Uno degli equivoci più ricorrenti nella “gestione” dell’istituto del giudicato regolato dall’art. 2909 c. c., (“l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti e i loro eredi o aventi causa”) nell’interpretazione/esecuzione delle sentenze del Giudice Amministrativo, avviene con trasposizione ”meccanica” (senz’alcun discernimento) dell’istituto (quant’altro  mai provvido) del giudicato civile: un vero travisamento dell’istituto!

 

L’istituto civilistico

Riandando ai latinucci di scuola, tornano alla memoria i soliti: facit de albo nigrum (fa bianco quel ch’era nero), quadrata aequat rotundis  (fa diventar quadrate le cose ch’erano rotonde), con la giustificazione di supporto: ne cives ad arma veniant: (per evitare che le parti trascendano nella violenza): la creazione di una verità legale, che toglie di mezzo ogni ulteriore pretesa/diatriba. Quella consacrata (è la parola!) nella sentenza è l’unica verità legale; col limite già fissato nel codice: “tra le parti, e i loro eredi o aventi causa”. Per chi non fu “parte” della causa così decisa, la “verità” resta “quella di prima”, come se la sentenza non fosse stata emessa e pronunciata.

La vincolatività inter partes del giudicato civile crea una doppia verità, quella legal-giudiziale, l’unica che “vale” tra le parti (ecco il facit de albo nigrum), e quella effettuale, che esce dal campo giuridico per sopravvivere se mai in quello del risentimento.

C’è un ben preciso presupposto condizionante l’assoluta vincolatività inter partes del giudicato civile, rappresentato dalla piena e totale disponibilità delle parti del processo del rapporto giuridico controverso; tant’è che se qualche contitolare del rapporto oggetto del giudicato non fosse stato parte del processo, per cui lo stesso giudicato resterebbe privo d’effetto, proprio tamquam non fuisset.

Una definitività ed irretrattabilità ampiamente giustificate -anche se solo inter partes– per assicurare, almeno sul piano giuridico, la stabilità dei rapporti intersoggettivi: l’antico ne cives ad arma veniant. Ecco la perentorietà dell’art. 2909 del Codice del 1942, che peraltro regola appunto solo il rapporto civilistico tra soggetti aventi la piena e totale titolarità e disponibilità del rapporto giuridico oggetto del decisum.

 

La separazione delle materie

Tale disciplina non può in nessun modo applicarsi ad un decisum in cui sia parte un organo della PA, semplicemente perché, nel nuovo assetto costituzionale, nessun organo della PA ha la totale disponibilità giuridica del rapporto oggetto del decisum, volta che l’esercizio della pubblica funzione è soltanto un servizio al cittadino, che dev’essere adempiuto con fedeltà e onore, come dispone l’art. 54.2 Cost., onde sia assicurato il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, come dispone l’art. 97 Cost..

Per cogliere la novità della tesi qui esposta (tanto radicata la perfetta parificazione dell’applicazione dell’istituto del  giudicato alle due “giustizie” -civile e amministrativa- da far apparire stravagante ogni tesi non rigorosamente allineata) occorre un breve excursus storico: il diritto civile più risalente (giusto per un riferimento più ravvicinato, a partire dal Codex di Giustiniano del 539) era limitato ai rapporti “tra privati”; i rapporti del soggetto privato con la Pubblica Autorità (intesa in senso moderno) poggiava sulla punta della spada del dominus. Fu solo nella Repubblica Serenissima che venne introdotto (novità assoluta nella storia del diritto universale) la possibilità di impugnare avanti ad un judex della Repubblica un atto amministrativo (diremmo oggi) di qualsiasi organo della “PA” (per illustrazione cfr il mio Il sistema di ”Giustizia amministrativa” nella Serenissima Repubblica di Venezia, in Studi in onore di  Leopoldo Mazzarolli, Padova, Cedam, 2007, vol. IV, pp. 55-68).  

 

La Giustizia Amministrativa

La Giustizia Amministrativa come oggi (Repubblica Veneta ovviamente a parte) concepita risale, secondo il De Toqueville (1805-1859), ad un’iniziativa del Re di Francia del 1856, che l’istituì ex novo appunto un Giudice “suo”, che giudicasse delle pretese che qualche cittadino osasse avanzare avanti al giudice per contestare l’operato d’un organo “pubblico”; da tali “giudizi” il Re sistematicamente usciva soccombente, tanto frequente era l’arbitrarietà degli atti impugnati ed il Re veniva condannato a dei facere talora nient’affatto graditi. Fu così che istituì appunto una Giustizia Amministrativa, con dei “suoi” Giudici, che limitassero le “condanne” e che comunque evitassero la condanna del Re al rimborso delle spese processuali a favore del ricorrente pur vittorioso (ecco la remota genesi della così frequente compensazione delle spese a favore della PA soccombente nei giudizi amministrativi!)

Lo Statuto di Re Carlo Alberto del 1848 si colloca sulla stessa scia di pensiero, bene espressa dal suo art. 5, “solo al Re appartiene il potere esecutivo”, il soggetto privato era solo un “suddito” (“regnicolo” veniva ufficialmente qualificato), che con grato animo doveva accettare tutto quello che la sacra Maestà del Re si fosse degnata di ottriargli.

La Costituzione del 1948 ha radicalmente rovesciato -è la parola!- l’intero sistema, a cominciare dall’art. 1, che attribuisce al Popolo quella sovranità che prima spettava unicamente al Re. Ovvio e ben comprensibile che il passaggio dallo stato di suddito a quello di sovrano non sia stato assimilato, né dagli ”uomini di potere” (titolari di una “fetta di sovranità”), i quali ovviamente ed in tutta naturalezza amano comportarsi come delegati del Re piuttosto che come servitori del popolo, come velleitariamente li qualifica l’art. 98.1 Cost.; né dagli ex-sudditi, che, per ammansire i detentori del potere, generalmente preferiscono blandire che contestare. Fermo il detto, ancora attribuito al De Toqueville, che quando gli argomenti giuridici acquistano il colore verdeggiante del dollaro, acquistano anche una straordinaria capacità di convincimento.

 

L’assetto costituzionale

L’assetto della Costituzione -così radicalmente antitetico a quello statutario del 1848- ha tracciato una radicale separazione tra i due ”sistemi”, civile  e amministrativo, per cui è una vera mistificazione (tradimento) applicare tout court i principi civilistici (e quindi anche la preclusione del giudicato dell’art. 2909) al decisum intervenuto in un processo in cui sia stato parte un organo della. PA. La radicale distinzione tra le due “Giustizie” (Civile sui diritti del cittadino; Amministrativa, sugl’interessi legittimi, così definite le conseguenze derivanti al privato cittadino dall’esercizio della pubblica funzione oggetto del processo) è ben tracciata dagli artt. 102 e 103 Cost.. Il 103 regola la Giustizia Amministrativa come tutela dell’interesse del cittadino che si consideri leso da un atto/comportamento della PA, soggetto a sua volta alle regole proprie, comprendenti la doverosità dell’autotutela sull’atto lesivo della posizione giuridica di una “controparte” che lo stesso suo autore -re melius persensa- ritenga viziato sia nella forma che sul merito (artt. 21 quinquies, octies e nonies della L. 241/1990 e s.m.i).

 

Il giudicato amministrativo

Fermo che l’obiettivo della Giustizia Amministrativa è di verificare se l’atto impugnato sia conforme al suo paradigma legale e che il “buon andamento nell’imparzialità” è il valore supremo a cui tutto l’apparato amministrativo deve tendere, è ben evidente che la stessa efficacia della statuizione giudiziale (sentenza) sull’atto resta condizionata da eventuali mutamenti sopraggiunti anche successivi al giudicato. Giusto per fare un esempio paradigmatico, si faccia il caso d’una sentenza che dispone l’abbattimento o la confisca d’un edificio abusivo; ovvio che se sopraggiunge un condono edilizio, quel giudicato perde ogni effetto.

Per le sentenze amministrative l’art. 2909 non opera affatto con l’automatismo proprio delle sentenze civili, anche perché la PA (o la stessa che fu parte del relativo processo o altro Ufficio dotato di competenze sovraordinate nella materia) deve modificare il suo atto uniformandolo al nuovo assetto della funzione, statuendo sul rapporto secondo la nuova normativa, opportunamente modificando quindi quanto precedentemente statuito.

 

La centralità del cittadino e il limiti de giudicato del GA

Accanto alle regole/limiti funzionali, elemento centrale del nuovo assetto costituzionale, è la posizione centrale del cittadino dichiarata dal I comma dell’art. 98 Cost.: “i pubblici funzionari sono al servizio esclusivo della Nazione”. Nazione ovviamente intesa come complesso dei cittadini, del quale il destinatario del singolo intervento/provvedimento del pubblico funzionario fa parte. Per il singolo atto amministrativo, il relativo destinatario è la Nazione e ciascun atto dev’essere teso ad assicurare il ”buon andamento nell’imparzialità dell’Amministrazione” (97, I c.). Non par quindi dubitabile -per completare organicamente l’assunto sopra enunciato- che a carico del/i p. u. autore/i dell’atto divenuto contrastante con il pubblico generale interesse, scatti il dovere d’intervenire sull’atto “d’allora” che non abbia esaurito i suoi effetti, per raccordarlo col sopraggiunto nuovo assetto del pubblico generale interesse.

In tal caso, non solo il giudicato formatosi sul precedente cessato assetto del pubblico generale interesse non vincola, ma -sempre che il rapporto sostanziale da esso regolato sia ancora in atto- il p. u. autore di esso ha il dovere funzionale dell’autotutela sul suo primo atto, onde sia assicurato il rispetto del nuovo regime del pubblico generale interesse de quo agitur. Stretto dovere di funzione, al punto che l’insistere sul dare esecuzione all’atto pregresso -diventato non più conforme al dovere di funzione- potrebbe integrare anche l’abuso d’ufficio. Invero è la stessa natura della pubblica funzione, soltanto (ed è su quel soltanto che tutto si gioca!) regolata dell’art. 97.1 Cost., ad esigerlo.

Perché l’unico criterio-guida che deve ispirare/condizionare l’azione del Pubblico Funzionario é il servizio del cittadino. Tutto qui! Non più l’onore della sacra Corona del Re da salvare, ma solo il dovere di servizio.

Ivone Cacciavillani

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