A volte le riforme in concreto di maggior impatto altro non sono che il riconoscimento legislativo dei modi di impiego di istituti ben noti, colti nella loro naturale evoluzione.

Così è stato – ad esempio – per l’istituto della “sentenza semplificata”, ratifica legislativa di una sperimentazione veneta nell’impiego dell’udienza cautelare i cui principali artefici sono stati l’amico Ivone Cacciavillani e il presidente Gaetano Trotta.

E’ da tale considerazione di partenza che può dunque prendere le mosse questa breve riflessione sull’evoluzione della tutela cautelare nel giudizio amministrativo e, soprattutto, sul ruolo attuale dell’udienza cautelare: insomma, su quello che potrebbe già essere e spesso non è, sul fatto che basterebbe poco – in termini normativi e di condotte processuali – per valorizzare la centralità dell’udienza cautelare e consntire con essa un significativo sviluppo del sistema processuale amministrativo.

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La tutela cautelare è da sempre uno snodo fondamentale del processo amministrativo, sia per le ragioni che caratterizzano tutti i processi (il pericolo che la durata del giudizio pregiudichi la res controversa), sia per la peculiarità del processo amministrativo, che avendo ad oggetto provvedimenti dell’amministrazione pubblica esige un potere giurisdizionale capace di inibirne gli effetti nelle more del giudizio.

Nel corso del tempo, tuttavia, il carattere strumentale della tutela cautelare si è progressivamente spostato dalla sentenza verso la pretesa azionata.

La “sospensiva” classica, l’unica misura conosciuta per decenni nel processo amministrativo, era consona al processo di impugnazione su ricorso per la tutela degli interessi legittimi, soprattutto oppositivi.

Lungo e travagliato è stato il passaggio da questa tutela, prettamente inibitoria, ad una tutela più ampia e satisfattiva già in sede cautelare.

Un momento importante di svolta si è avuto con il Codice del processo amministrativo, quando il tema dell’incremento delle azioni e delle sentenze nel processo amministrativo si è correlato al tema dell’incremento delle pronunzie cautelari ammissibili, in uno sviluppo coerente dell’ordinamento[1].

L’insofferenza della dottrina si era manifestata nei confronti di forme cautelari “tipiche” (o della forma cautelare tipica della sospensione), auspicando forme “atipiche” che avrebbero garantito una tutela più piena, ma che si scontravano, ovviamente, con la legalità del potere amministrativo, la tipicità e nominatività dei provvedimenti.

Di qui – anche sulla scorta del nuovo Codice – una risposta giurisprudenziale senz’altro favorevole all’espansione delle forme cautelari, per cui la “sospensiva” ha finito per essere un “contenitore” e non un “tipo” di provvedimento: alle ordinanze classiche inibitorie e a quelle rese sugli atti negativi si sono affiancate ordinanze parziali; ordinanze a tempo; ordinanze interpretative; ordinanze sollecitatorie o propulsive di riesame; prescrittive di certi comportamenti, etc.

E dunque il provvedimento (o meglio la forma di espressione del potere amministrativo) non condiziona più la forma della tutela cautelare (il cui contenuto diventa “elastico”).

La tutela cautelare esige, e ha concretamente ottenuto, forme, contenuti, tempi non prefissati tipicamente, così da potersi adeguare concretamente alle diverse esigenze fatte valere in giudizio.

Il giudice amministrativo deve dunque emettere le misure cautelari che gli appaiono, secondo le circostanze, “più idonee” ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione del ricorso. Misure “innominate”, secondo gli auspici della dottrina e le tendenze ormai consolidate in giurisprudenza, l’aticipità diviene così imprevedibilità della misura cautelare di fronte alla variabilità delle fattispecie portate in giudizio.

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Certo, il provvedimento cautelare non può di regola prescindere dal giudizio di merito, non può essere autosufficiente nel definire la controversia.

Ma esistono anche nel processo amministrativo casi in cui la pronunzia cautelare è autosufficiente, perchè definisce la lite: ad esempio, nel caso di provvedimenti cautelari sollecitatori di un riesame, poiché il successivo esercizio del potere di riesame in ossequio alla pronunzia cautelare esaurisce quella lite. E naturalmente in sede cautelare effetti di definizione della lite si hanno nei casi in cui, rigettata la domanda cautelare, il provvedimento venga portato ad esecuzione con effetti irreversibili (demolizione; sgombero; espulsione). Rimane in tali casi l’azione risarcitoria, ma non viene mantenuta integra la res litigiosa.

Ed effetti irreversibili può naturalmente avere anche un’ordinanza cautelare favorevole, tanto che il legislatore prevede in tali ipotesi la possibilità di disporre una cauzione.

Del resto, la fase cautelare è sempre stata coinnestata – nel processo amministrativo – all’instaurazione del giudizio di merito.

Proprio questo persistente collegamento tra istanza cautelare e domanda principale, unito alla estensione dei contenuti della pronunzia cautelare e alla valorizzazione anche processuale della fase cautelare, delineano ora nettamente il possibile sviluppo del sistema.

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Il giudizio cautelare sta cambiando ruolo: oggi l’istanza cautelare e la conseguente udienza in camera di consiglio può diventare (e sta diventando) il mezzo per una prima verifica della causa anche ai fini della decisione di merito, il filtro delle domande portate in giudizio, il luogo dell’eventuale decisione del merito o della necessità di approfondimento nel merito.

Nel processo civile la domanda cautelare ha un grande rilievo, ma non è la regola; nel processo amministrativo, la stragrande parte dei ricorsi contiene un’istanza cautelare, non solo perchè il provvedimento impugnato deve essere fronteggiato con il potere inibitorio del giudice, ma anche perché il momento cautelare è oggi il passaggio attraverso il quale si può giungere direttamente alla decisione di merito o comunque perseguire un suo più rapido raggiungimento[2].

La fase cautelare può cioè divenire il luogo di verifica preliminare, alla prima udienza successiva alla presentazione del ricorso, dell’esigenza di tutela invocata.

Tale esigenza può essere soddisfatta dalla stessa misura cautelare atipica (che può anche essere autosufficiente); o può condurre ad una decisione di merito ove siano completi il contraddittorio e l’istruttoria e sentite sul punto le parti costituite[3].

E l’esito della domanda cautelare può inoltre condizionare la fissazione del merito[4].

In questa situazione, la fase cautelare può dunque legittimamente sottrarsi al confronto con il tradizionale elemento del “periculum in mora”, e dirigersi finanche a verificare se il ricorso possa essere deciso immediatamente[5].

Discorso a parte meriterebbero certo gli specifici riti, e andrebbero approfonditi i rapporti tra udienza cautelare e udienza di merito nei nuovi riti speciali “abbreviati” (disciplinati dagli artt. 119 e 120 del Codice) e in quello “superspeciale”, o “iper-abbreviato”, del co. 6 bis dell’art. 120 (introdotto dal D.Lgs. 50/2016 per l’impugnazione delle ammissioni e delle esclusioni nelle gare d’appalto).

Ma, in definitiva: nel quadro complessivo che si è fin qui esposto, è necessario considerare che la strumentalità della tutela cautelare nel processo amministrativo è cambiata, e che soprattutto può cambiare e sta cambiando il ruolo dell’udienza cautelare.

A fronte di questo cambiamento, la regola della condanna alle spese nella fase cautelare[6], che risponde all’evidente fine di disincentivare l’utilizzo dello strumento, appare antistorica e miope, in quanto volta a contenere – con le potenzialità espansive della domanda cautelare – l’effettività della tutela giudiziaria.

Deve invece apprezzarsi e valorizzarsi il fatto che l’udienza cautelare finisca per essere la prima (e preziosa) occasione di incontro fra le parti e il giudice, il luogo della verifica delle esigenze concrete di tutela e dello stato del processo, così da consentire l’adozione di tutte le misure necessarie per una efficace protezione degli interessi in gioco e insieme per una celere conclusione del processo.

E’ opportuno che tale occasione possa essere esplicitamente riconosciuta dal legislatore.

Ma ancor più importante è che la sensibilità di avvocati e magistrati possa utilizzare le potenzialità dell’udienza cautelare ai fini di uno sviluppo del processo amministrativo in termini di miglior efficienza e più adeguata tutela.

Vittorio Domenichelli

 

[1] Questa correlazione è stata confermata dall’eliminazione nel testo dell’art. 55 del Codice di ogni riferimento al “provvedimento”: in precedenza l’art. 21, 8° co. L. T.A.R. conteneva ancora un riferimento al “pregiudizio derivante dall’esecuzione dell’atto impugnato”, ovvero “dal comportamento inerte dell’amministrazione”. Il 1° co. dell’art. 55 si limita invece a prevedere come presupposto della richiesta cautelare l’“allegazione” “di subire un pregiudizio grave ed irreparabile durante il tempo necessario a giungere alla decisione sul ricorso”.

[2] Oltre ovviamente alla possibilità della sentenza “semplificata”, si ricordi che l’art. 55, co. 10 del Codice, ha preso atto di ciò stabilendo che il giudice, in sede cautelare, se ritiene che le esigenze del ricorrente siano “apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio di merito, fissa con ordinanza collegiale la data di discussione del merito”.

[3] E’ importante notare che l’art. 60 del Codice non subordina più la sentenza semplificata alla manifesta irricevibilità, inammissibilità, fondatezza o infondatezza del ricorso, lasciando al Collegio (”può”) la decisione sul punto e condizionando la decisione solo a profili procedurali (che siano trascorsi almeno 20 giorni dall’ultima notificazione), salvo che una delle parti chieda termine per proporre ricorso incidentale, motivi aggiunti o regolamento.

[4] L’art. 55, co. 11 del Codice stabilisce più in generale che l’ordinanza con cui viene disposta una misura cautelare fissi anche l’udienza di merito. Mentre il Consiglio di Stato, se conferma l’ordinanza, e questa non abbia fissato il merito, dispone che il TAR provveda con priorità.

[5] Come detto, l’art. 60 del Codice “generalizza” la decisione in forma semplificata senza più tipizzarne le ipotesi.

[6] Art. 57 del Codice

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