Sommario: 1. Il quadro normativo. – 2. La responsabilità disciplinare del dipendente pubblico che assume cariche sociali incompatibili. – 3. I profili relativi alla responsabilità erariale. – 4. La responsabilità della società.

 

1. Il quadro normativo.
Il rapporto di lavoro del pubblico dipendente, a differenza di quello privato, è contraddistinto da un peculiare regime di incompatibilità che preclude la possibilità di svolgere attività commerciali, industriali, imprenditoriali, artigiane e professionali fintantoché è in essere il rapporto con il datore pubblico.
Il fondamento dell’incompatibilità tra attività istituzionale e extraistituzionale è comunemente individuato nel dovere di esclusività del rapporto del pubblico dipendente con l’amministrazione, discendente dall’art. 98, co. 1, della Costituzione, per il quale “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”.
È infatti ritenuta imprescindibile la necessità di evitare che, a seguito dell’assunzione di più incarichi, il pubblico dipendente si venga a trovare in situazioni di conflitto di interessi o di assoluta incompatibilità con l’attività principale svolta presso l’amministrazione di appartenenza1.
Ebbene, ai sensi dell’art. 2, co. 1, lett. c) della legge 23 ottobre 1992, n. 421, richiamato dall’art. 40, co. 1 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, la disciplina dell’incompatibilità tra il pubblico impiego e le altre attività è stata sottratta alla contrattazione collettiva per essere riservata alla legge.
In particolare, attualmente, l’obbligo di esclusività è sancito dall’art. 53, co. 1 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi del quale “Resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilità dettata dagli articoli 60 e seguenti del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, salva la deroga prevista dall’articolo 23-bis del presente decreto, nonché, per i rapporti di lavoro a tempo parziale, dall’articolo 6, comma 2, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 17 marzo 1989, n. 117 e dall’articolo 1, commi 57 e seguenti della legge 23 dicembre 1996, n. 662”.
Tale norma, peraltro richiamata anche nei CCNL 2016-2018, sancisce un’estensione generale a tutti i dipendenti pubblici, compresi quelli non contrattualizzati2, della disciplina delle incompatibilità dettata dal testo unico degli impiegati civili dello Stato (artt. 60 e ss.). La stessa norma, inoltre, fa salve le disposizioni speciali vigenti per il personale docente, direttivo e ispettivo della scuola, per il personale docente dei conservatori di musica, per il personale degli enti lirici e del servizio sanitario nazionale3.
Per i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale, invece, è richiamata esclusivamente la disciplina del D.P.C.M. n. 117 del 1989 e della legge n. 662 del 1996, la quale prevede una serie di deroghe (attività liberalizzate o previamente autorizzabili) al regime delle incompatibilità.
In tale contesto, l’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001 dispone la permanenza del regime previsto dagli artt. 60-65 del d.P.R. n. 3 del 1957 per gli impiegati civili dello Stato.
In particolare, l’art. 60, in tema d’incompatibilità, stabilisce che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in Società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del ministro competente”.
Lo stesso legislatore, tuttavia, chiarisce che il divieto di assunzione di cariche in società costituite a fine di lucro non si applica alle società cooperative (art. 61)4, e quanto alle società a partecipazione pubblica, l’art. 62 dispone che “Nei casi stabiliti dalla legge o quando ne sia autorizzato con deliberazione del Consiglio dei ministri, l’impiegato può partecipare all’amministrazione o far parte di collegi sindacali in società o enti ai quali lo Stato partecipi o comunque contribuisca, in quelli che siano concessionari dell’amministrazione di cui l’impiegato fa parte o che siano sottoposti alla vigilanza di questa”5.
Da parte sua, la giurisprudenza contabile ha avuto modo di chiarire che non presenta carattere di incompatibilità l’assunzione di cariche in società costituite per il godimento di beni immobili poiché l’attività da esse svolta non assume i tratti propri dell’attività produttiva, né di quella commerciale, anche in presenza di attività gestionali e di valorizzazione lucrativa del patrimonio, a meno che i beni diventino il mezzo per svolgere un’attività d’impresa (c.d. beni strumentali)6.
È stato poi chiarito che questa incompatibilità assoluta, se da un lato vieta al pubblico dipendente di assumere le cariche sociali di amministratore, consigliere e sindaco nelle società costituite a fini di lucro, dall’altro lato permette, senza la necessità di alcuna autorizzazione, la partecipazione azionaria in quelle stesse società7.
La medesima circolare, inoltre, ha evidenziato che la partecipazione a società agricole a conduzione familiare è da ritenersi possibile, purché l’impegno sia modesto, non abituale o continuato e, comunque, non vi sia una trasformazione industriale dei prodotti agricoli.

2. La responsabilità disciplinare del dipendente pubblico che assume cariche sociali incompatibili.
In primo luogo è opportuno indagare i profili sanzionatori previsti nei confronti del dipendente pubblico a cui venga conferita una carica sociale in violazione del regime delle incompatibilità sopra delineato.
Ora, con particolare riferimento alla responsabilità disciplinare, si segnala che l’inosservanza del divieto di cui all’art. 60 del d.P.R. n. 3/1957 comporta l’avvio del procedimento previsto dall’art. 63 del medesimo decreto.
Tale disposizione stabilisce che:
“L’impiegato che contravvenga ai divieti posti dagli articoli 60 e 62 viene diffidato dal ministro o dal direttore generale competente, a cessare dalla situazione di incompatibilità. La circostanza che l’impiegato abbia obbedito alla diffida non preclude l’eventuale azione disciplinare. Decorsi quindici giorni dalla diffida, senza che la incompatibilità sia cessata, l’impiegato decade dallo impiego. La decadenza è dichiarata con decreto del ministro competente, sentito il Consiglio di amministrazione”.
Dunque, l’iter prende avvio con una diffida emessa dal dirigente preposto. Essa è volta a far cessare lo svolgimento dell’attività incompatibile e conduce, in caso di inottemperanza da parte del dipendente pubblico, alla decadenza dall’impiego.
Secondo una parte della giurisprudenza, a rigore, la decadenza in parola non avrebbe natura disciplinare in senso proprio8. Secondo questa ricostruzione, infatti, la decadenza opererebbe in modo automatico nel caso di mancata rimozione della causa di incompatibilità con lo status di pubblico dipendente. Essa non sarebbe, dunque, la conseguenza di un inadempimento ma scaturirebbe dalla “perdita di quei requisiti di indipendenza e di totale disponibilità che, se fossero mancati ab origine, avrebbero precluso la stessa continuazione del rapporto di lavoro”.
Viceversa, nel caso in cui il dipendente pubblico ottemperi alla diffida entro quindici giorni, rinunciando così alle cariche sociali illegittimamente assunte, la decadenza dall’impiego non opererà ma la condotta posta in essere in precedenza assumerà rilievo sotto il profilo disciplinare, in considerazione della – pur se temporanea – violazione del divieto.
In tale ultimo caso, la sanzione dovrà essere commisurata valutando l’attività extralavorativa effettivamente espletata in favore della società privata, la durata della stessa, le mansioni affidate e la qualifica rivestita presso la p.a. di appartenenza nonché l’eco complessiva del fatto nella collettività.
Si può ritenere che qualora, per errore, sia stato autorizzato dal suo ente all’assunzione della carica sociale incompatibile, il dipendente dovrà essere ugualmente diffidato a cessare l’attività incompatibile ma, nei suoi confronti, non potranno essere mossi addebiti disciplinari, avendo egli fatto affidamento sull’autorizzazione concessa.

3. I profili relativi alla responsabilità erariale.
Considerazioni differenti, invece, possono essere svolte in tema di configurabilità dell’illecito erariale in capo al pubblico dipendente che assume cariche sociali incompatibili.
Sul punto è innanzitutto utile richiamare quanto disposto dal comma 7 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001:
“I dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. Con riferimento ai professori universitari a tempo pieno, gli statuti o i regolamenti degli atenei disciplinano i criteri e le procedure per il rilascio dell’autorizzazione nei casi previsti dal presente decreto. In caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti”.
Il comma 7-bis del medesimo articolo, inoltre, prevede che:
“L’omissione del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti”.
A corredo delle disposizioni appena richiamate, il comma 11 dell’articolo citato, sancisce che:
“Entro quindici giorni dall’erogazione del compenso per gli incarichi di cui al comma 6, i soggetti pubblici o privati comunicano all’amministrazione di appartenenza l’ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici”.
Peraltro, il comma 2 dell’art. 65 del sopra citato d.P.R. n. 3/1957 dispone che:
“I capi di ufficio, di istituti o di aziende e stabilimenti pubblici sono tenuti, sotto la loro personale responsabilità, a riferire al ministro competente, il quale ne dà notizia alla Corte dei conti, i casi di cumulo di impieghi riguardanti il dipendente personale”.
Le norme sin qui richiamate, come è intuibile, sono finalizzate alla dissuasione, in generale, del fenomeno dell’assunzione di incarichi extraistituzionali retribuiti e, al contempo, tracciano in modo evidente i contorni della responsabilità erariale in capo al dipendente che ponga in essere tali condotte, quantificando altresì, in via presuntiva, l’ammontare del danno patito dall’Amministrazione di appartenenza.
In effetti, la giurisprudenza contabile, anche di recente, non ha esitato a rilevare profili di responsabilità erariale in ipotesi di questo genere9.
Va segnalato, peraltro, che la Corte di conti, nel rilevare la responsabilità del pubblico dipendente in relazione all’assunzione di cariche sociali, ha avuto modo di specificare che non può assumere alcun rilievo l’attestazione relativa all’assenza – di fatto – dell’esercizio di attività gestionali da parte dello stesso, “in quanto la titolarità delle cariche in questione è connaturata ad un’attività gestionale”10.
I giudici contabili, tuttavia, hanno escluso la configurabilità della responsabilità amministrativa del dipendente pubblico quando “risulta provato e non contestato dalle parti il fatto che, a fronte dell’espletamento di incarichi svolti all’interno di società avente scopo di lucro, e quindi in violazione delle norme sull’incompatibilità, non siano stati percepiti nessun tipo di compensi”11.
Fermo quanto esposto sin qui, risulta ora particolarmente utile comprendere quale sia la natura della responsabilità di cui agli artt. 53, comma 7 e 7-bis del d. lgs. n. 165 del 2001, posto che, nel corso degli ultimi anni, l’inquadramento della stessa è stato al centro di un dibattito in seno alla giurisprudenza contabile.
Tale contrasto, lungi dall’essere prettamente teorico, ha molteplici ricedute sostanziali e processuali. Invero, la qualificazione di una fattispecie come sanzionatoria pecuniaria “pura o in senso stretto”, rileva:
– in tema di obbligo di apertura di istruttoria, poiché nel primo caso non vi è la necessità di denuncia specifica e concreta del danno, ai sensi dell’art. 51, comma 1, del c.g.c.;
– in ambito processuale, dal momento che, nella prima ipotesi, trova applicazione il rito speciale disciplinato dagli artt. 133 e seguenti del c.g.c.12;
– in tema di applicabilità o meno di istituti previsti per la responsabilità amministrativa “ordinaria”, ad esempio relativamente all’elemento psicologico, alla gravità della colpa, all’uso del potere riduttivo ed alla compensatio lucri cum damno (questioni, a dire il vero, notevolmente dibattute in giurisprudenza e in dottrina).
Ebbene, il chiarimento circa la natura di tale responsabilità è giunto recentemente in una rilevantissima sentenza delle Sezioni Riunite della Corte dei conti13, ove si è affermato che:
“L’art. 53, comma 7, del d. lgs. n. 165/2001, che prevede che “i dipendenti pubblici non possono svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall’amministrazione di appartenenza” e che “in caso di inosservanza del divieto, salve le più gravi sanzioni e ferma restando la responsabilità disciplinare, il compenso dovuto per le prestazioni eventualmente svolte deve essere versato, a cura dell’erogante o, in difetto, del percettore, nel conto dell’entrata del bilancio dell’amministrazione di appartenenza del dipendente per essere destinato ad incremento del fondo di produttività o di fondi equivalenti” ha un carattere dissuasivo e di deterrenza nei confronti dei pubblici dipendenti dall’assunzione di incarichi retribuiti non sottoposti, previamente, al regime autorizzatorio da parte dell’amministrazione di appartenenza e determina l’attrazione del medesimo compenso in conto entrata del bilancio dell’amministrazione; la condotta omissiva del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito percettore, di cui al successivo art. 53, comma 7 bis, dà luogo ad un’ipotesi autonoma di responsabilità amministrativa tipizzata, a carattere risarcitorio del danno da mancata entrata per l’amministrazione di appartenenza del compenso indebitamente percepito e che deve essere versato in un apposito fondo vincolato.
Dalla natura risarcitoria di tale responsabilità consegue l’applicazione degli ordinari canoni sostanziali e processuali della responsabilità, con rito ordinario, previa notifica a fornire deduzioni di cui all’art. 67 c.g.c.”.
Come è intuibile, tale interpretazione risulta sicuramente più favorevole per il soggetto invitato a dedurre o per il convenuto in giudizio.
Fermo ciò, sul tema, residuano poi ulteriori profili d’interesse sviluppati dai recenti arresti dei giudici contabili.
In tema di prescrizione del danno erariale, invero, la Corte dei conti ha chiarito le condizioni in cui è ravvisabile l’occultamento doloso del danno derivante dall’assunzione di cariche sociali in violazione del regime di incompatibilità.
Ebbene, i giudici contabili hanno ritenuto integrato l’occultamento doloso allorquando il dipendente pubblico omette volontariamente di adempiere l’obbligo di comunicare all’amministrazione di appartenenza lo svolgimento di un’attività potenzialmente incompatibile14.
Sul punto, la sezione giurisdizionale per il Veneto ha recentemente specificato che, in caso di silenzio assoluto del dipendente sulle cariche incompatibili illegittimamente assunte, “la giurisprudenza di questa Corte ha configurato la sussistenza dell’“occultamento doloso del danno”, idoneo a far decorrere la prescrizione dell’azione risarcitoria dalla data di effettiva conoscibilità del pregiudizio erariale (Corte conti sez. I n. 173/2018, sez. III n. 345/2016; sez. III n. 26/2017; Sez. III n. 542/2015). Lo spostamento in avanti del momento di esordio del termine prescrizionale, sino alla effettiva conoscenza dell’evento dannoso dolosamente occultato, appare coerente con la disposizione di cui all’articolo 2935 c.c., che esclude la decorrenza della prescrizione nel tempo in cui il diritto non può essere fatto valere, in presenza delle cause giuridiche impeditive dell’esercizio di tale diritto. Tale ipotesi si è verificata nel caso di specie in quanto “(…) perché di occultamento doloso si possa parlare, occorre un comportamento che, pur se può comprendere la causazione del fatto dannoso, deve tuttavia includere atti specificamente volti a prevenire il disvelamento di un danno ancora “in fieri” oppure a nascondere un danno ormai prodotto.” (tra le altre, Corte dei conti, Sez. III d’App., sent. n. 830 del 20.12.2012; Sezione I centrale n. 40/2009)”15.
La sezione veneta, ha peraltro ricondotto il silenzio informativo serbato dal convenuto nell’ambito dell’occultamento dannoso valutando, in particolare, la qualità e l’incarico rivestito dal dipendente pubblico, docente universitario “dotato di una sufficiente e qualificata preparazione culturale e professionale” e, dunque, in grado di “essere a conoscenza della disciplina relativa all’incompatibilità del rapporto di lavoro in regime di tempo definito, come peraltro chiaramente emergente dalla normativa vigente, anche di natura regolamentare”.
Si può notare, inoltre, che le caratteristiche professionali del dipendente pubblico vengono considerate dai giudici contabili anche al fine di valutare l’elemento soggettivo dell’illecito.
Tenendo conto della elevata qualifica rivestita dal soggetto, infatti, è stata esclusa la buona fede e, quindi, la sussistenza della colpa lieve in capo allo stesso sulla base del principio ignorantia legis non excusat16.
Fermo l’orientamento appena illustrato, comunque, non si può escludere a priori che un’eventuale autorizzazione – pur se illegittima – rilasciata dall’amministrazione di appartenenza per l’assunzione di cariche sociali incompatibili possa escludere l’occultamento doloso del danno nonché, quantomeno, l’elemento soggettivo del dolo. In tali ipotesi, in concreto, il datore di lavoro sarebbe stato posto nelle condizioni di conoscere l’incompatibilità (salvo ritenere l’attività erroneamente lecita)17.
Ancora, la rielaborazione della Corte dei conti è stata particolarmente intensa anche con riferimento alla quantificazione del danno imputabile, soprattutto nelle ipotesi in cui non erano conoscibili le somme ricevute dal dipendente pubblico per lo svolgimento dell’attività incompatibile.
Dunque, laddove il danno è stato causato con l’assunzione degli incarichi incompatibili ma risulta particolarmente difficoltoso o addirittura impossibile determinarne con precisione l’ammontare, “soccorre la possibilità di valutazione equitativa dello stesso ex art. 1226 del cod. civ. con apprezzamento motivato del giudice, teso a colmare lacune altrimenti insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno”18.
Proprio sulla quantificazione in via equitativa del danno è d’interesse anche l’arresto della sezione veneta citato in precedenza19, ove il Collegio ha individuato la somma dovuta a titolo di risarcimento in un ammontare corrispondente a circa il 30% degli emolumenti corrisposti al convenuto nelle annualità in cui aveva rivestito incarichi sociali incompatibili, al lordo dei contributi previdenziali e al netto delle ritenute fiscali.
La sezione veneta ha ritenuto che “gli emolumenti percepiti dal convenuto nell’arco temporale nella qualità di docente universitario erano correlati e proporzionati ad una condizione di esclusività che, nel caso di specie, è stata colpevolmente disattesa, incidendo sullo stesso “valore” della prestazione resa all’Università e, di conseguenza, sulla stessa misura degli emolumenti percepiti (Corte dei conti, Sez. III Centrale d’Appello, sentenza n. 26/2017). In altri termini, il Collegio ritiene di determinare il quantum del risarcimento, riducendo proporzionalmente, in via equitativa, gli emolumenti effettivamente percepiti, che erano stati commisurati, nel loro originario ammontare, a un rapporto di esclusività, in punto di fatto e per volontà del convenuto, inesistente, per tutti gli anni in contestazione (cit. sentenza n. 26/2017)”.
Differente è la situazione, invece, in cui vi sia certezza circa le somme effettivamente percepite dal pubblico dipendente per l’esercizio di attività incompatibile; in tal caso, invero, il danno erariale viene generalmente commisurata a tali entrate20.

4. La responsabilità della società.
Chiarita la responsabilità del dipendente, è possibile interrogarsi ora su quali siano le conseguenze in cui incorre la società che conferisce a un dipendente pubblico una carica sociale in violazione del regime delle incompatibilità sopra illustrato.
Per chiarire tale aspetto è necessario considerare, innanzitutto, che l’incompatibilità assoluta può essere valutata alla stregua dell’esercizio, da parte del dipendente pubblico, di un’attività astrattamente autorizzabile ma, in concreto, non autorizzata dal datore di lavoro pubblico.
Partendo da questo presupposto, rileva allora l’art. 53, co. 9, del d.lgs. n. 165/2001, il quale dispone che “Gli enti pubblici economici e i soggetti privati non possono conferire incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza dei dipendenti stessi. Ai fini dell’autorizzazione, l’amministrazione verifica l’insussistenza di situazioni, anche potenziali, di conflitto di interessi. In caso di inosservanza si applica la disposizione dell’articolo 6, comma 1, del decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, e successive modificazioni ed integrazioni. All’accertamento delle violazioni e all’irrogazione delle sanzioni provvede il Ministero delle finanze, avvalendosi della Guardia di finanza, secondo le disposizioni della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni ed integrazioni. Le somme riscosse sono acquisite alle entrate del Ministero delle finanze”.
Il citato art. 6, co. 1, del decreto legge 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, prevede che: “Nei confronti dei soggetti pubblici e privati che non abbiano ottemperato alla disposizione dell’articolo 58, comma 6, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni, o che comunque si avvalgano di prestazioni di lavoro autonomo o subordinato rese dai dipendenti pubblici in violazione dell’articolo 1, commi 56, 58, 60 e 61, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, ovvero senza autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, oltre alle sanzioni per le eventuali violazioni tributarie o contributive, si applica una sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma a dipendenti pubblici”.
Dunque, emerge che l’art. 60 del d.P.R. n. 3 del 1957 non può considerarsi rivolto esclusivamente al pubblico dipendente e all’Amministrazione di appartenenza ma, al contrario, deve intendersi come direttamente efficace anche nei confronti delle società che, nel procedere al conferimento degli incarichi sociali, devono effettuare un vaglio anche sulle eventuali incompatibilità dei soggetti designati.
Ne consegue che la sanzione irrogata ai sensi art. 6, co. 1, del d.l. 28 marzo 1997, n. 79 rappresenta la conseguenza della violazione del divieto di attribuire incarichi extraistituzionali del soggetto conferente, essendo la società interessata onerata, come detto, di un’analitica verifica sulla sussistenza di eventuali incompatibilità.
Peraltro, quanto allo specifico elemento soggettivo richiesto per la configurabilità della responsabilità in parola, la più recente giurisprudenza ha confermato che “Secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte (condiviso dal Collegio) per integrare l’elemento soggettivo delle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa è sufficiente la semplice colpa, che si presume a carico dell’autore del fatto vietato, gravando su questi l’onere di provare di aver agito senza (Cass.2406/2016, 13610/2007). 17. E’ stato precisato che per ritenere sussistente la buona fede che esclude la responsabilità dell’autore dell’illecito non è sufficiente che al momento dell’infrazione costui si trovi in uno stato di mera ignoranza circa la concreta sussistenza dei presupposti ai quali l’ordinamento positivo riconduce il suo dovere (punito in caso di inosservanza con la detta sanzione) di tenere una determinata condotta, ma occorre che tale stato di ignoranza sia incolpevole (Cass. 14107/2003) ossia che non sia superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria diligenza (Cass. n. 13011/1997). 18. Pertanto, se l’errore sul fatto esclude la responsabilità dell’agente solo quando non è determinato da sua colpa, ne consegue che la norma limita la rilevanza della causa di esclusione alle sole ipotesi in cui l’errore sul fatto sia dovuto a caso fortuito o forza maggiore (Cass. 24803/2006) e che l’onere della prova dell’erroneo convincimento grava su chi lo invoca (Cass. 5877/2004), non essendo sufficiente una mera asserzione sfornita di qualsiasi sussidio probatorio (Cass. 20219/2018, 33032/2018, 15195/ 2008). 19. La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi innanzi richiamati alla fattispecie dedotta in giudizio perché, come già evidenziato nel punto 3 di questa sentenza, ha escluso che la condotta oggetto di sanzione amministrativa era stata improntata ad ordinaria diligenza sul rilievo che non era stata allegato e provato lo svolgimento della necessaria attività di preventiva informazione in ordine alla sussistenza di condizioni di incompatibilità dell’incaricato”21.
Quindi, secondo un orientamento consolidato, per l’irrogazione della sanzione nei confronti della società è sufficiente la sussistenza della colpa lieve.
Si è affermato, infatti, che “sussiste a carico del datore di lavoro, con relativo onere della prova, senza che ne siano tipizzate le modalità, un obbligo di verifica delle condizioni che escludono la richiesta di autorizzazione, non potendosi lo stesso rimettere unicamente a quanto eventualmente dichiarato sponte sua dal lavoratore. Né ciò contrasta con quanto previsto dal D.Lgs. n. 689 del 1981, art. 3. Come questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass., n. 19759 del 2015), in tema di violazioni amministrative, l’errore sulla liceità del fatto giustifica l’esclusione della responsabilità solo quando risulti inevitabile, occorrendo a tal fine un elemento positivo, estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare in lui la convinzione della stessa liceità, oltre alla condizione che, da parte sua, sia stato fatto tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l’errore sia stato incolpevole, non suscettibile, cioè, di essere impedito dall’interessato con l’ordinaria diligenza. Nella specie, tale obbligo, afferma la Corte d’Appello, con statuizione che non è stata adeguatamente censurata, non è stato adempiuto, atteso che non risultavano richieste specifiche dichiarazioni ai soggetti cui si conferiva l’incarico, né assunte informazioni in altro modo”22.
In definitiva, per quanto detto, prima del conferimento di incarichi sociali, le società costituite a scopo di lucro dovranno svolgere un vaglio sulla sussistenza di eventuali incompatibilità dei soggetti interessati che non potrà essere limitato alla mera ricezione di un’autocertificazione da parte di questi ultimi.

Francesco Giuseppe Roncoroni

 

1 L’obbligo di esclusività proprio del dipendente pubblico, come detto, non è riscontrabile nel rapporto di lavoro privato. A tal proposito, il codice civile, all’art. 2105, si limita a vietare al dipendente le attività extralavorative che si pongono in concorrenza con l’attività del datore di lavoro. Invero, solo in tali ipotesi il lavoratore può essere soggetto a responsabilità disciplinare e civile.
2 Quali, ad esempio, militari, magistrati, diplomatici, prefetti.
3 Quanto al personale docente della scuola, l’art. 508, co. 10, del d.lgs. n. 297/1994 stabilisce che: “Il personale di cui al presente titolo non può esercitare attività commerciale, industriale e professionale, né può assumere o mantenere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società od enti per i quali la nomina è riservata allo Stato e sia intervenuta l’autorizzazione del Ministero della pubblica istruzione”.
4 Ciò stante la finalità prevalentemente mutualistica, indipendentemente dall’attività e dalla natura della cooperativa.
5 Sulle complesse questioni relative all’assunzione delle cariche in società pubbliche si veda V. TENORE (a cura di), Il manuale del pubblico impiego privatizzato, Roma, 2020, pagg. 591 e ss.
6 Corte dei conti, sez. giur. Liguria, sent. 22.11.2019, n. 201. Si è osservato che: “L’attività di mera riscossione dei canoni di pochi immobili concessi in locazione, non finalizzata alla prestazione di servizi in favore di terzi né ad atti di compravendita o di costruzione, non esorbita dalla semplice attività di gestione degli immobili stessi. e, pertanto, non configura esercizio di attività commerciale, indipendentemente dal fatto che ad esercitarla sia una società a forma commerciale. La locazione di immobili, infatti, può essere a tutti gli effetti considerata un’attività economica, ma non commerciale o industriale e può, dunque, essere svolta senza la necessità di un’organizzazione di mezzi e di persone, dal momento che oltre alla concessione di godimento degli immobili non sono previsti servizi aggiuntivi”. Nel caso di specie il convenuto, pubblico dipendente, era socio accomandatario di una società a ristretta base familiare che aveva quale oggetto sociale la gestione in proprio di beni immobili e aveva quale patrimonio due appartamenti facenti capo alla famiglia dello stesso.
7 Circolare 18 luglio 1997, n. 6/1997, Presidenza del Consiglio – Dip. Funzione Pubblica.
8 In tal senso si veda Cass., sez. lav., 12.10.2012, n. 17437.
9 A titolo esemplificativo, è stata riscontrata la responsabilità erariale del ricercatore universitario in regime di impegno a tempo determinato per avere – “comunque senza autorizzazione dell’Ateneo” – ricoperto l’incarico di consigliere, presidente di amministrazione, amministratore delegato e liquidatore di varie società per azioni e a responsabilità limitata (Corte dei conti, sez. giur. Lazio, sent. 28.05.2019, n. 247). Allo stesso modo è stato ritenuto responsabile di illecito erariale il dipendente pubblico che aveva ricoperto “una carica di natura operativa” all’interno di un società svolgente attività imprenditoriale alberghiera senza dichiarare i relativi compensi (Corte dei conti, sez. giur. Emilia Romagna, sent. 17.10.2017, n. 203).
10 In tal senso si veda Corte dei conti, sez. giur. Lazio, sent. 25.06.2019, n. 299.
11 Corte dei conti, sez. giur. Emilia Romagna, sent. 28.06.2017, n. 206.
12 Sul procedimento sanzionatorio pecuniario si rinvia, anche per la dottrina e la giurisprudenza ivi citata, a C. PAGLIARIN, I riti speciali: problematiche interpretative, in Rivista della Corte dei Conti – Fascicolo 22/2018.
13 SS.RR., sent. 31.07.2019, n. 26.
14 Ex multis Corte dei conti, III sez. centrale d’App., sent. 17.01.2017, n. 26.
15 Corte dei conti, sez. giur. Veneto, sent. 12.05.2020, n. 65.
16 In tal senso si veda Corte dei conti, sez. giur. Lazio, sent. 28.05.2019, n. 247, ove si è affermato che “emerge inequivocabile la condotta illecita del convenuto consistita non in una semplice negligenza o imprudenza, ma nella violazione consapevole di norme regolanti lo stato giuridico del docente universitario, posta in essere con lo scopo di conseguire il vantaggio patrimoniale connesso allo svolgimento dell’attività lavorativa vietata”. Nello stesso senso anche Corte dei conti, sez. giur. Liguria, sent. 27.12.2018, n. 329 e Corte dei conti, III sez. centrale d’App., sent. 06.11.2017, n. 509.
17 Per un’approfondita analisi dell’elemento soggettivo si rinvia a C. PAGLIARIN, Colpa grave ed equità nel giudizio di responsabilità innanzi alla Corte dei conti, Padova, 2002.
18 Corte dei conti, sez. giur. Liguria, sent. 09.10.2017, n. 155.
19 Vedi nota 15.
20 Nella giurisprudenza contabile, in casi analoghi, è però dibattuto se il danno debba essere ravvisato nei compensi netti percepiti dal dipendente o se, invece, si debbano tenere in considerazione anche le imposte e le ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali.
21 Cass., sez. lav., sent. 26.11.2019, n. 30869.
22 Cass., sez. lav., sent. 14.12.2016, n. 25752.

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