- – Di tutti i lasciti del periodo pandemico al processo amministrativo, il più rilevante è dato dall’acquisita familiarità con una telematizzazione spinta del giudizio.
L’esperienza ha dimostrato che alcune di queste novità emergenziali non sono incompatibili con un ordinato svolgimento del processo e con l’organizzazione del lavoro nella Curia e negli studi legali[1]. Ne sono sortite, anzi, non poche conseguenze migliorative[2].
I timori legati al necessario apprendistato tecnologico si sono rivelati eccessivi e oggi possiamo riconoscere che l’epidemia ha fatto compiere un salto o, meglio, ha consolidato quel salto iniziato nel 2016 con l’introduzione del processo telematico.
- – Nel complesso, tutto questo è stato un bene.
Alcuni aspetti del consolidamento tecnologico lasciano, però, perplessi.
Ad esempio, il sistema ripone troppa fiducia sulle p.e.c. Esse sono il pilastro di tutto il p.a.t., ma sono uno strumento molto fragile, cosicché il processo telematico rischia di rivelarsi una statua di bronzo dai piedi d’argilla.
Anche senza affrontare i profili tecnici (è noto che i software di posta elettronica sono tra i mezzi di trasmissione dei dati meno solidi), una p.e.c., in definitiva, è una semplice mail e sono molti i disguidi che possono portare a trascurarla.
Ecco che l’affollamento della casella può far saltare un messaggio; che l’utilizzo di diversi dispositivi di consultazione può far segnare come letta una mail quando in realtà non è stata letta per niente. La p.e.c. arriva quando vuole lei e non una volta al giorno con il portalettere: si è portati a leggerla subito, quando si sta facendo dell’altro e perciò si rimanda a dopo il prendersene cura. Ma dopo ci si dimenticherà di farlo.
Si obietterà che questi inconvenienti sono superabili con l’ordinaria diligenza.
Non è del tutto vero, perché detti fattori vanno moltiplicati per il numero delle loro incidenze, che quando è elevato li trasforma in un dato statistico. Non si tratta di chiedersi se l’errore capiterà; ci si deve chiedere quando capiterà, magari facendo perdere un avviso di perenzione o la notifica di un appello.
È, tuttavia, irragionevole che l’esito di una causa possa dipendere da una disattenzione, tutto sommato, non troppo grave[3].
- – Anche altre novità vanno considerate con molta attenzione, benché fossero in gestazione da tempo, avendo trovato nell’epidemia solo un pretesto.
La prima riguarda il trasferimento integrale della competenza sulla disciplina del p.a.t. dal Presidente del Consiglio dei Ministri al Presidente del Consiglio di Stato[4].
Era già discutibile in sé che detta disciplina fosse riferita a un atto amministrativo neppure di natura regolamentare, perché l’art. 108 Cost. stabilisce pur sempre il principio della riserva di legge nella materia processuale[5].
Ma è più grave ancora che la disciplina del processo telematico sia stata consegnata al giudice che poi è chiamato ad applicarla, perché, per essere terzo rispetto alle parti, quel giudice deve essere terzo anche rispetto al regime del processo.
Inoltre, il trasferimento delle competenze sembra avere trasformato lo stesso ruolo del Consiglio di Stato. In modo simile a certe autorità indipendenti, il Consiglio di Stato ha acquisito, con la competenza sul p.a.t., un carattere di autorità di regolazione. Questo carattere, oggi, è solo marginale, ma i suoi sviluppi non sono prevedibili, visto che già si vorrebbe recuperare il dimenticato art. 14 del Testo Unico del 1924, dove si dice che lo stesso Consiglio “formula quei progetti di legge ed i regolamenti che gli vengono commessi dal Governo”[6].
Ad ogni modo, si è obiettato che il trasferimento delle competenze sul p.a.t. sarebbe solo formale, perché la disciplina del processo telematico resterebbe affidata alle stesse persone. Cioè proprio ai Consiglieri di Stato, chiamati ad agire ora come investiti della funzione a loro propria, ora come magistrati distaccati presso il Governo.
Questo rilievo è persuasivo, ma pone l’accento sul non meno sensibile problema delle cosiddette porte girevoli. Si tratta di un tema di viva attualità, dai contorni opachi e tale da incidere persino sull’effettività della rappresentanza democratica e sul principio di divisione dei Poteri[7].
- – Un altro lascito dell’epidemia è stato l’accentuarsi della pluralità dei riti, perché sono stati introdotti anche quello a stralcio[8] e quello d’immediata definizione (art. 72 bis c.p.a)[9].
Sono attualmente vigenti undici riti speciali e, anche nelle controversie ordinarie, sussistono otto sistemi alternativi per giungere a sentenza[10]. Questi ultimi dipendono quasi tutti dalla decisione del giudice e non dipendono dalle peculiarità della domanda presentata.
Il tutto vale a prescindere dalle prassi informali – favorite dall’adozione di protocolli locali – che aggravano la frammentazione dei riti, regionalizzandoli.
Il vecchio processo amministrativo, costruito in modo molto semplice (sia pure perché legato all’esistenza della sola azione di annullamento), si sta così trasformando in una selva intricata, con varietà di termini decadenziali e di preclusioni, a imitazione delle più discutibili riforme portate al processo civile.
La questione dei termini evidenzia non poche incongruenze. Basti pensare agli incerti confini dei processi a termini dimidiati[11] o alla stranezza per cui un provvedimento di diniego segue il regime ordinario dell’art. 29, mentre il pressoché equivalente silenzio-inadempimento va contestato con le forme degli artt. 31 e 117 c.p.a.[12].
Ogni preclusione – come, ad esempio, quelle che operano sui documenti e sulle memorie producibili ex art. 73 c.p.a., quando il giudice definisce la lite in sede cautelare – può, invece, portare a sentenza una causa immatura e rendere una giustizia meno puntuale.
L’affanno di svuotare i ruoli non giustifica sempre una risoluzione delle cause tanto sommaria. Il risultato, anzi, è incompatibile con la cura, per altri aspetti ricercata, di formare un ceto magistratuale particolarmente preparato. Non ha senso dotarsi di un giudice di raffinata professionalità, se poi le controversie vengono trattate in modo sbrigativo.
- – Un’altra riforma da cui possono derivare serie conseguenze è data dall’art. 17, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, che ha abrogato la cancellazione della causa dal ruolo e ha stabilito forti limiti al potere del giudice di concedere rinvii, a completamento di quanto a suo tempo introdotto con l’irrinunciabilità dell’istanza di fissazione dell’udienza.
La riforma ha lo scopo di ridurre i casi in cui il collegio vede sprecato il proprio studio dei fascicoli dall’insorgenza di sopravvenute istanze di differimento.
Detta motivazione è condivisibile solo in parte, perché la lite, infine, è nella disponibilità delle parti, rispetto alla quale le esigenze del giudice non debbono prevalere. Non si capisce, dunque, perché, se tutte le parti costituite chiedessero un differimento, il giudice dovrebbe essere vincolato a imporre la definizione immediata della controversia.
Va sfatato il mito retrostante a queste impostazioni. Il processo non è un servizio pubblico contingentato, perché è ben di più. È una delle funzioni fondamentali e, anzi, costitutive dello Stato. Per questo motivo, la giustizia non può essere erogata in modo contingentato. Si aumentino dunque i ruoli dei magistrati, ma non si diminuiscano le tutele.
È, d’altra parte, risaputo che ogni intervento operato d’ufficio dal giudice, quando non sia meramente strumentale alla prosecuzione della causa, altera la posizione processuale delle parti, favorendone alcune a scapito delle altre, con potenziale violazione del principio della parità delle armi. Tutto questo è quel che appunto può avvenire quando il giudice nega il rinvio o quando gli è preclusa la cancellazione della causa dal ruolo che le parti gli abbiano concordemente sollecitato.
Aggiungo che la cancellazione della causa dal ruolo, di cui compariva un breve cenno solo nell’art. 71 c.p.a., era un istituto sottovalutato, perché male utilizzato.
Essa era talvolta imposta dal giudice con coloriture para-sanzionatorie del ricorrente, se ritenuto colpevole di una condotta processuale disinvolta.
Non era questo, tuttavia, il corretto utilizzo dell’istituto. La cancellazione avrebbe dovuto corrispondere alla sospensione volontaria del processo, disciplinata dall’art. 296 c.p.c.[13] In quanto tale, la cancellazione era uno strumento utilizzabile solo su istanza di tutte le parti costituite in una prospettiva di piena disponibilità della controversia.
Con la cancellazione della causa dal ruolo, si è perso, così, uno strumento che, se correttamente impiegato, sarebbe stato utile nell’interesse di tutte le parti per una proficua gestione della lite e, indirettamente, per una opportuna definizione degli stessi rapporti della fattispecie sostanziale.
- – La cancellazione della causa dal ruolo stimola a parlare dell’istanza di fissazione dell’udienza, a riguardo della quale la novità è data dal fatto che non c’è stata nessuna novità, quando invece essa sarebbe stata opportuna.
Quanto, infatti, all’istanza di fissazione da prodursi in conseguenza del deposito del ricorso, questa è diventata un formalismo che non merita di essere conservato.
Ha acquisito rilievo, invece, l’istanza collegata alla perenzione ultraquinquennale[14], che, come è noto, consente al giudice di sgravarsi dal dovere di rispondere sul merito della domanda in virtù del proprio stesso inadempimento al preliminare dovere di fissare l’udienza.
In Italia, la perenzione per decorrenza infruttuosa del processo fu introdotta insieme all’istituzione delle sezioni regionali della Corte dei conti, quale strumento eccezionale per sfoltire l’ormai ingestibile arretrato accumulatosi nel contenzioso previdenziale[15]. Solo in ragione di tale eccezionalità, e non senza incertezze, poteva essere sostenuta la sua compatibilità con l’art. 24 della Costituzione.
Trasfusa nel processo amministrativo, detta perenzione è diventata un istituto ordinario.
Esso, però, è incivile ed è indegno di uno Stato moderno, che si vanti di garantire la piena tutela dei diritti.
Ne è consapevole qualunque avvocato abbia dovuto spiegare a un cliente che, dopo cinque anni, non solo il ricorso non è stato definito, non solo non è mai stato considerato dal giudice, ma è anche necessario ripetere un atto di impulso per evitare l’estinzione del processo.
- – Dal Covid è derivata un’ulteriore novità, benché essa non sia esclusiva del processo amministrativo[16]. Alludo all’Ufficio del processo e, con esso, alla creazione di una sorta di assistenti del giudice, i cui compiti sono ancora poco definiti.
In generale, temo che l’Ufficio del processo possa risolversi in uno strumento poco utile; altrimenti, sarà tale da portare a conseguenze inaccettabili.
Se, infatti, agli addetti all’Ufficio spettasse un semplice compito istruttorio sul fascicolo, il giudice sarebbe naturalmente portato a dubitare dell’affidabilità dello studio preliminare consegnatogli e, quindi, sarebbe spinto a ripetere in prima persona l’attività già da altri svolta, con dispersione dei mezzi impiegati.
Diverso sarebbe se all’addetto, fattosi novello Barbarius Philippus[17], fosse affidato, in modo surrettizio e sostanziale, un vero compito decisionale. È evidente, però, che questo secondo modello, benché effettivamente utile all’accelerazione dei processi, sarebbe in contrasto con il corretto svolgimento della funzione giurisdizionale, che può essere esercitata solo dai magistrati che ne siano stati ritualmente investiti.
In ogni caso, l’incarico degli addetti all’Ufficio del processo, durando poco più di un anno, è troppo breve. Si impegnano tempo e risorse per la formazione di queste nuove figure e, dopo averle addestrate, ci si priva del loro contributo proprio quando esso comincerebbe a essere davvero proficuo.
Pure i compensi di questi assistenti giudiziari, a mio avviso, sono troppo modesti, sia per la delicatezza della funzione assegnata, sia al fine di attrarre forza lavoro qualificata e, perciò, anche affidabile.
- – Vi sono due ultimi lasciti del periodo pandemico, ma non sono scritti nelle leggi.
Quanto al primo, dopo questi due anni, mi pare di cogliere una sorta di atmosfera rarefatta, quasi come l’aria che si respira in alta montagna, nel modo con cui i processi vengono celebrati. L’ambiente sembra sterilizzato e questo mal si concilia con il fatto che il giudizio è dialettica, concitazione e sangue.
Ho la sensazione – inevitabilmente soggettiva – che stia emergendo un processo amministrativo più aristocratico e ripiegato su una tipologia elitaria di contenzioso. Quando a me pare che la funzione del giudice amministrativo sia quella di garantire a ciascun cittadino un sistema di tutele prossimo e facilmente esperibile contro la preminente autorità imperativa dello Stato.
Il giudice amministrativo è, infatti, il giudice delle libertà e dei diritti pubblici soggettivi.
A me pare che il giudice amministrativo decida sempre meno sulle libertà e sempre più su questioni di forte impatto economico, legate a un sistema produttivo così tanto influenzato dagli interventi della mano pubblica.
Il giudice amministrativo è diventato anche un giudice di controversie tra privati, perché tali sono molte liti in materia di appalti, in cui la parte resistente assiste indifferente allo scontro per l’aggiudicazione della gara tra il ricorrente e il controinteressato, vere parti sostanziali del processo.
Quando pure, in questi due anni, il giudice si è occupato di libertà (mi riferisco, ad esempio, al contenzioso sugli obblighi di prevenzione sanitaria), l’impressione è che talvolta siano state seguite linee interpretative poco coraggiose, se non conformiste o addirittura supplettive dell’azione dell’autorità amministrativa[18].
Un mutamento nel senso ora raffigurato costituirebbe un tradimento della natura storicamente e ideologicamente propria del giudice amministrativo. Inoltre, esso potrebbe portare, negli anni e con le prassi, all’instaurazione di un modello di giustizia octroyée, che deve essere contrastata con energia.
- – Vi è, infine, un ultimo lascito di fatto del Covid che è dato dalla diminuzione del contenzioso.
Quasi in ogni parte d’Italia, i nuovi ruoli si sono assottigliati e pure l’arretrato probabilmente si è ridimensionato.
Forse, si dovrebbe approfittare dell’occasione per tentare una riforma generale del processo amministrativo, capace di condurre a una maggiore celerità dei giudizi e a una maggiore efficacia delle tutele, senza troppo temere l’impatto sullo svolgimento delle funzioni correnti che una tale iniziativa potrebbe arrecare.
Se si condivideranno queste considerazioni, mi si consentirà di esprimere le mie proposte de iure condendo, maturate (e revisionate) lungo alcuni anni.
Esse passano attraverso alcuni punti fondamentali, che qui riepilogo.
1) In primo luogo, propongo la trasformazione del rito da un modello di vocatio iudicis impura a un modello di vocatio iudicis pura[19]. In concreto, ciò significa posticipare la notificazione del ricorso alla resistente e ai controinteressati a un momento successivo al suo deposito e, soprattutto, successivo al decreto del giudice (da notificarsi unitamente) che fissa l’udienza di trattazione della controversia. Ciò consentirebbe di disporre fin dall’inizio di una prima udienza (a cui eventualmente assegnare funzioni di udienza-filtro, davanti al giudice in composizione monocratica) e di superare il più grave problema del processo amministrativo, che è dato dal non sapere se e quando l’udienza sarà fissata e il processo comincerà a marciare.
2) In secondo luogo, traendo ispirazione da quanto avviene in Germania, propongo che, operate le dovute eccezioni e limitazioni, il ricorso produca un automatico effetto sospensivo del provvedimento impugnato. Questo contribuirebbe a sollecitare la definizione dei giudizi (perché il giudice sarebbe preoccupato di non compromettere l’attività dell’amministrazione), fatta salva, in ogni caso, la possibilità per la parte resistente e per i controinteressati di chiedere provvedimenti cautelari a efficacia invertita rispetto al sistema attuale. Al potere imperativo dell’amministrazione si opporrebbe così un contropotere del privato idoneo a bloccare gli effetti del provvedimento. Il tutto, nella prospettiva di una parità dei rapporti più concreta di quella avanzata da chi vorrebbe ampliare le forme pattizie dell’attività amministrativa, le quali, peraltro, non sono prive di pericoli, giacché, sostituendosi al provvedimento, consentono di giungere a una regolamentazione della fattispecie sostanziale diversa da quella che i principi di tipicità e nominatività consentirebbero.
3) In terzo luogo, a imitazione del modello francese, propongo l’istituzione di Corti di appello, eventualmente su base ultraregionale, con sindacato esteso al fatto, a compensazione di un sindacato del Consiglio di Stato che dovrebbe essere ristretto alle sole questioni di diritto, unitamente alla previsione, in capo a quest’ultimo giudice, di un potere di rinvio al giudice del merito. Ciò affiderebbe al Consiglio di Stato una funzione nomofilattica più raffinata, perché non inquinata dalla specificità della valutazione dei fatti di causa.
4) In quarto luogo, propongo la diminuzione dei casi di competenza funzionale del T.A.R. Lazio, per favorire una deconcentrazione del contenzioso e per disincentivare l’attuale eccessiva vicinanza del giudicante ai più importanti centri decisionali dell’azione amministrativa.
Tutte queste proposte devono intendersi accompagnate da altre, più di dettaglio, sulle quali è possibile qui diffondersi.
Come tutte le proposte, esse sono discutibili, ma non lo è il tema della riforma generale del processo.
Dopo tutto, “se non ora, quando”?
Francesco Volpe
*Il testo riprende l’intervento tenuto al seminario del 20 maggio 2022, svoltosi in Padova e organizzato dall’Associazione Veneta Avvocati Amministrativisti dal titolo “Recenti modifiche del processo amministrativo: cosa rimane della disciplina emergenziale all’uscita dall’emergenza”.