Con il presente contributo intendo soffermarmi su alcuni degli spunti di riflessione suscitati della nuova disciplina dell’abuso d’ufficio introdotta dall’articolo 23 del c.d. Decreto-legge semplificazioni, n. 76 del 2020[1].
L’indagine in questione (che si inserisce nell’ambito di un incontro incentrato sui – sempre mutevoli – rapporti fra le diverse giurisdizioni) si basa essenzialmente sul confronto fra il tipo di vaglio esercitabile sull’attività amministrativa dal giudice penale e dal giudice amministrativo
È opinione piuttosto diffusa fra i primi commentatori della disposizione quella secondo cui uno dei principali obiettivi della novella del 2020 sia rappresentato dal tentativo di ridurre l’ambito della sindacabilità in sede penale delle scelte dell’amministrazione (secondo una linea di tendenza che – a dire il vero – aveva già caratterizzato la precedente riforma di cui alla legge n. 234 del 1997)[2].
È opinione altrettanto diffusa quella secondo cui fra le forme e i metodi di vaglio sull’esercizio dell’attività amministrativa da parte del Giudice penale e del Giudice amministrativo sussiste una piena autonomia, non solo per i limiti che caratterizzano l’efficacia extrapenale della sentenza di condanna, ma – più in generale – per la notevole diversità di fondo che caratterizza e ispira tali forme e metodi.
Nelle brevi riflessioni che seguono tenterò di dimostrare come, nel corso degli anni, si sia registrato un sostanziale avvicinamento fra l’ambito penale e quello amministrativo per ciò che riguarda il vaglio sull’attività amministrativa discrezionale (e ciò, senza porre in discussione la richiamata autonomia di fondo), mentre la novella del 2020 potrebbe produrre a breve una nuova e accentuata divaricazione fra gli stessi.
Le brevi riflessioni che seguono, quindi, si incentreranno essenzialmente su tre aspetti.
In primo luogo mi domanderò come la novella del 2020 (la quale ha evidentemente inteso ridurre l’ambito della sindacabilità delle scelte amministrative discrezionali) vada ad incidere sul vaglio che il Giudice penale può esercitare sulle categorie dell’attività amministrativa.
In secondo luogo mi domanderò se il tipo di indagine che il Giudice penale esercita sulle vicende amministrative sia del tutto incompatibile con quello che può essere esercitato dal Giudice amministrativo.
Mi domanderò, infine, se il cambio di prospettiva normativa introdotto nel corso del 2020 possa incidere più in generale sulle categorie stesse della legittimità e dell’illegittimità dell’azione amministrativa (i.e.: su ambiti tipicamente demandati alla giurisdizione del Giudice amministrativo), in qualche modo determinandone una frammentazione nell’ambito dei diversi settori dell’Ordinamento.
Nonostante queste mie considerazioni siano destinate a un pubblico particolarmente qualificato, ritengo comunque di non dare nulla per scontato e di prendere le mosse dall’esame del dato normativo.
Ebbene, dal punto di vista testuale è ormai ben noto il contenuto dell’intervento apportato dal Legislatore del 2020 in tema di abuso d’ufficio: mentre infatti (nel testo vigente dal 1997) concretava la fattispecie delittuosa di cui all’articolo 323 cod. pen. la condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio il quale avesse agito «in violazione di norme di legge o di regolamento», al contrario a seguito della modifica del 2020 rileverà unicamente «[la violazione di] specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
Pertanto, le riflessioni che andrò a svolgere si soffermeranno su uno fra i principali spunti di interesse che la nuova disciplina reca per il Giudice amministrativo in relazione ai suoi rapporti con la giurisdizione penale: mi riferisco alla scelta del Legislatore di limitare la rilevanza penale (ai fini del nuovo articolo 323 cod. pen.) alle sole ipotesi di violazione di regole «previste dalla legge o da atti aventi forza di legge».
Osservo in primo luogo al riguardo che la giurisprudenza penale formatasi sul testo dell’articolo 323 cod. pen. (per come scaturente dalla riforma del 1997) si era più volte soffermata sul significato da riconoscere alla locuzione «violazione di norme di legge o di regolamento»[3].
I prevalenti orientamenti giurisprudenziali (dopo alcune iniziali incertezze) avevano interpretato la locuzione in questione in modo assai ampio e non si erano arrestati (secondo il modello della giustizia deferente) dinanzi all’esercizio dell’attività discrezionale (così come dinanzi all’esercizio di attività discrezionale non si arresta in via ordinaria il Giudice amministrativo).
Non può certamente negarsi che vi fosse una rilevante diversità negli strumenti e nelle tecniche di tutela a disposizione dei due plessi giurisdizionali.
Basti pensare al riguardo che il Giudice amministrativo opera secondo la logica della giurisdizione di diritto soggettivo (i.e.: opera a tutela di posizioni soggettive ben individuate), mentre il Giudice penale è deputato a svolgere un controllo di carattere oggettivo della legalità dell’azione amministrativa.
Si osserva però che, con il superamento della pregressa figura dell’abuso ‘innominato’ in atti d’ufficio, la nozione di «violazione di norme di legge o di regolamento» contenuta nella novella del 1997 risultava in qualche misura prossima all’omologa figura conosciuta ed esaminata nel corso dei decenni in ambito amministrativo.
Ebbene, come tenterò di dimostrare qui di seguito, anche la lettura in chiave sostanzialistica del principio di legalità offerta dalla giurisprudenza penale dopo il 1997 ha determinato, di fatto, un avvicinamento con le forme di vaglio svolte dal giudice amministrativo (e ciò, ancora una volta, ferma restano la piena autonomia riconosciuta ai due ordini giudiziari nell’esame delle vicende amministrative).
Insomma, nel giudicare sull’attività amministrativa, i due ordini giudiziari partivano da presupposti diversi ed applicavano regole processuali diverse, ma spesso giungevano a risultati finali sostanzialmente coincidenti.
Le stesse Sezioni unite, sin dalla sentenza n. 155/2011[4] avevano chiarito che, ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio, sussiste il requisito della violazione di legge: i) non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia realizzata in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche ii) quando la stessa condotta risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello in vista del quale il potere è attribuito.
Ciò in quanto – secondo la giurisprudenza della S.C. – in tali ipotesi si concreta il vizio dello sviamento di potere, il quale integra una violazione di legge, poiché lo stesso potere non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione[5].
La conseguenza di tale impostazione era nel senso che anche una condotta formalmente compatibile con la lettera della legge (ma in sostanza finalizzata alla realizzazione di un interesse contrario rispetto a quello perseguito dalla legge) veniva considerata come posta in essere ‘in violazione di legge’.
E, sotto questo aspetto (sia pure nella diversità degli approcci e delle tecniche di tutela), si determinava una sostanziale continuità e omogeneità nella lettura della nozione di ‘violazione di legge’ in ambito penale e in ambito amministrativo.
Ciò in quanto (come è ben noto), sin dagli anni Trenta del Novecento la stessa giurisprudenza amministrativa aveva enucleato (nell’ambito della generale categoria dell’illegittimità) la figura dell’eccesso di potere per sviamento il cui proprium consisteva, appunto, in un’indagine in ordine alla finalizzazione del potere in concreto esercitato[6].
Secondo acquisizioni più che consolidate il vizio dell’eccesso di potere per sviamento si manifesta nelle ipotesi in cui l’atto amministrativo, pur se apparentemente conforme al paradigma normativo di riferimento, risulta comunque illegittimo in quanto realizzato nel perseguimento di un interesse diverso da quello previsto dalla legge attributiva (o, addirittura, in aperto contrasto con essa).
Si tratta, oltretutto, di un’impostazione che – almeno per quanto riguarda i contorni applicativi del reato di abuso d’ufficio – appare profondamente messa in discussione per effetto della riforma del 2020.
E’ vero che la giurisprudenza della Cassazione penale non concentra(va) la propria attenzione sul profilo formale della legittimità dell’atto (in tutte le sue declinazioni) bensì sulla sola condotta dell’agente; ma è altresì vero che l’effetto di quell’orientamento era nel senso di determinare nei fatti una sostanziale omogeneità fra l’area dell’illegittimità amministrativa (si pensi ancora una volta al tradizionale vizio dell’atto amministrativo dell’eccesso di potere per sviamento) e quella della sanzionabilità penale.
Per quanto riguarda, poi, la latitudine interpretativa da riconoscere alla nozione di violazione di legge (per come trasfusa nel testo dell’articolo 323 cod. pen.), la giurisprudenza della Cassazione penale (a partire dal 2008-2009) ne aveva fornito una lettura decisamente ampia e aveva stabilito – fra l’altro – che concretasse una violazione di legge (rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso d’ufficio) anche la violazione del principio costituzionale di imparzialità, laddove lo stesso risultasse idoneo ad imporre al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio precetti comportamentali di immediata applicazione[7].
La giurisprudenza si era inoltre interrogata circa la riconducibilità all’ambito di cui all’articolo 323 cod. pen. della violazione di atti ai quali è riconosciuta una particolare collocazione – per così dire: riservata o apicale – nell’ambito dell’Ordinamento (si pensi agli strumenti di pianificazione urbanistica, aventi efficacia generale, ma tendenzialmente privi di valenza propriamente normativa).
Ebbene, un orientamento del tutto prevalente aveva concluso nel senso della piena equiparazione – ai fini applicativi di cui all’articolo 323 cod. pen. – fra gli atti di pianificazione generale e gli atti regolamentari in senso proprio.
È evidente che la ratio sottesa a tale equiparazione fosse da rinvenire in una lettura quanto mai ampia e onnicomprensiva della nozione di violazione di legge in questo settore dell’Ordinamento, tale da ricomprendervi non soltanto la contrarietà a disposizioni di carattere normativo in senso proprio, ma anche la violazione di regole di condotta sufficientemente prescrittive e dettagliate le quali rinvenissero – direttamente o indirettamente – nella norma la propria fonte legittimante.
Occorre a questo punto domandarsi se, all’indomani della riforma del 2020, residueranno spazi sistematici per ricondurre all’ambito applicativo dell’articolo 323 cod. pen. condotte le quali, pur se formalmente rispettose della legge, siano però realizzare nel perseguimento di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito.
La risposta al quesito sembrerebbe in prima battuta negativa, evidente essendo che il legislatore del 2020 abbia mirato in modo chiaro (non solo a ridurre l’area della sindacabilità in sede giudiziale, ma anche) a conseguire la riduzione dell’area stessa della punibilità.
D’altra parte alcuni elementi sembrano invece deporre nel senso della persistente validità degli orientamenti della Cassazione penale (non sembrando superate, in particolare, le ragioni sottese all’orientamento che mirava al rispetto della legalità sia in senso formale che in senso sostanziale). La questione deve quindi considerarsi allo stato ancora aperta.
All’indomani della riforma del 2020 occorrerà anche domandarsi se continuerà a rilevare (ai fini di cui all’articolo 323 cod. pen.) la violazione da parte dei pubblici funzionari (non già di norme di legge in senso proprio, bensì) di princìpi di ordine costituzionale.
La questione può in effetti considerarsi aperta, soprattutto nei casi in cui i princìpi costituzionali non presentino una mera valenza orientativa, ma rechino regole di condotta dotate di un adeguato grado di specificità e prescrittività (si pensi agli obblighi di trasparenza o di imparzialità nelle pubbliche gare, ovvero alla violazione del principio del giusto procedimento amministrativo).
Un’ulteriore questione posta dal rinovellato testo dell’articolo 323 cod. pen. (probabilmente, la più densa di implicazioni pratiche) riguarda il trattamento che, all’indomani della novella del 2020, sarà riservato alla violazione di atti non normativi, ma ai quali è riconosciuta una particolare posizione nell’ambito dell’Ordinamento (si pensi, in particolare, alla violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dagli atti di pianificazione generale, ovvero dalle linee guida vincolanti adottate dall’ANAC nella cruciale materia dei contratti pubblici).
Dal punto di vista strettamente testuale occorre riconoscere che né gli atti di pianificazione, né le linee guida vincolanti dell’ANAC possono essere a stretto rigore considerati come «[atti di] legge o aventi forza di legge» (mentre a conclusioni diverse si sarebbe pervenuti se il Legislatore del 2020 avesse utilizzato una diversa locuzione, operando – ad esempio – il richiamo a «specifiche regole di condotta previste in base alla legge»).
Se ne potrebbe dunque inferire la conseguenza che, a seguito della novella del 2020, la violazione di tali prescrizioni si collocherà al di fuori dell’area della punibilità (almeno per quanto riguarda il reato di abuso d’ufficio).
Ebbene, se – come sembra – l’interpretazione testuale e sistematica più corretta è quella appena proposta, allora (ad esempio) all’indomani della novella andrà esente da pena il pubblico funzionario il quale – violando in modo cosciente e consapevole la norma del Piano regolatore che impedirebbe il rilascio di un titolo edilizio in una certa area – rilascerà comunque tale titolo, intenzionalmente procurando a taluno un ingiusto vantaggio.
A conclusioni di tutto analoghe si perverrà nel caso in cui il pubblico funzionario – violando in modo parimenti cosciente e consapevole le Linee guida vincolanti dell’ANAC – negherà comunque l’aggiudicazione di un appalto, intenzionalmente procurando a taluno un ingiusto svantaggio.
In tali ipotesi la condotta antigiuridica realizzata dal funzionario rileverà ai fini dell’illegittimità amministrativa (poiché – ad esempio – la violazione della disciplina di Piano concreta pur sempre una violazione di legge); rileverà ai fini civilistici (perché il danno cagionato mantiene pur sempre il carattere dell’ingiustizia) e inoltre rileverà verosimilmente ai fini della responsabilità per danno erariale.
Tuttavia, all’indomani della novella del 2020, tale condotta non rileverà ai fini di cui all’articolo 323 cod. pen.
Tralasciando qualunque giudizio sugli orientamenti di politica legislativa sottesi alla novella del 2020, un dato appare comunque chiaro: mentre nell’assetto vigente dalla novella del 1997 sino al 2020 si era determinata – almeno in executivis – una sostanziale saldatura (per quanto riguarda l’ambito applicativo dell’articolo 323 cod. pen.) fra la nozione di ‘violazione di legge’ rilevante in ambito penale e in ambito amministrativo; al contrario, l’effetto della novella del 2020 sarà nel senso di determinare un evidente allontanamento (e una nuova divaricazione) fra i modelli normativi di riferimento e le relative categorie.
Tale evidente frammentazione di modelli normativi risulta inoltre tanto più problematica per l’interprete, se si consideri che essa viene determinata da un intervento normativo il quale (almeno nelle intenzioni e nelle sue stesse premesse) mira (rectius: mirerebbe) ad introdurre «interventi di semplificazione in materia [fra l’altro] di responsabilità del personale delle amministrazioni».
E questa riflessione finale conferma ancora una volta la consapevolezza per cui (nel diritto come in altri ambiti dell’esperienza umana) semplificare è un’attività estremamente difficile mentre complicare risulta sempre tutto sommato facile.
Claudio Contessa
* Il presente contributo riprende le considerazioni svolte dall’Autore nel corso del Webinar organizzato dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti e dal Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto dal titolo Le giurisdizioni ‘sconfinate’ (13 novembre 2020).
[1] Si tratta del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120.
[2] Si possono richiamare al riguardo le considerazioni svolte da V. Domenichelli nella sua relazione introduttiva dal titolo Le giurisdizioni sconfinate.
[3] Sul punto: A. Merli, Il controllo di legalità dell’azione amministrativa e l’abuso d’ufficio, in Diritto Penale Contemporaneo (www.penalecontemporaneo.it), 16 novembre 2012, p. 13
[4] Cass. Pen. sez. un. 29 settembre 2011, n. 155, in: Giur. It., fasc. 10/2012, p. 2140 con nota di F. Marzo.
[5] In base ad orientamenti piuttosto consolidati lella giurisprudenza penale, il reato di abuso d’ufficio è configurabile non solo quando la condotta contestata si ponga in contrasto con il significato letterale, o logico-sistematico, di una disposizione di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma attributiva del potere esercitato, concretandosi in uno “svolgimento della funzione o del servizio” che oltrepassa ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio per realizzare tale fine (Cass. Pen., Sez. V, 16 giugno 2010, n. 35501; id., Sez. VI, 25 settembre 2009, n. 41402) ovvero ancora in uno sviamento produttivo di una lesione dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice (Cass. Pen., Sez. VI, 5 luglio 2011, n. 3559.
[6] Sul punto, v. F. Benvenuti, Eccesso di potere per vizio della funzione, in Rass. Dir. Pubbl. 1950, 29 ss.; M. D’Alberti, La giurisprudenza amministrativa degli anni trenta, in AA.VV., Il diritto amministrativo degli anni trenta, Bologna, 1992, 37 ss.
[7] Si veda, fra le molte: Cass. Pen., VI, 12 febbraio 2008, n. 25162 (in: Giur. It., 2009, II, p. 433), secondo cui “il profilo della violazione di norme di legge, costitutivo della struttura del delitto di abuso d’ufficio, può ben sostanziarsi nella violazione del principio di imparzialità di cui all’art. 97 Cost. per la parte in cui ha diretto riguardo all’attività della pubblica amministrazione, esprimendo la regola di immediata applicazione del divieto di favoritismi e quindi dell’obbligo di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelabili con la medesima misura”.