per il “ritorno di immagine” in capo all’appaltatore.
Pienamente condivisibili appaiono le critiche mosse alla sentenza da un autorevole giurista con un linguaggio facilmente comprensibile anche dai profani, che è il caso di riportare integralmente:
“Il ritorno di immagine per il professionista che lavora gratis per un ente pubblico è meno traducibile in cifre. In molti casi, anzi, il vantaggio indiretto potrebbe essere meno nobile e cioè potrebbe essere quello di acquisire “entrature” o rapporti privilegiati con uffici pubblici da rivendere alla clientela. Il passo può essere breve rispetto al limite del traffico di influenze illecite, millantate o meno che esse siano. In realtà, la sentenza si inserisce in un contesto generale nel quale da vari anni si sta affermando il principio della gratuità delle prestazioni rese alle pubbliche amministrazioni…. Prima o poi ci si renderà conto che questa china può essere pericolosa e creare inefficienze nel lungo periodo. Intanto i professionisti avranno un motivo in più per reclamare il ripristino dei tariffari minimi obbligatori o altre forme di equo compenso. Al di là di tutto andrebbe ricordato il noto proverbio secondo il quale “neanche il cane muove la coda per niente”(7).
Considerazioni non dissimili erano state formulate in precedenza anche nell’autorevole commento (come già detto: favorevole…ma non troppo) alla sentenza del Consiglio di Stato.
“In realtà, il vero problema che la fattispecie in esame pone è quello conseguente al fatto che, data la delicatezza dell’oggetto della progettazione, la gratuità della sua esecuzione possa indurre l’esecutore a prospettare soluzioni conseguenti a pressioni più o meno interessate. In proposito è vero che conseguenze del genere possono verificarsi anche nel caso di un contratto oneroso, ma indubbiamente la gratuità della prestazione rende più facile la possibilità di un simile evento. A questo punto, peraltro la questione finisce con l’esulare dal campo del diritto amministrativo per entrare in quello del diritto penale”(8).
3) Aspetti fiscali.
Non si possono sottacere le conseguenze di natura fiscale derivanti dall’affermazione del Consiglio di Stato circa la sussistenza, nel caso di specie, di un’”utilità pur sempre economicamente apprezzabile che nasca o si immagini vada ad essere generata dal concreto contratto” e cioè il “ritorno di immagine”: che potrebbe essere riconducibile alla produzione di un reddito.
È stato a tal proposito rilevato che la quantificazione di tale reddito, “mancando una manifestazione finanziaria, dovrebbe essere operata in base al criterio del “valore normale”. Nel caso oggetto della sentenza in rassegna, peraltro, la quantificazione non sembra presentare difficoltà, avuto riguardo all’articolazione della prestazione compiutamente descritta nel relativo disciplinare ed all’esistenza di parametri di determinazione dei compensi”(9).
Come ognun vede, dunque, al danno si aggiungerebbero anche le beffe.
4) L’equo compenso
Il Consiglio di Stato non ha potuto ovviamente tener conto, con la sentenza n. 4614/2017 (decisa in Camera di Consiglio il 9 marzo 2017 e depositata quasi 7 mesi dopo: il 3 ottobre 2017) dell’introduzione del diritto/obbligo dell’equo compenso, in base alla legislazione successiva.
In effetti l’art. 13 bis della legge sull’ordinamento forense è stato introdotto dall’art. 19 quaterdecies comma 1 del D.L. 16 ottobre 2017 n. 148, convertito dalla L. 4 dicembre 2017 n. 172 (recante “disposizioni urgenti in materia finanziaria e per esigenze indifferibili”: vale a dire la legge di bilancio).
In disparte la considerazione sulla singolarità della modifica dell’ordinamento forense operata in sede di conversione della legge di bilancio (come spesso accade con le leggi “omnibus” quali sono le finanziarie) va rilevato che il legislatore ha inserito nella legge finanziaria, con il consueto “maxiemendamento”, le disposizioni contenute nel disegno di legge governativo sull’equo compenso nel settore delle professioni legali(10), costituito da 7 articoli, poi trasfusi senza sostanziali modifiche nell’art. 13 bis introdotto, come appena ricordato, dall’art. 19 quaterdecies.
Di notevole rilievo appare la previsione della nullità (e non soltanto dell’inefficacia come disposto dall’art. 1341 cod. civ.) delle 9 clausole, considerate vessatorie, individuate al comma 5 dell’art. 13 bis (contraddistinte dalle lettere da a) a i)), ancorché siano state oggetto di trattativa e di approvazione.
Non meno rilevante è l’estensione dell’equo compenso, contenuta nell’art. 19 quaterdecies comma 2 “anche alle prestazioni rese dai professionisti di cui all’articolo 1 della legge 22 maggio 2017 articolo 81 i cui parametri sono definiti dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell’art. 9 del decreto legge 24 gennaio 2012 n. 1, convertito con modificazioni dalla legge 24 marzo 2012 n. 17”(11). Non solo, in quanto il comma 3 della dell’art. 19 quaterdecies sancisce l’obbligo della pubblica amministrazione, contenuto nel comma 3, di garantire il diritto dell’equo compenso a tutti i professionisti.
Dell’introduzione dell’equo compenso si è invece incidentalmente occupato il TAR Catanzaro con la già citata sentenza n. 1507/2018, sia pur osservando che la novella legislativa di fine anno 2017 non poteva essere applicata al bando impugnato che risale al 24 ottobre 2016: rilevando peraltro che da essa emerge “un principio volto ad assicurare non solo al lavoratore dipendente, ma anche al lavoratore autonomo, una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”.
Di qui l’affermazione, contenuta nella predetta sentenza indipendentemente dalla rilevanza nella fattispecie concreta esaminata, che “la configurabilità di un appalto pubblico di servizi a titolo gratuito si pone in disarmonia rispetto a tale affresco, tenuto conto che non ogni servizio prestato reca con sé vantaggi curriculari e di immagine tali da garantire, sia pure indirettamente, vantaggi economici tali da soddisfare il diritto ad un equo compenso”.
Il legislatore del 2017 non si è dunque limitato ad introdurre l’istituto dell’”equo compenso” relativamente alla professione forense ed alle altre professioni regolamentate dai citati parametri ministeriali, ma, come già anticipato, ha statuito al comma 3 dell’art. 19 quaterdecies che “la pubblica amministrazione, in attuazione dei principi di trasparenza, buon andamento ed efficacia delle proprie attività, garantisce il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto” (di qui, dunque, il corretto rilievo del TAR Catanzaro sull’inapplicabilità della norma ad un bando risalente al 2016).
Orbene, l’art. 13 bis della legge sull’ordinamento forense introdotto dalla legge finanziaria precisa, al comma 2, che ai fini della determinazione dell’equo compenso si debba tener conto dei parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministero della Giustizia adottato ai sensi dell’art. 13, comma 6: parametri che, in base al comma 2 dell’art. 19 quaterdecies, costituiscono il criterio per la determinazione dell’equo compenso per tutte le libere professioni.
V’è da ritenere che, a seguito della codificazione del diritto all’equo compenso a favore di tutti i professionisti, non potrà essere consentito ad una pubblica amministrazione prevedere la gratuità di una prestazione professionale: indipendentemente da quanto potrà decidere il Consiglio di Stato sull’impugnazione della sentenza del TAR Catanzaro n. 1507/2018: tanto più alla luce dell’art. 24 commi 8, 8 bis e 8 ter del codice dei contratti pubblici di cui alla nota n. 2 che precede.
È il caso di soffermarsi, da ultimo, sul comma 4 dell’art. 19 quaterdecies contenente la cosiddetta clausola di invarianza finanziaria che precisa come “dall’attuazione delle disposizioni del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Trattasi all’evidenza di una mera clausola di stile, priva di concreta rilevanza, come più volte riconosciuto in via generale dalla Corte Costituzionale con riferimento all’art. 81 comma 3, Cost., che sancisce che “ogni legge che importi nuovi o maggiori oneri provvede ai mezzi per farvi fronte” (si vedano le sentenze n. 18/2013, 132/2014 e 199/2018).
Valga in proposito richiamare la sentenza del Consiglio di Stato sez. III, 3 luglio 2018 n. 4062 che, richiamando il parere n. 45 del 6 luglio 2017 della Corte dei Conti, sezione di controllo per la Basilicata, ha precisato che “Il criterio di invarianza degli oneri finanziari è fissato, infatti, con riguardo agli effetti complessivi della norma e non comporta in sé la preclusione di un eventuale aggravio di spesa purchè tale aggravio sia “neutralizzato” nei termini sopra precisati, dal momento che ben potrebbe un singolo aggravio di spesa trovare compensazione in altre disposizioni produttive di risparmi o di maggiori entrate”.
Ne consegue che la clausola contenuta nel comma 4 dell’art. 19 quaterdecies (che, è il caso di sottolineare, non si riferisce specificamente al comma 3 che estende il principio dell’equo compenso alla pubblica amministrazione, ma a tutte le disposizioni dell’articolo) non può certo giustificare una deroga alla regola dell’equo compenso: ma impone “agli amministratori, che redigono la proposta di bilancio, ai responsabili finanziari e ai revisori dei conti, che sulla proposta si esprimono, giustificare che l’esercizio del potere discrezionale di previsione della spesa non alteri l’equilibro finanziario del bilancio, consolidando e realizzando le risorse delle quali possono disporre” (Cons. di Stato n. 4062/2018 dianzi citato).
Per tornare dunque alla vicenda di Catanzaro è il caso di osservare che se un comune deve bandire una gara per affidare il “servizio” di redazione del piano regolatore, dovrà reperire nel bilancio i fondi necessari per corrispondere l’equo compenso ai professionisti che sceglierà: nel rispetto di quanto previsto dall’art. 24 comma 8 del D.Lgs n. 50/2016 sul quale ci intratterremo tra poco.
L’obbligo di garantire l’equo compenso di cui all’art. 13 l. 31 dicembre 2012 n. 247 (relativa alle professioni forensi nonché a tutti i liberi professionisti a’sensi del comma 2 dell’art. 19 quaterdecies) si applica solo nei rapporti con “imprese bancarie e assicurative, nonché…imprese non rientranti nelle categorie delle microimprese o delle piccole o medie imprese” e non anche nel rapporto con i clienti “normali”(12).
L’estensione dell’obbligatorietà della regola dell’equo compenso anche ai rapporti tra i professionisti e la “pubblica amministrazione” di cui al comma 2 dell’art. 19 quaterdecies fa ritenere che qualunque “pubblica amministrazione” sia assimilata ai “clienti forti”.
Tale obbligo grava su tutte le pubbliche amministrazioni, quali che siano le loro dimensioni (dal comune di poche centinaia di abitanti al comune di Roma) che sono tenute ad applicare l’equo compenso nei rapporti con i liberi professionisti, con riferimento ai parametri ministeriali di cui all’art. 9 del D.L. 1/2012, convertito dalla L. 27/2012: trattasi della “legge Bersani”, che da un lato ha abrogato le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico, dall’altro ha previsto che “nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista è determinato con riferimento ai parametri stabiliti con decreto del Ministro vigilante”(13).
È il caso di soffermarsi (anche in relazione alla vicenda del piano regolatore di Catanzaro che ha dato lo spunto per queste riflessioni) sui “servizi attinenti all’architettura ed all’ingegneria” dei quali tratta l’art. 46 del D.Lgs n. 50/2016, ai fini dell’affidamento degli incarichi di progettazione, direzione dei lavori ecc, al quale rinvia l’art. 24 del suddetto codice dei contratti pubblici.
L’art. 24 comma 8 del codice demanda al Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di approvare “le tabelle dei corrispettivi commisurati al livello qualitativo delle prestazioni” per precisare che “i predetti corrispettivi sono utilizzati dalle stazioni appaltanti quale criterio o base di riferimento ai fini dell’individuazione dell’importo da porre a base di gara dell’affidamento”.
Il decreto è stato puntualmente emanato dal Ministro della giustizia il 17 giugno 2016, con il quale sono state approvate le suddette, con la precisazione, contenuta nel comma 2, che “i corrispettivi di cui al comma 1 possono essere utilizzati dalle stazioni appaltanti ove motivatamente ritenuti adeguati, quale criterio o base di riferimento ai fini dell’individuazione dell’importo dell’affidamento”.
Va rilevato, a tal proposito, che l’espressione “possono essere utilizzati” era contenuta anche nell’art. 24 comma 8 del D.Lgs n. 50/2016, sennonché il “correttivo” di cui al D.Lgs n. 14/2017 ha sostituito la dizione “possono” con le parole “sono utilizzati”.
Nessun dubbio, dunque, può sussistere in ordine alla vincolatività dei “corrispettivi” approvati dal ministero in attuazione dell’art. 24 del codice dei contratti pubblici, indipendentemente dall’introduzione del principio dell’equo compenso.
Merita ricordare a tal proposito la sentenza del TAR Abruzzo-L’Aquila del 9 agosto 2018 n. 331 che ha statuito l’obbligo della pubblica amministrazione di rispettare i parametri previsti dall’art. 24 comma 8 del codice dei contratti pubblici(14).
5) L’equo compenso e la libera concorrenza tutelata dai trattati europei.
L’introduzione del principio dell’equo compenso con riferimento ai parametri ministeriali (salutata ovviamente con favore dagli Ordini professionali) è stata criticata dai fautori della “liberalizzazione” più sfrenata in quanto ritenuta in contrasto con l’abolizione dei minimi tariffari (di cui all’art. 9 comma 1 del D.L. n. 1/2012 convertito nella L. n. 27/2012) in nome del principio di libera concorrenza.
Non è certo sufficiente rilevare che una legge successiva ben può modificare la precedente, in quanto è necessario verificare la compatibilità con la normativa europea dell’equo compenso, con riferimento ai “parametri” anziché alle “tariffe”.
Contrariamente a quanto ritenuto da taluni, non è affatto vero che la giurisprudenza della Corte di Giustizia consideri illegittimi – sempre e comunque – i minimi tariffari perché lesivi della libera concorrenza.
Giova soffermarsi, a tal proposito, sulla recente sentenza della Corte di Giustizia U.E. del 23 novembre 2017 nelle cause C–427/2016 e C–428/2016(15).
La Corte ha statuito, al paragrafo 58:
1- che il regolamento della professione forense, contenente il divieto di pattuire un onorario di importo inferiore ai minimi tariffari stabiliti dall’organizzazione di categoria degli avvocati bulgari, “è idoneo a restringere il gioco della concorrenza nel mercato interno ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE”;
2- che “spetta al giudice del rinvio verificare se tale normativa, alla luce delle sue concrete modalità applicative, risponda effettivamente ad obiettivi legittimi e se le restrizioni così stabilite siano limitate a quanto necessario per garantire l’attuazione di tali legittimi obiettivi”.
È opportuno sottolineare la profonda diversità del sistema bulgaro preso in considerazione della Corte di Giustizia rispetto a quello italiano, non foss’altro per il fatto – come si legge ai punti da 5 a 9 della sentenza – che le tariffe degli avvocati bulgari sono determinate dal consiglio superiore dell’ordine forense (considerato dalla sentenza alla stregua di un’”organizzazione di categoria”) senza alcun intervento dello Stato e ciononostante il codice bulgaro di procedura civile e la legge sull’ordinamento forense stabiliscono l’inderogabilità dei minimi tariffari, tanto che la pattuizione di una remunerazione inferiore al minimo costituisce infrazione disciplinare
Il citato commento alla sentenza della Corte di Giustizia UE di cui alla nota 15 ricorda che questa ha già avuto modo di precisare, con la sentenza del 5 dicembre 2006 n. 94 nei procedimenti C-94/04 e C-202/04, che i motivi imperativi di interesse generale posti a fondamento del divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari devono ritenersi diretti (punto 64), da un lato alla tutela “dei consumatori, in particolare dei destinatari dei servizi giudiziali forniti da professionisti operanti nel settore della giustizia, dall’altro della buona amministrazione della giustizia”(16).
In base alla giurisprudenza europea, dunque, è lecito ritenere che le norme sull’equo compenso, introdotte con l’art. 19 quaterdecies della l. 172/2017, assurgano a “motivi imperativi di interesse pubblico” tali da giustificare la restrizione della libera prestazione di servizi prevista dal combinato disposto degli artt. 101 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e 4, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione.
Non si può sottacere la presa di posizione dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato che (il giorno prima del deposito della sentenza della Corte di Giustizia dianzi citata!) segnalò al Parlamento il proprio dissenso in ordine alla normativa sull’equo compenso allora in itinere per il ritenuto contrasto con i “consolidati principi antitrust nazionali e comunitari” in tema di tariffe professionali, con ciò palesando una conoscenza a dir poco superficiale della giurisprudenza europea (appena ricordata) e rivelatrice in realtà di una “posizione fortemente preconcetta dell’Autorità”(17).
6) L’equo compenso e gli artt. 35 e 36 della Costituzione.
La legge sull’equo compenso (art. 19 quaterdecies l. n. 148/2017) rappresenta una tappa rilevante del percorso legislativo volto a tutelare anche i lavoratori autonomi (liberi professionisti compresi) in nome degli artt. 35 e 36 della Costituzione: ritenuti inapplicabili ai professionisti dalla giurisprudenza (si veda, da ultimo, Cass., 25 gennaio 2017 n. 1900) nonostante la Corte Costituzionale non abbia mai escluso – nelle poche sentenze emesse sull’argomento – l’applicabilità dell’art. 36 anche ai professionisti.
Si vedano a tal proposito le sentenze 7 luglio 1964 n. 75 e 25 marzo 1980 n. 36, che hanno ammesso l’astratta applicabilità ai liberi professionisti degli artt. 35 e 36 della Costituzione, ma con riferimento all’attività complessiva, indipendentemente dai singoli rapporti e dalle singole prestazioni(18).
Se ci soffermiamo sui 3 interventi legislativi del 2017 (in ordine di tempo: L. 22 maggio 2017 n. 81 (jobs act autonomi),(19) D.L. 16 ottobre 2017 n. 148 (equo compenso per gli avvocati) e L. 4 dicembre 2017 n. 172 in sede di conversione del precedente decreto legge (per l’estensione agli altri liberi professionisti dal lato attivo ed alla pubblica amministrazione dal lato passivo), dobbiamo rilevare che il legislatore ha compiuto un vero e proprio salto di qualità in favore dei liberi professionisti, ma non degli altri lavoratori autonomi tutelati dalla L. 81/2017.
Il diritto all’equo compenso dei liberi professionisti era stato preceduto dal riconoscimento di tale principio per i giornalisti dall’art. 1 della L. 31 dicembre 2012 n. 233, in dichiarata “attuazione dell’art. 36, primo comma, della Costituzione” relativamente ai “giornalisti titolari di un rapporto di lavoro non subordinato”.
La L. 81/2017 (jobs act autonomi) ha preceduto di pochi mesi il D.L. 148/2017 e la L. 172/2017 ed è stata considerata l’antesignana dell’equo compenso dei professionisti, ancorchè non contenga alcuno specifico riferimento agli artt. 35 e 36 della Costituzione, né tanto meno all’equo compenso(20): si applica ai rapporti di lavoro autonomo di cui agli artt. da 2222 a 2238 del codice civile (e quindi anche alle professioni intellettuali di cui trattano gli artt. 2229 e segg.) e prevede esplicitamente l’applicabilità dell’art 9 L. 18 giugno 1998 n. 1992 che vieta l’abuso dello “stato di dipendenza economica nella quale si trova…un’impresa cliente o fornitrice”.
In effetti l’art. 19 quaterdecies (che ha introdotto l’art. 13 bis della legge sull’ordinamento forense) si prefigge proprio di tutelare i professionisti: specie i giovani che si trovano maggiormente esposti alla “dipendenza economica” nei confronti dei clienti “forti”, come già detto, che sono dunque in grado di esercitare l’”abuso di dipendenza economica” di cui all’art. 9 della legge 192/1999(21).
In linea di fatto, peraltro, la legge sull’equo compenso non tutela tutti, indistintamente, i liberi professionisti, ma solo i più deboli: come è stato sottolineato, infatti, vi sono anche professionisti “forti” che, per il prestigio acquisito anche per la loro specializzazione in particolari materie, non possono essere considerati in una situazione di dipendenza economica nei confronti dei loro clienti. Renzo Piano può permettersi di regalare il progetto del Ponte Morandi, al pari di altri professionisti affermati che ben possono operare “pro bono” a favore di enti o associazioni benefiche(22).
Come ognun vede, dunque, l’equo compenso nasce per singole categorie professionali e non per tutti i professionisti e men che meno per tutti i lavoratori autonomi (tutelati dall’art. 35 Cost.): dapprima per i giornalisti (con la L. 233/2012 di cui s’è già detto) poi per i soli avvocati con il D.L. 148/2017, ma limitatamente alle convenzioni con i “clienti forti”, poi esteso agli altri professionisti con la legge di conversione 172/2017 che ha sancito l’obbligo di rispettare il principio dell’equo compenso anche in capo alle pubbliche amministrazioni.
Tutto ciò ha dato luogo a quello che eufemisticamente è stato definito un vero e proprio “groviglio interpretativo”, per non dire “normativo”(23).
7) Considerazioni conclusive.
Lo scritto ha preso le mosse dalla vicenda relativa all’incarico gratuito di redazione del piano regolatore di Catanzaro, che ha formato oggetto del contenzioso avanti il TAR Calabria ed il Consiglio di Stato, per soffermarsi poi sulla “sopravvenienza” (rispetto al suddetto contenzioso), costituita dall’introduzione del principio dell’equo compenso che debba valere anche per la pubblica amministrazione.
La nuova normativa va ad integrare l’art. 2233 cod. civ. che non è stato modificato laddove stabilisce che, in mancanza di accordo tra le parti spetta al giudice la determinazione del compenso.
Il riferimento, contenuto nell’art. 2233 cod. civ., alle tariffe professionali (abrogate) come s’è già ricordato, dalla “legge Bersani” del 2012, deve essere trasferito ai parametri ministeriali di cui all’art. 9 del D.L. 1/2012 convertito dalla L. 27/2012.
Al di là della nullità delle clausole vessatorie contenute nelle convenzioni con i clienti “forti”, di importanza decisiva è la statuizione contenuta nel comma 2 dell’art. 13 bis della legge forense, introdotto, come già ricordato dalla legge finanziaria 2018: “si considera equo il compenso…quando risulta proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto, nonché al contenuto e alla caratteristiche della prestazione legale, tenuto conto dei parametri previsti dal regolamento di cui al decreto del Ministro della giustizia adottato a’sensi dell’art. 13 comma 6”.
Del resto l’art. 9 della già ricordata “legge Bersani” prevede espressamente (beninteso per il caso di mancanza di preventivo accordo scritto) che in caso di controversia sulla misura del compenso, il giudice lo determina “con riferimento ai parametri”.
È lecito pertanto affermare che la norma abrogatrice delle tariffe avesse già allora implicitamente affermato il principio dell’equo compenso (sia pure senza usare questa espressione).
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, dunque, anche in relazione al “groviglio normativo” venutosi a creare per effetto della normativa introdotta nel 2017, sarebbe auspicabile un intervento legislativo meditato che disciplini l’equo compenso in via generale per tutto il lavoro autonomo, disciplinato dagli artt. 2222-2238 del cod. civ. e non soltanto per le libere professioni.
Che dire, dunque, in ordine ai contratti di appalto di servizi gratuiti? Che, indipendentemente dall’obbligo di tutte le pubbliche amministrazioni di rispettare il principio del diritto dei professionisti (ingegneri, architetti, avvocati eccetera) ad un equo compenso per le prestazioni richieste, l’idea di perseguire ad ogni costo un risparmio di spesa – senza valutarne le conseguenze – non appare conforme ai principi di buona amministrazione.
Come è già stato ricordato, infatti: “se è gratis, c’è l’inganno”(24).
Alberto Borella
*Il testo trae origine dalla relazione effettuata oralmente il 23 novembre 2018 al convegno annuale dell’Associazione Veneta Avvocati Amministrativisti a Castelfranco Veneto, arricchita con approfondimenti e note.
NOTE
(1) EZIO MARIA BARBIERI, Un appalto pubblico a titolo gratuito per la stesura di un piano regolatore (pag. 175 e segg.). PIER MARIA. PIACENTINI, Corte dei Conti, Autonomie locali e contratti pubblici (pag. 227) in Riv. Trim. Appalti, n. 1/2018: quest’ultimo non commenta soltanto la delibera della Corte dei Conti, ma anche la sentenza del Consiglio di Stato 3 ottobre 2017 n. 4614.
(2) Giurisprudenza da ritenersi superata a seguito dell’entrata in vigore del codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs n. 50/2016 che all’art. 24 comma 8 bis (introdotto dall’art.14 del “correttivo” n. 14/2017) prevede espressamente che “le stazioni appaltanti non possono subordinare la corresponsione dei compensi relativi allo svolgimento della progettazione e delle attività tecnico-amministrative ad essa connesse all’ottenimento del finanziamento dell’opera progettata”: a conferma del carattere necessariamente oneroso dell’”appalto di servizi di ingegneria ed architettura”.
(3) L’art. 24 comma 8 ter del D.Lgs n. 50/2016 (introdotto anch’esso dal “correttivo” n. 14/2017) stabilisce che “nei contratti aventi ad oggetto servizi di ingegneria e architettura la stazione appaltante non può prevedere quale corrispettivo forme di sponsorizzazione o di rimborso, ad eccezione dei contratti relativi ai beni culturali, secondo quanto previsto dall’art. 151”: ad ulteriore conferma del carattere necessariamente oneroso dell’appalto.
(4) Così BARBIERI, op. cit., pag. 178.
Anche PIACENTINI, op. cit., pag. 233, giudica fuorviante il riferimento alla sponsorizzazione stante la differenza intercorrente tra le due tipologie di contratto, pur dichiarando di condividere la soluzione data dal Consiglio di Stato in considerazione del “vantaggio, sia pure immateriale, derivante all’esecutore proprio dal ritorno di immagine“, osservando che interventi del genere vengono accompagnati dal nome dei loro progettisti, come la Nuvola di Fuksas a Roma o il Ponte di Calatrava a Venezia, e per quanto concerne i piani regolatori romani, il Piano Viviani del 1873 fino al Piano Giovannoni – Piacentini del 1931.
(5) BARBIERI, Op. cit. , pag. 180
(6) BARBIERI, Op. cit., pagg. 181-182
(7) MARCELLO CLARICH: “Sull’affidamento gratuito il rischio sotto traccia di un rapporto di scambio” in www.ediliziaeterritorio. 5 ottobre 2017.
(8) PIER MARIA PIACENTINI, Op. cit., pag. 234.
È il caso di sottolineare che la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato considera inammissibile in via generale un’offerta economica pari a zero (sez. V, 17 gennaio 2018 n. 269) e così anche sez. III, 1 aprile 2016 n. 1307 relativamente ad un appalto di servizi, ed inammissibile altresì un’offerta indicante il costo del personale pari a zero (sez. V, 12 settembre 2017 n. 4301).
(9) GIUSEPPE PIZZONIA, Prestazioni gratuite e compensi virtuali. Criticità fiscali a margine di una sentenza del Consiglio di Stato, in Rivista di diritto finanziario e scienza delle finanze, fasc. 1, 2018, pag. 9: l’autore paventa anche il possibile assoggettamento ad IVA di tale reddito virtuale.
(10) Disegno di legge A.C. 4631 presentato dal Ministro della Giustizia Orlando, approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 agosto 2017.
(11) La legge 22 maggio 2017 n. 81 è il cosiddetto “jobs act autonomi”: il riferimento a questa legge, contenuto nell’art. 19 quaterdecies è invero inspiegabile, dal momento che l’equo compenso non riguarda certo i lavoratori autonomi diversi dai liberi professionisti, ma soltanto questi (si veda anche la successiva nota 20).
(12) LEONARDO CARBONE, Il compenso dell’avvocato e i nuovi parametri forensi, nello “speciale digitale” allegato al fascicolo 11/2018 de “Il Corriere Giuridico” osserva a pag. 16 che “con la legge in questione viene ripristinato, quanto meno nei confronti dei c.d. “clienti forti”, in deroga al decreto Bersani sulle liberalizzazione dei compensi agli avvocati, un compenso equo rapportato alle tabelle parametriche. Occorre, però, precisare che tale “ripristino” o meglio tale tutela, non è di applicazione generale; infatti non si applica la riferita normativa ai rapporti avvocati/cittadini “normali”, ossia allorché il cliente è persona fisica e consumatore, che chieda al legale di tutelare i propri diritti contro, ad esempio, i vicini di casa. Si applica solo ai rapporti cliente/grande impresa (e pubblica amministrazione) forte dal punto di visto economico”.
(13) L. CARBONE precisa che “la disciplina sull’equo compenso “interessa” anche la pubblica amministrazione, anche se in forma più blanda, limitandosi la norma a statuire che la pubblica amministrazione deve garantire il principio dell’equo compenso in relazione alle prestazioni rese dai professionisti in esecuzione di incarichi conferiti” (op. cit pag. 17). Non pare peraltro che l’autore metta in discussione l’obbligo per la p.a. di rispettare i parametri ministeriali.
(14) Il giudice amministrativo ha annullato un bando di gara del 20 settembre 2017 per l’affidamento della progettazione e direzione lavori di restauro della Fortezza Borbonica di Civitella del Tronto e gli atti presupposti, tra i quali il provvedimento regionale che aveva stabilito di ridurre nella misura del 45,63% le spese tecniche, ancorché le stesse fossero state determinate in conformità dei parametri previsti dal D.M. 17 giugno 2016, per violazione dell’art. 24, comma 8 del D.Lgs n. 50/2016 giacché in tal modo “risulta stravolta la stessa ratio dell’art. 24 citato perché ai parametri ivi stabiliti, commisurati alla qualità delle prestazioni, la nota regionale sostituisce propri parametri, fissati percentualmente, del tutto svincolati dal livello qualitativo delle prestazioni ed attività di progettazione, né vale a ricondurli nell’alveo dell’art. 24 il fatto che gli importi a base d’asta siano stabiliti, all’interno del tetto massimo stabilito in astratto da detta nota, in ragione della natura dell’opera e dell’impegno intellettuale richiesto poiché è la stessa preventiva limitazione nel massimo che costituisce una non consentita deroga generale ed astratta ai parametri ministeriali”.
(15) La sentenza della Corte di Giustizia, pubblicata in “La nuova giurisprudenza civile commentata” n. 5/2018, pag. 620 e segg. è stata commentata da GIULIO DONZELLI con una nota dal titolo “La legittimità delle tariffe minime nella giurisprudenza della Corte di Giustizia” a pag. 626 e segg., di cui merita riportare le considerazioni riassuntive: “La Corte di giustizia torna a pronunciarsi sulle tariffe minime, che devono ritenersi legittime se sono volte a perseguire “motivi imperativi di interesse generale” nel rispetto delle condizioni di non discriminazione, necessità e proporzionalità. Ne consegue che il divieto di derogare convenzionalmente ai minimi tariffari non integra una violazione delle regole di concorrenza dell’Unione Europea se lo Stato membro definisce i criteri di interesse generale che presidiano la fissazione delle tariffe minime ed esercita un potere di controllo e di decisione di ultima istanza.
(16) Il passo citato è contenuto al punto 64 della sentenza della Corte di Giustizia n. 94/2006 relativa proprio alle tariffe forensi italiane. Rilevante è anche il punto 67:
“Se è vero che una tariffa che fissi onorari minimi non può impedire ai membri della professione di fornire servizi di qualità mediocre, non si può escludere a priori che tale tariffa consenta di evitare che gli avvocati siano indotti, in un contesto come quello del mercato italiano, il quale, come risulta dal provvedimento di rinvio, è caratterizzato dalla presenza di un numero estremamente elevato di avvocati iscritti ed in attività, a svolgere una concorrenza che possa tradursi nell’offerta di prestazioni al ribasso, con il rischio di un peggioramento della qualità dei servizi forniti”.
(17) Così, testualmente, SALVATORE MONTICELLI, L’equo compenso dei professionisti fiduciari: fondamento e limiti di una disciplina a vocazione rimediale dell’abuso nell’esercizio dell’autonomia privata, in Le nuove leggi civili commentate, fasc. 2/2018, pag. 318. E anche ANNA ALAIMO, “Lo statuto dei lavorati autonomi: dalla tendenza espansiva del diritto del lavoro subordinato al diritto dei lavori. Verso un’ulteriore diversificazione delle tutele” in “Le nuove leggi civili commentate, n. 3/2018, pag. 626, contesta all’AGCM di indossare “la lente dei principi e delle disposizioni sulla concorrenza…mentre il principio costituzionale di tutela (e di regolazione) del “lavoro senza aggettivi…art. 35 Cost. dovrebbe imporre di considerare almeno il principio di proporzionalità del corrispettivo un principio inderogabile di tutela anche di lavoro autonomo – specialmente se “economicamente dipendente” – fonte di un diritto indisponibile anche da parte dall’autonomia individuale”.
(18) La sentenza n. 75/1964 è relativa alla riduzione degli onorari dei notai per la compravendita di fondi rustici in favore della piccola proprietà contadina, tenuto conto della particolare disciplina della professione di notaio, caratterizzata dalla posizione di monopolio professionale, del numero chiuso delle sedi e della garanzia di integrazione mensile a carico dello Stato. La sentenza n. 36/1980 è relativa alla riduzione dell’onorario degli avvocati nelle controversie locatizie devolute alla competenza del conciliatore, giustificata dall’incidenza della materia in un settore particolarmente delicato della vita sociale.
(19) ADALBERTO PERULLI, “Il jobs act degli autonomi: nuove (e vecchie) tutele per il lavoro autonomo non imprenditoriale”, in Rivista Italiana di diritto del lavoro, fasc. 2/2017, pag. 173, rileva che “nel codice civile italiano il contratto d’opera…è qualificato come “senza vincolo di subordinazione” (art. 2222 c.c.) mentre nel diritto europeo il lavoro autonomo coincide addirittura con la nozione di impresa, onde neppure viene concepita la necessità di una tutela collettiva degli interessi di questa categoria di lavoratori”. Secondo l’autore nel lavoro autonomo più che alla subordinazione si deve attribuire rilievo alla “dipendenza economica” del prestatore d’opera nei confronti dei contraenti forti (imprese e pubbliche amministrazioni) e osserva che “in materia di compenso, poi, avrebbe dovuto trovare conferma quanto previsto all’art. 1, co. 7, lett. g) l. n. 183/2014, relativamente all’estensione del salario minimo legale alle collaborazioni autonome…Il legislatore dovrebbe prevedere che il compenso del collaboratore non possa comunque essere inferiore, a parità di estensione temporale dell’attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza ed esperienza sia analogo a quello del collaboratore”.
(20) Così ANNA ALAIMO, op. cit, pag. 589, dopo aver ricordato i precedenti tentativi diretti alla creazione di uno statuto per il lavoro autonomo, osserva che sarebbe stata auspicabile l’estensione del principio “all’intera area del lavoro autonomo e non alle sole prestazioni d’opera intellettuale” (pag. 624).
(21) PIETRO PAOLO FERRARO, Professioni intellettuali e abuso di dipendenza economica”, in Il Corriere giuridico, 2/2018, pag. 217 e segg., rileva che “la disciplina dell’equo compenso sembra presupporre che, nei rapporti relativi alle prestazioni professionali vi sia di regola parità di potere negoziale tra le parti, laddove in presenza di “clienti forti” si giustifica l’ingerenza del giudice di cui all’art. 19 quaterdecies”. L’autore auspica l’estensione della disciplina protettiva delle “microimprese” contro le pratiche commerciali scorrette contenuta nel D.Lgs 206/2005 ai professionisti con basso reddito e studi di dimensione contenuta ed un fatturato al di sotto di determinate soglie e meno strutturate da un punto di vista organizzativo. Interessante è la ricostruzione dell’iter legislativo compiuta a pagg. 224-225, soprattutto laddove riassume i contenuti più rilevanti del disegno di legge proposto nella precedente legislatura a firma del sen. Sacconi (AS 2858) che dettava una disciplina compiuta per tutte le professioni ordinistiche, prevedendo che “per compenso equo si intende la corresponsione di un compenso proporzionato alla quantità ed alla qualità del lavoro svolto, al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale” (art. 1), dovendo presumersi “fino a prova contraria manifestamente sproporzionato all’opera professionale e non equo un compenso di ammontare inferiore ai minimi stabiliti dai parametri per la liquidazione dei compensi dei professionisti iscritti agli ordini definiti dai decreti ministeriali…” (art. 2).
Tutto ciò “in attuazione dell’art. 36, primo comma, della costituzione” (art. 1).
(22) P. P. FERRARO, op. cit., pag. 220: “vi sono, infatti, ipotesi ricorrenti in cui il prestatore di lavoro autonomo, specie se appartenente a determinati ordini professionali, non può essere certo definito contraente debole, ma dispone viceversa di un elevato potere negoziale (come, ad esempio, qualora sia altamente specializzato); così come vi sono categorie di professionisti, per così dire, forti o comunque più forti di altri (basti pensare ai notai).
(23) A. ALAIMO, op. cit. pag. 624
(24) Citazione da Fontamara di Ignazio Silone, di M. ALESIO, Diritto e giustizia, fasc. 157/2017 pag. 3