Uno sguardo complessivo: i tre livelli del sistema

Il servizio idrico integrato può essere osservato a diversi livelli.

1. A un primo livello vi è la realtà materiale. Vi sono le opere, vi è la realizzazione e la gestione in concreto di tutto ciò che è necessario per fornire un servizio fondamentale e di grande ampiezza. La parola “acquedotto”, con la sua capacità di evocazione immediata, è quella che più rende l’idea di questo livello del servizio idrico.

In modo un po’ più articolato, a questo primo livello appartiene anzitutto la fase della ricerca di una risorsa idrica disponibile.

L’acqua evidentemente non si produce, bisogna trovarla in natura da qualche parte. Bisogna quindi capire dove la si può prendere, e a seconda di ciò realizzare gli impianti necessari, che potranno essere completamente diversi tra loro. Insomma, l’elemento del “dove” si trova l’acqua può comportare costi radicalmente diversi per la realizzazione e gestione delle infrastrutture necessarie.

Bisogna anche vedere come la si trova, e dunque verificare e monitorare costantemente la sua qualità.

L’acqua va quindi portata a tutti gli utenti, attraverso una fitta rete (che non solo deve esserci, ma non dovrebbe neppure perdere più acqua di quella che porta a destinazione…).

Vi è poi da smaltire l’acqua dopo che è stata utilizzata, e qui abbiamo le fasi della fognatura e della depurazione. Anche in questo caso, con una larga varietà di situazioni: è chiaro, ad esempio, che lo smaltimento delle acque reflue domestiche è cosa differente dallo smaltimento delle acque reflue utilizzate a fini industriali.

E infine l’acqua, dopo la depurazione, può essere oggetto di riuso.

Sono tutti passaggi di grande interesse sotto l’aspetto ingegneristico e costituiscono la “sostanza” del servizio.

Sono anche, ovviamente, passaggi di enorme rilievo economico (e al riguardo va ricordato il legame del tema con il PNRR).

Sono passaggi che possono entrare in crisi, e quando succede è necessario intervenire, in particolare per contrastare con urgenza la scarsità idrica (così nel titolo del recente decreto legge 39/2023).

 

2. A un secondo livello sta l’organizzazione amministrativa e l’inquadramento giuridico di questa complessa realtà tecnica, nei rapporti tra enti competenti, gestori, utenti, e nella necessità che questi rapporti garantiscano la sostenibilità del sistema.

A questo livello, sono soprattutto due macro-elementi a caratterizzare oggi il servizio idrico.

Il primo macro-elemento è il superamento della scala dimensionale dei Comuni (che sono certamente gli enti pubblici sentiti come più vicini dai cittadini, e che tradizionalmente hanno fornito la generalità dei servizi pubblici locali, a cominciare dall’acqua). Il riferimento per il servizio idrico non può oggi che essere a un ambito territoriale vasto, individuato per ragioni di bacino idrico e per ragioni gestionali, nel quale le varie fasi del servizio siano considerate in maniera integrata e vengano affidate a un gestore unico, che dunque deve disporre di tutte le infrastrutture necessarie, in un rapporto costante e di lunga durata con chi esercita le funzioni amministrative in quell’ambito, e – naturalmente – con gli utenti.

Il secondo macro-elemento è la pervasività del modello delle società “in house”, costituite per svolgere servizi che sono ad esse affidati in modo diretto perché quelle società sono all’interno del mondo pubblicistico. Sono, in un certo senso, delle società commerciali “finte” perché la qualità pubblica dei soci, il modo in cui tali soci devono operare e le finalità per cui usano lo strumento societario ne comportano una mutazione genetica rispetto al codice civile.

 

3. E poi c’è un terzo livello, quello della percezione da parte della collettività.

È un concetto molto più ampio della soddisfazione dell’utente per il servizio concretamente ricevuto e per il prezzo corrispondente. È la percezione dell’acqua come qualcosa di ben più ampio dell’oggetto di un rapporto di utenza.

Si tratta, appunto, di percezione. Ma ha un’importanza oggettiva perché è intensa e diffusa: è un “comune sentire”.

In realtà, tutto il mondo dei servizi pubblici ha come riferimento i cittadini-utenti. Gli utenti non sono cioè acquirenti di una prestazione; sono cittadini (nel senso di componenti di una collettività) che in quanto tali hanno diritto ad alcuni fondamentali servizi, e dunque a esserne utenti.

Ma questo è particolarmente vero con riguardo all’acqua, percepita come un bene pubblico inalienabile che l’autorità pubblica deve garantire a ogni persona, a ogni casa e a ogni attività.

I referendum del 2011 ne sono chiara dimostrazione.

Il campo della percezione è naturalmente il campo in cui si esprimono le sensibilità sociali, politiche e ideologiche, e ciò comporta qualche approssimazione sulle questioni tecnico-giuridiche.

I referendum del 2011 sono stati così percepiti – in modo assai approssimativo – come una scelta tra proprietà pubblica o privata dell’acqua, mentre ciò che può cambiare è la gestione del bene, non certo il regime proprietario (perché l’acqua, ai sensi dell’articolo 822 del codice civile, è un bene demaniale necessario).

Si tratta peraltro di una confusione comprensibile, perché – dietro ad essa – c’è una questione di fondo che è impressa nella nostra coscienza sociale: il confronto tra l’interesse economico privato e l’esigenza dell’utilizzo collettivo di risorse naturali scarse ma fondamentali.

 

La non accettazione di una gestione privata dell’acqua

C’è insomma qualcosa che va oltre le considerazioni sulla ragionevolezza, convenienza economica, correttezza giuridica delle scelte gestionali: l’affidamento del servizio idrico a un gestore unico privato incrocia una sensibilità (o forse iper-sensibilità) che un po’ tutti ci portiamo dentro sul tema dell’acqua.

A destare reazioni di preoccupazione e timore non è tanto il fatto che ci sia una gestione unica in un ambito territoriale vasto. E neppure la perdita del rapporto tra il bene acqua e il singolo ente locale. A non essere accettato è il gestore privato.

In questo quadro la società “in house” come forma di gestione su scala d’ambito è invece ampiamente accettata, nella percezione diffusa, non perché possa comportare un risultato di maggiore efficienza in virtù della sua rispondenza a modelli imprenditoriali privatistici. Tutt’al contrario: la società “in house” va bene perché è percepita come un’emanazione pubblica.

In questo quadro, non conta nulla che si tratti comunque di una persona giuridica privata. Anzi, in un certo senso, il servizio idrico integrato è la cartina di tornasole di cosa sono davvero le società “in house”: sono i Comuni, sono un altro cappello indossato sulle stesse teste.

I Comuni sono progressivamente estromessi, in quanto tali, da qualsiasi ruolo nel servizio idrico integrato, eppure li rivestono tutti. Sono nell’ente di governo dell’ambito. Sono le società cui è affidata la gestione (avendone un controllo analogo congiunto, secondo i noti meccanismi). Sono gli enti esponenziali dei cittadini-utenti.

Insomma, le società “in house” sono la garanzia che nulla esca dalla gestione pubblica. Al di là della distinzione tra le categorie dell’autoproduzione e dell’esternalizzazione, le società “in house” sono l’antitesi del mercato.

Ed è contro la penalizzazione legislativa del loro ruolo nel servizio idrico che si è manifestata una significativa reazione a livello sociale, quando la sensibilità sul punto che l’acqua deve restare totalmente in mano pubblica ha consentito un’ampia partecipazione ai referendum del 2011 e un esito chiaro del voto.

Sensibilità diffusa, dunque. E non importa che essa non sia esplicitata in una specifica disposizione a livello costituzionale. In particolare, nell’articolo 9 della Costituzione, riformato con legge cost. 1/2022, non c’è un “diritto all’acqua” (prevedendo il nuovo testo che la Repubblica “tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”).

Non c’è un riconoscimento formale, ma è come se ci fosse. (Se chiedessimo in giro, a chi non si occupi professionalmente di diritto costituzionale, se c’è un diritto all’acqua garantito costituzionalmente a ogni persona, credo che quasi tutti risponderebbero di sì).

 

I referendum del 2011: effetti normativi e non normativi

Vediamo dunque nello specifico gli effetti prodotti dai referendum del 2011.

I referendum che hanno interessato il servizio idrico integrato sono stati due, distinti tra loro (anche se normalmente se ne percepisce uno soltanto, avente ad oggetto un generale diritto all’ “acqua pubblica”).

Questi due referendum si sono svolti (insieme ad altri due) il 12 e13 giugno del 2011; hanno avuto una partecipazione di oltre il 50% degli aventi diritto al voto (circa il 55%), il che è tutt’altro che scontato nella storia dell’istituto referendario; e la larghissima maggioranza dei votanti (circa il 95%) si è espressa per l’abrogazione delle norme oggetto di referendum.

Il primo quesito ha così comportato l’abrogazione dell’articolo 23 bis del decreto legge 112 del 2008, convertito in legge 133 del 2008, riferito in realtà a tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica (tranne quelli già esclusi, come la distribuzione del gas).

Era una norma che, intervenendo sul testo unico degli enti locali, aveva posto la regola dell’affidamento con gara dei servizi pubblici locali (o in alternativa dell’affidamento ad una società mista con una partecipazione privata di almeno il 40%), considerando invece l’ipotesi dell’affidamento “in house” come una soluzione praticabile soltanto in “situazioni eccezionali”, ammissibile in via di deroga ma solo se adeguatamente giustificata.

Era una norma che già aveva passato quasi indenne il vaglio di costituzionalità (sentenza Corte Cost. 325 del 2010).

Era certamente un tentativo di “liberalizzazione”, e non contrastava con l’ordinamento europeo (che non poneva e non pone una preferenza tra le varie forme di gestione consentite, ma non impedisce all’ordinamento interno di esprimere una propria preferenza per il mercato).

Come detto, l’esito del referendum ha avuto effetti non solo per il servizio idrico integrato ma anche per altri servizi pubblici locali; e – quanto al servizio idrico – non ha comportato un obbligo di gestione pubblica dell’acqua perché è rimasto comunque possibile l’affidamento del servizio idrico nelle altre modalità consentite a livello europeo.

Dopo l’esito del referendum vi era anche stato il tentativo di reintrodurre la disciplina previgente, rendendola applicabile alla generalità dei servizi pubblici locali ad esclusione del servizio idrico integrato, diventato il principale oggetto del dibattito politico e sociale. Ma questo tentativo, effettuato con il decreto legge 138 del 2011 (convertito in legge 148/2011), è stato bocciato dalla Corte (sentenza 199/2012).

Il punto di approdo – quanto alla generalità dei servizi pubblici – è stata, quindi, la “doppia” disciplina del 2016.

Da un lato – cioè – quella del previgente codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 50 del 2016), che all’articolo 192 ha previsto la possibilità dell’affidamento “in house” con motivazione rafforzata sulle ragioni del mancato ricorso al mercato.

E, d’altro lato, quella del testo unico sulle società a partecipazione pubblica, il decreto legislativo 175 del 2016, con l’articolo 16 sui requisiti delle società “in house” (in linea con l’art. 5 del codice contratti del 2016).

Qual è ora la situazione normativa per il complesso dei servizi locali di interesse economico generale nell’ordinamento interno? C’è un’equiparazione tra le varie modalità di gestione? O c’è ancora un obbligo di motivazione rafforzata nel caso di affidamento diretto (dovendosi dimostrare le ragioni del mancato ricorso al mercato)?

Non c’è più, nel nuovo codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 36/2023), una norma corrispondente all’articolo 192 del vecchio codice. C’è invece l’articolo 7, che rinvia al decreto legislativo 201 del 2022, i cui articoli 14 e 17 ripropongono la disciplina “differenziata” dell’affidamento “in house”, e in particolare confermano per i contratti sopra soglia l’obbligo di una motivazione qualificata sulle ragioni del mancato ricorso al mercato.

Il nostro ordinamento non sembra pertanto porre un’equiparazione piena tra le modalità di gestione del servizio. (Anche se rimane, di fondo, il dubbio sulla reale sostanza di percorsi motivazionali che potrebbero alla fine concretarsi in esercizi di stile; e il dubbio sulla capacità di un giudice – per quanto speciale, come quello amministrativo – di sindacare effettivamente i contenuti di motivazioni di questo tipo).

Discorso a parte, naturalmente, vale per il servizio idrico integrato, che è oggetto della disciplina specifica posta dalle norme del testo unico ambiente (il decreto legislativo 152 del 2006 con le sue successive modifiche).

Per tale servizio non è affatto in discussione l’equiparazione tra le diverse forme di gestione. Al contrario, vi è semmai da chiedersi se sussista una preferenza per l’affidamento diretto a società pubbliche formate da tutti i Comuni di ciascun ambito.

Beninteso: nell’articolo 149 bis del testo unico dell’ambiente sull’affidamento del servizio idrico non c’è una preferenza per il mercato, ma neanche una preferenza per gli affidamenti “in house”.

Eppure si può presumere che nel servizio idrico una simile preferenza trovi spazio: insomma, una sorta di “onda lunga” – per così dire – dei referendum del 2011; o, più esattamente, un effetto della persistente sensibilità collettiva che si è espressa in quell’occasione.

 

Tariffa: copertura dei costi e funzione “educativa”

Quanto al secondo dei quesiti referendari nel 2011, con esso viene in rilievo specificatamente il servizio idrico integrato nei suoi profili tariffari.

Quel referendum ha comportato, in particolare, l’abrogazione dell’articolo 154 del testo unico ambiente nella parte in cui prevedeva che la tariffa dovesse contenere un’adeguata remunerazione del capitale investito.

Era un quesito referendario autonomo, ma è chiaro il legame con il primo quesito: l’acqua non va lasciata al mercato, e nessuno deve avere una garanzia di profitto investendo sul servizio idrico.

È dunque la stessa sensibilità diffusa a venire in gioco nei due referendum.

Dopo l’esito della consultazione, l’inciso che era stato oggetto del secondo referendum è venuto meno e dunque oggi la tariffa non garantisce più quella remunerazione.

L’art. 154 dispone ora che la tariffa “è determinata tenendo conto della qualità della risorsa idrica e del servizio fornito, delle opere e degli adeguamenti necessari, dell’entità dei costi di gestione delle opere [abrogato: dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito] e dei costi di gestione delle aree di salvaguardia, nonché di una quota parte dei costi di funzionamento dell’ente di governo dell’ambito, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio (…)“.

Inutile rimarcare in tale norma l’importanza del riferimento a opere e adeguamenti “necessari”: il procedimento di determinazione della tariffa non può in alcun modo indurre a trascurare ciò che è necessario a un servizio moderno ed efficiente (il che presuppone a sua volta una attenta pianificazione d’ambito).

Ma il sistema è aperto anche alla possibilità di determinare tariffe maggiori per i consumi che superano una certa soglia. Ciò risponde a una logica diversa dal recupero dei costi; risponde a una sorta di intento “educativo” al contenimento dei consumi, difficile da contestare specie se siano frequenti le situazioni di emergenza idrica.

Come in tutte le cose, è una questione di misura; cioè – nello specifico – è questione di ragionevolezza nella misura della differenza tariffaria.

 

ARERA, la regolazione del servizio, i costi indebiti

Nell’accennare al rapporto tra gestione e utenza, va ricordato il ruolo che ha assunto ARERA.

L’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (ARERA) è un organismo indipendente, istituito con la legge 481 del 1995 (“Norme per la concorrenza e la regolazione dei servizi di pubblica utilità. Istituzione delle Autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità). È formato da cinque componenti, nominati con decreto del Presidente della Repubblica. Ha il compito, attraverso l’attività di regolazione e di controllo, di promuovere la concorrenza, l’efficienza e la diffusione dei servizi con adeguati livelli di qualità, omogenei sul territorio nazionale.

I suoi compiti inizialmente non riguardavano il servizio idrico, ma erano limitati ai settori dell’energia elettrica e del gas naturale. Si sono tuttavia estesi nel corso del tempo e, con il decreto legge n.201/2011, convertito nella legge n. 214/2011, sono state attribuite ad ARERA funzioni anche in materia di servizio idrico.

Tra le competenze di ARERA in tema di servizio idrico integrato, di grande rilievo è la predisposizione e l’aggiornamento del metodo tariffario. In base ad esso la tariffa viene quindi definita, di regola dagli enti di governo dell’ambito, e poi trasmessa per l’approvazione ad ARERA (che ha un potere di determinazione d’ufficio se l’ente d’ambito o il gestore non forniscano i dati necessari).

All’interno del tema delle tariffe del servizio idrico integrato meritano una breve considerazione quelli che potremmo chiamare “costi pubblici”.

Riguardo ad essi, sembra opportuno partire dalla regola generale posta dall’art. 153 del testo unico ambiente (“Dotazioni dei soggetti gestori del servizio idrico integrato”), in base a cui: “Le infrastrutture idriche di proprietà degli enti locali ai sensi dell’articolo 143 sono affidate in concessione d’uso gratuita, per tutta la durata della gestione, al gestore del servizio idrico integrato (…)”.

Dunque, le infrastrutture del servizio idrico sono infrastrutture demaniali, come afferma l’art. 143 del testo unico ambiente (“Gli acquedotti, le fognature, gli impianti di depurazione e le altre infrastrutture idriche di proprietà pubblica – …- fanno parte del demanio ai sensi degli articoli 822 e seguenti del codice civile”). Ma sono concesse in uso gratuito per la gestione.

La regola della gratuità dell’uso delle infrastrutture pare tuttavia non in linea con quanto può accadere per le aree demaniali attraversate dalle reti del servizio idrico.

In particolare il problema si è posto per il demanio marittimo: dal passaggio delle reti attraverso di esso può derivare l’obbligo del pagamento di un canone di concessione. Canone che spesso non viene applicato nella misura – assai ridotta – del canone ricognitorio (un canone che risponde cioè solo all’esigenza di riconoscere l’esistenza del diritto demaniale: cfr. art. 39 Codice navigazione), ma in misura piena.

Le situazioni sono diverse, e vanno viste nello specifico. Ma infrastrutture e impianti necessari al servizio idrico integrato non possono essere considerati come se fossero destinati a fornire una normale prestazione nell’ambito di un rapporto contrattuale. È evidente infatti la loro destinazione a un servizio pubblico fondamentale.

Dunque pretendere per essi canoni concessori indebiti – o in misura indebita – significa determinare maggiori costi del servizio che si ripercuotono sulla tariffa.

È la stessa logica con cui si deve guardare all’imposizione fiscale sugli immobili funzionali al servizio.

Insomma: incrementare indebitamente i costi pubblici finisce per essere una forma di prelievo tributario nascosto nella maggiorazione della tariffa di un servizio pubblico irrinunciabile.

 

Tutele: le complicazioni della giurisdizione e le prospettive delle ADR

Passando ora ai modi della tutela nei confronti dell’operato del gestore e delle autorità competenti quanto al servizio idrico, va prima di tutto ricordato che contro i provvedimenti di ARERA il ricorso dev’essere proposto al TAR Lombardia.

Si tratta di un’ipotesi di competenza funzionale inderogabile. Non è certo questa la sede per esprimere critiche e proposte su tale forma di competenza, ma si può farvi un rapido cenno.

Il codice del processo amministrativo ha previsto un doppio criterio di determinazione della potestà giurisdizionale dei TAR, basato sulla competenza territoriale (art.13) e sulla competenza funzionale (art.14).

Quest’ultima norma si basa su un meccanismo legato non agli effetti dell’atto o alla sede dell’organo, ma all’assegnazione di particolari materie a determinati TAR (la ratio è data dalla competenza specialistica del giudice – confidando che vi sia … – e dalla auspicata uniformità delle decisioni).

In realtà, la competenza funzionale riguarda – quanto al TAR Lazio – una serie di casi assai eterogenei; quanto al TAR Lombardia, un’unica tipologia di controversie (quella in esame: cfr. art. 14, co. 2).

È da capire se vi siano ragioni sufficienti a giustificazione di tali scelte. Che peraltro non sembrano in linea con i principi costituzionali, e in particolare con il modello di distribuzione territoriale degli organi di giustizia amministrativa di cui all’art. 125 Cost.

Una semplificazione (certo radicale) potrebbe aversi con l’abrogazione dell’art. 14 del codice del processo amministrativo (insieme a quella del connesso art. 135), anche in relazione alle conseguenze che da tali norme derivano in termini di incertezza nella tutela.

Ad esempio, un problema che tipicamente si pone è se la competenza funzionale del TAR Lombardia attragga la competenza territoriale di un altro TAR nel caso che vengano impugnati atti connessi tra loro ma rientranti nella competenza di TAR diversi. Prevale la competenza funzionale del TAR Lombardia? O prevale la circostanza che l’atto di ARERA impugnato sia un atto presupposto ma non produca – in ipotesi – effetti immediati e diretti?

E poi, soprattutto, il settore è perfetto per sperimentare le possibili complicazioni del nostro sistema di riparto di giurisdizione, in una materia che è anche di giurisdizione esclusiva e alla quale si affaccia pure un giudice molto sui generis come il TSAP.

Non passerò in rassegna l’ampia casistica. Mi limito qui a dire che, dal punto di vista dei cittadini-utenti, mi sarebbe piaciuto trovare una chiave di lettura immediata e comprensibile per spiegare quando andare da un giudice o da un altro. Insomma, una regola pratica da tenere a mente e portarsi dietro per orientarsi.

Ma non c’è nulla di semplice né di sicuro: rimaniamo alle incertezze consuete.

La novità, invece, è un’altra.

ARERA promuove le forme di ADR, e ad essa fa capo uno sportello per il consumatore e un servizio di conciliazione.

Ora – con una delibera del 30 maggio scorso – ARERA, sulla base di norme del codice del consumo (art. 141 co. 6) e della propria legge istitutiva (art. 2, co. 24, lett. b, legge 481/1995), ha esteso l’obbligo del tentativo di conciliazione anche agli utenti del servizio idrico.

Tale procedimento è così divenuto condizione di procedibilità dell’azione giudiziale anche in questo settore (lo era già nei settori energetici).

È un sistema – in realtà ben più complicato di come ora sommariamente descritto – la cui rispondenza alle esigenze degli utenti andrà verificata, ma che sembra avere un carattere di serietà anche per l’obbligo che grava sui gestori del servizio idrico di partecipare alla procedura di conciliazione.

È vero che nel nostro ordinamento è fino ad oggi mancata una disciplina complessiva degli strumenti di risoluzione precontenziosa delle questioni di interesse degli utenti nel mondo dei servizi pubblici.

Ma l’esperienza di ARERA, affiancandosi al quadro dei rimedi non giurisdizionali regolati dal codice del consumo e promuovibili dagli utenti (cui rinvia l’art. 29 del decreto legislativo 201/2022), sembra muoversi in tale direzione.

Direzione certamente ragionevole: ferma la necessità di valutare in concreto l’idoneità di tali rimedi a dare effettiva possibilità di tutela, la dimensione non giudiziale ma precontenziosa sembra essere di regola quella più adeguata a fronte delle contestazioni degli utenti.

Stefano Bigolaro

 

*Il testo riproduce l’intervento tenuto al XXXIII Convegno di Cortina d’Ampezzo organizzato dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti dedicato alla memoria del prof. Feliciano Benvenuti sul tema dei “Cambiamenti climatici, acqua e beni comuni: una sfida per il presente, pensando alle generazioni future”.

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