Vorrei condividere con gli Associati alcune riflessioni su quello che sarà, a mio giudizio, il nostro futuro professionale.

Comincio osservando che la mia generazione forense – ho cinquantacinque anni – è figlia di quella che fiorì con l’istituzione dei TAR.

Favoriti dall’emergere di un nuovo tipo di contenzioso, allora aprirono molti studi specializzati nel trattare il diritto amministrativo.

Molti di noi, se non quasi tutti, siamo cresciuti in quegli studi e, una volta diventati “adulti”, abbiamo continuato a operare secondo quello stesso modello di posizionamento sul mercato.

Probabilmente, però, saremo gli ultimi che potranno ancora continuare in questo modo.

Indipendentemente dai fattori che li hanno suscitati (crisi economica, fiscalità, contributi unificati, sostituzione dei provvedimenti espliciti con gli istituti di semplificazione), il crollo generale del contenzioso amministrativistico e la scomparsa o quasi di certi suoi settori (edilizia, urbanistica, commercio…) non permetteranno più l’esistenza degli studi monospecialistici di diritto amministrativo.

Non che manchino del tutto le cause, anche di rilievo (penso a certi appalti o al contenzioso in materia di servizi pubblici o al contenzioso delle multiutility). Anzi, le dimensioni di alcune liti sono più ragguardevoli di quelle use un tempo.

Ma questo nuovo tipo di contenzioso, che è collegato a materie diverse da quelle finora tradizionali, non è in primo luogo ripetitivo: non si può prevedere, dunque, uno stabile e continuo ingresso nello studio professionale delle relative pratiche.

Inoltre, queste nuove cause sono proporzionate a nuovi interlocutori, perché anche i clienti sono cambiati.

Il consueto modello di imprenditore veneto posto alla guida di un’impresa a conduzione familiare sta diventando recessivo. Al contrario, le imprese si stanno sempre più concentrando in gruppi industriali di dimensioni maggiori.

Clienti di questo tipo chiedono un’assistenza diversa, meno legata al rapporto fiduciario e, invece, più onnicomprensiva. I loro manager, a differenza del vecchio imprenditore, non sono comandanti di compagnia, ma decidono dove e come dislocare intere divisioni, se non un intero esercito. Possono operare nel commercio o nel turismo, ma hanno un occhio puntato anche sulla finanza, sul prosecco, sull’edilizia o sulla produzione delle scarpe.

Per questi motivi, una causa può essere anche molto importante per la loro impresa, ma difficilmente supererà la dimensione tattica per raggiungere un grado “strategico”.

Spesso, inoltre, questi manager non sono neppure collegati alla proprietà del gruppo industriale. Sono, invece, manager professionisti che cambiano il gruppo industriale in cui lavorano come un calciatore professionista cambia la propria squadra.

Il loro modo di accostarsi al contenzioso, dunque, è psicologicamente diverso da quello di chi lavora sul proprio. Essi, infatti, si lasciano trascinare in minor modo dall’emotività della lite e dimostrano un’affezione verso l’impresa in cui lavorano assai più superficiale.

Costoro, invece, si sentono chiamati a dare risultati e, soprattutto, a conservare e a rendere operativa l’organizzazione interna del gruppo. Il che implica un’accentuata vocazione alla delega.

Perciò, come fa il Capo di Stato Maggiore con i suoi generali, essi vogliono entrare in uno studio legale che dia loro il pacchetto completo; cercano uno studio su cui scaricare il problema perché poi ci pensino altri che a tempo debito saranno chiamati a relazionare sulle modalità di conduzione dell’affare e sui risultati.

Inoltre, questi più ampi gruppi industriali spesso hanno consistenti problemi sia di diritto civile, sia di diritto amministrativo sia di diritto commerciale, per di più reciprocamente collegati e non vogliono investire tempo, peggio se prendendo decisioni sbagliate, per individuare quale sia lo studio professionale competente a seguire la singola pratica. Né vogliono perder tempo a interfacciare i diversi studi di cui si servono, quando la singola questione dovesse superare gli specifici confini di una determinata disciplina del diritto.

Per tutte queste ragioni, prevedo così che il diritto amministrativo mal si presti a essere praticato in studi monospecialistici e che, nel medio-lungo termine, esso sarà praticato essenzialmente da dipartimenti di studi strutturati più ampi, il cui corebusiness sarà espresso dal civile e dal commerciale ad alto livello, perché questi studi saranno maggiormente in grado di rispondere alle nuove esigenze di questi nuovi clienti e saranno a loro, in un certo senso, soggettivamente più proporzionati.

Chi vorrà fare amministrativo in modo autonomo dovrà ripiegare, invece, su quel contenzioso minore che oggi tendiamo a non trattare: extracomunitari, porti d’arma… operando in strutture in cui i costi di mantenimento dovranno essere progressivamente ridotti o addirittura eliminati.

Secondo la mia prospettiva, del resto, neppure gli studi associati, benché multidisciplinari potranno operare in miglior modo.

Invero, le diverse cellule che compongono questi studi associati rispondono, ciascuna di esse, ad un proprio vertice interno e quindi hanno propri ambiti di autonomia, di riferimento, di organizzazione del lavoro e di vaglio sull’accettazione degli incarichi.

Gli studi associati multidisciplinari, in realtà, non sono null’altro, se non una pluralità riunita di studi monospecialistici i quali operano condividendo i mezzi della produzione (studio, segreteria, attrezzature…). La loro funzione, essenzialmente, è quella di generare economie di scala e abbattimento dei costi; non è quella di offrire un diverso tipo di servizio alla clientela.

Quella clientela desidera, invece, entrare in uno studio legale e conferire sempre con lo stesso interlocutore, indipendentemente dal fatto che la questione sia di diritto commerciale, di fallimentare, di civile o di amministrativo. Spetterà poi a questo interlocutore smistare la pratica all’interno dello studio, assegnandola a chi di competenza, così svolgendo in luogo dell’imprenditore quel servizio d’individuazione del professionista competente e quel compito di collegamento tra i vari professionisti che l’impresa non ritiene più opportuno svolgere direttamente.

Questo servizio, per poter essere attuato, implica tuttavia un coordinamento interno; implica altresì che le varie cellule rispondano ad un unico vertice. Non vi è, infatti, nessuna forma di coordinamento più efficiente della gerarchia.

Dunque, servirà appunto un unico studio, suddiviso in vari dipartimenti, nessuno dei quali sia dotato di vera e propria autonomia organizzativa e professionale, mentre gli studi associati multidisciplinari sembrano meno adatti alle nuove esigenze del mercato.

Quando, poi, funzionassero pure da collettori di clientela tra le varie cellule che li compongono, si tratterrebbe comunque di incarichi proporzionati alla dimensione di ciascuna di esse, cioè proporzionati alle dimensioni di uno studio monospecialistico.

Se queste mie osservazioni sembrassero plausibili, deriverebbe una serie di interrogativi ai quali, in questo momento, non sono in grado di dare risposte.

Tuttavia, voglio ugualmente elencarli, anche in considerazione del rilievo che essi possono avere, oltre che il nostro futuro professionale, anche per quello della nostra Associazione.

In primo luogo, l’evoluzione del fenomeno che ho descritto è positiva o è negativa? Teniamo conto che tra gli aspetti meno gradevoli è anche il fatto che il concentramento del nostro contenzioso in grandi studi dipartimentalizzati implicherà anche una sua dislocazione geografica, per di più favorita dall’ormai incessante telematizzazione dei nostri servizi. A breve non vi sarà nessun motivo per cui il gruppo industriale veneto debba continuare a riferirsi ad una struttura legale veneta, anziché a una struttura milanese o romana. Tanto più che lo stesso gruppo industriale, forse, avrà nel frattempo trasferito la propria sede da Bassano a Milano o a Roma.

In secondo luogo, se giudicassimo che questa evoluzione sia per noi negativa, vi sarebbero modi o prospettive per invertire la rotta o si tratterebbe di una progressione su cui non possiamo incidere, ma che al massimo possiamo solo rallentare?

In terzo luogo, come si concilia, giuridicamente, la costituzione di questi studi dipartimentalizzati (e gerarchicizzati) con il divieto per gli avvocati di prestare la propria opera con forme di lavoro subordinato? Detto limite merita di essere superato con una riforma o va, invece, valorizzato? E quali risvolti, sul mercato forense, derivano dall’attuale, equivoca, situazione in cui molti Colleghi monomandatari operano di fatto come dipendenti (benché formalmente non lo siano) presso queste grandi strutture?

Infine, il tema delle specializzazioni forensi, su cui oggi siamo tutti chiamati a riflettere, è collegato a questa tendenza del mercato forense? E se non è indifferente, la favorisce o la ostacola?

Ritengo, in ogni caso, che quelli prospettati siano argomenti su cui l’Associazione debba riflettere anche in vista delle eventuali decisioni che dovesse, nel suo piccolo, prendere.

Francesco Volpe

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