Sommario: 1 – Introduzione; 2 – La tutela idro-geologica; 3 – I Piani di Assetto Idrogeologico; 4 – I P.A.I. tra pianificazione urbanistica e tutela paesaggistica; 5 – Gli altri strumenti pianificatori di tutela idrogeologica; 6 – Considerazioni finali
1 – Introduzione.
Il titolo della relazione apre una vastità notevole di possibili scenari di approfondimento, i quali condurrebbero con facilità ad analisi di avanzato dettaglio procedimentale e a considerazioni di elevato contenuto tecnico. Per evitare il rischio di condizionare sin da subito la riflessione con una esposizione di marcata specificità sembra utile un tentativo iniziale di inquadrare il tema senza distrazioni rispetto ai profili di carattere più generale. Anche in questo campo, le difficoltà a recuperare una visione di sistema sono tante perché l’irreversibile processo di specializzazione che oramai domina tutte le scienze, pure quelle giuridiche, porta più a proporre decisioni e ad indicare soluzioni o a trattare casi che ad elaborare categorie ovvero a definire e a classificare, con il risultato che ci ritroviamo spesso sommersi dalla prassi e dalla casistica.
La prassi ci parla della pianificazione idro-geologica come di un tema entrato non da poco nella quotidianità viva degli operatori del diritto. Ad esempio, anche maneggiando le disposizioni di più frequente applicazione del Testo Unico dell’Edilizia, è agevole cogliere che secondo l’art. 5 del D.P.R. n. 380 del 2001 spetta al responsabile dello Sportello unico per l’edilizia l’acquisizione anche degli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela dell’assetto idrogeologico; a mente del successivo art. 6, l’esecuzione degli interventi ricompresi nell’attività edilizia libera, così come quelli soggetti a CILA (art. 6-bis), devono comunque rispettare – oltre alle normative in materia antisismica, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di efficienza energetica, di tutela dei beni culturali e del paesaggio – pure le norme sulla tutela idrogeologica; ai sensi dell’art. 20, comma 8, non si potrà formare il silenzio assenso in caso di inutile decorso del termine per il rilascio del permesso di costruire qualora l’immobile oggetto della domanda sia sottoposto a vincolo idrogeologico; ancora, gli interventi realizzabili tramite Scia e Scia alternativa al permesso di costruire, se riguardanti beni sottoposti a tutela dell’assetto idrogeologico, sono subordinati al preventivo rilascio della autorizzazione dell’autorità competente (artt. 22 e 23) e così via. Sul piano regionale, la L.R. Veneto n. 11 del 2004, all’art. 2.1, lett. e), indica tra le finalità della pianificazione urbanistica la messa in sicurezza degli abitati dal dissesto idrogeologico e l’art. 13, lett. d), individua tra i contenuti del Piano di Assetto del Territorio, la disciplina delle invarianti di natura idrogeologica. A ragione si può, quindi, confermare che il tema è effettivamente entrato nella quotidianità dell’orbita giuridico-amministrativa e l’ingresso – verrebbe da dire – è avvenuto “a gamba tesa” perché si ha come l’impressione che non vi sia testo normativo recente che riguardi anche indirettamente il governo del territorio o la disciplina dei suoli che non contenga un qualche riferimento a questo tema. Anche la legislazione degli ultimi mesi ce ne offre prova: la L.R. Veneto n. 14 del 5 aprile 2019, al di là che la si voglia chiamare o meno “quarto Piano – Casa”, nel disegnare il futuro del territorio veneto (il titolo recita “Veneto 2050”) dispone all’art. 9 con espresso riguardo agli interventi su edifici in aree dichiarate di pericolosità idraulica e idrogeologica, articolando le premialità edificatore in relazione alla particolare classificazione degli immobili interessati. Più recentemente, la L.R. Veneto 28 giugno 2019, n. 24 detta norma all’art. 18 con riguardo alla “razionalizzazione e riordino degli enti strumentali della Regione del Veneto operanti nel settore idraulico-forestale e difesa del territorio”. Senza dire che la legge n. 55 del 14 giugno 2019, di conversione del c.d. “decreto sblocca-cantieri”, il D.L. n. 32 del 18 aprile scorso, ha introdotto nel corpo del decreto un articolo – il 4 ter – che riguarda la costituzione di un Commissario straordinario per la sicurezza del sistema idrico del Gran Sasso, il quale con rilevanti poteri derogatori è chiamato ad affrontare i gravissimi problemi di dissesto dell’area che, come noto, stanno minando anche la sicurezza viabilistica sulla vicina autostrada. Sappiamo purtroppo che questa permanente attenzione normativa non risponde – dunque – a qualche capriccio della produzione legislativa o alla concessione a mode volubili del momento ma interpreta – purtroppo – un faticoso farsi carico di occorrenze reali e diffuse. C’è un interessante studio dell’ISPRA del 2015, i cui risultati sono stati riportati sulle pagine della Rivista Giuridica dell’Ambiente, il quale stima che, in Italia, nel secolo scorso, a causa di frane e di alluvioni vi siano state oltre 350.000 persone senza tetto o sfollate e più di 10.000 vittime, tra morti e dispersi; di queste, 2000 a pochi chilometri da qui, lungo la valle del Piave, a Longarone a causa del disastro del Vajont, vicenda che ci ricorda come all’intrinseca fragilità del nostro territorio si siano spesso aggiunte anche pesanti responsabilità dell’uomo.
2 – La tutela idro-geologica.
Il dato di partenza resta – appunto – la fragilità intrinseca del nostro paese che già negli anni successivi alla riunificazione portò alla presentazione di numerosi disegni di legge per l’emanazione di una legge generale forestale: questi sforzi parlamentari confluirono poi nel tutt’ora vigente R.D. 30 dicembre 1923, n. 3267, meglio noto come “legge Serpieri”, titolata “Riordinamento e riforma della legislazione in materia di boschi e di terreni montani”, legge erroneamente liquidata come di valenza solo settoriale e che si rivela – invece -di grande importanza. Non a caso, nel 1959 veniva pubblicato il quinto volume della Enciclopedia del Diritto in cui A.M. Sandulli curava la voce “Boschi e foreste” (vol. V, Giuffrè, Milano, 1959, pp.618-619) sostenendo che, per la prima volta, in virtù del dettato della legge, veniva individuato un sistema organico di limitazioni alla proprietà privata per ragioni di interesse pubblico. A distanza di quasi un secolo, la “legge Serpieri” permane una normativa di diretto interesse per il confronto odierno perché, anche se incentrata sulla tutela del patrimonio boschivo e forestale (non per nulla viene di solito ricordata come la c.d. “legge forestale”), in maniera avanzata in essa viene già opportunamente evidenziato il collegamento sussistente tra la tutela del suolo e quella delle acque, tant’è che secondo l’art. 1, “sono sottoposti a vincolo per i scopi idrogeologici i terreni che … possono con danno pubblico … perdere la stabilità o turbare il regime delle acque”.
Da questo punto di vista, è possibile affermare che il R.D. n. 3267 del 1923, pur riguardando principalmente (anche se non in modo esclusivo) i terreni coperti da boschi, non prende in considerazione il patrimonio boschivo come risorsa dal punto di vista strettamente economico – alla stregua delle legge forestali pre-unitarie e, soprattutto, delle leggi forestali della Serenissima, di cui ci ha parlato più volte l’avv. Cacciavillani (cfr. “Le leggi veneziane sul territorio”, Signum, Padova, 1983) e il cui fine primario era la regolazione del legnatico per le esigenze dell’Arsenale – e neppure come bene a primaria rilevanza ecologico-naturalistica, secondo quella visione di bene “multifunzionale” di cui ha parlato, più di recente, anche la Corte Costituzionale (in particolare, nella sentenza n. 105 del 18 aprile 2008, ove si è precisato che “si può dunque affermare che sullo stesso bene della vita, boschi e foreste, insistono due beni giuridici: un bene giuridico ambientale in riferimento alla multifunzionalità ambientale del bosco, ed un bene giuridico patrimoniale, in riferimento alla funzione economico produttiva del bosco stesso”). Piuttosto, la “legge Serpieri” premia la funzione e l’utilità del patrimonio boschivo in relazione all’assetto idrogeologico. Scorrendo le pagine della relazione introduttiva si percepisce con chiarezza di accenti che la tutela del patrimonio boschivo è giustificata dal fatto che gli alberi, attraverso le radici, oltre a rallentare il deflusso delle acque, esercitano una fondamentale funzione di protezione dei terreni, tant’è che in dottrina si è parlato di una legge “ingegneristica”, nella quale “il bosco non è un fine, ma un mezzo” (cfr. A. ABRAMI, Le aree boscate nel governo del territorio-ambiente in Dir. e giur. agraria e dell’ambiente, 1995, p. 597).
Fino alla fine degli anni ottanta del secondo scorso il governo del settore rimane duraturo secondo l’assetto tracciato dal R.D. n. 3267 del 1923 che, a livello di legislazione statale, resta l’unica normativa in materia di difesa idrogeologica (con la precisazione che, a seguito dell’istituzione dell’ordinamento regionale, per effetto del disposto dell’art. 69, comma 4, del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, tutte le funzioni amministrative concernenti il vincolo idrogeologico sono state trasferite alle regioni, trasferimento da ultimo confermato dall’art. 61, comma 5, del D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (c.d. testo unico ambientale) ai sensi del quale “le funzioni relative al vincolo idrogeologico di cui al regio decreto-legge 30 dicembre 1923, n. 3267, sono interamente esercitate dalle regioni”). Nel 1989, nell’ambito della legge – quadro di difesa del suolo (legge 18 maggio 1989, n. 183), viene introdotta dall’art. 17 la figura del piano di bacino la quale assegna a detta pianificazione la possibilità di introdurre autonomi vincoli di tutela “in rapporto alle specifiche condizioni idrogeologiche, ai fini della conservazione del suolo, della tutela dell’ambiente e della prevenzione contro presumibili effetti dannosi di interventi antropici”; si tratta dei c.d. vincoli di piano di bacino. In tal modo viene, quindi, introdotta dal legislatore una nuova tipologia di vincoli concernenti l’assetto idrogeologico del territorio che si aggiunge a quella di cui al R.D. n. 3267 del 1923: nel linguaggio “gergale” degli specialisti si è soliti nominare questi ultimi come vincoli idrogeologici in senso stretto ed i primi come vincoli di assetto idrogeologico (si veda sul punto G. GARZIA, La disciplina amministrativa del vincolo e del piano di assetto idrogeologico, in Trattato di diritto del territorio, vol. II, Torino, 2018, p. 1125). Essi, pur avendo un oggetto sostanzialmente simile a quelli di cui alla “legge Serpieri” (nel senso che entrambi possono essere inquadrati all’interno della difesa del suolo sotto l’aspetto idrogeologico), si differenziano essenzialmente da questi ultimi per la diversa modalità di imposizione: un vincolo puntuale (conseguente ad un procedimento ad hoc) nel caso di tutela idrogeologica di cui al R.D. del 1923 e uno strumento programmatorio nel caso dei vincoli di piano. Inoltre, a differenza dei vincoli idrogeologici, per i quali è previsto il rilascio di una specifica autorizzazione (art. 7 del R.D. n. 3267 del 1923), un tale obbligo non è riscontrabile in relazione alle prescrizioni della pianificazione di bacino, per la quale non vi è una attività di controllo da parte di una amministrazione preposta a ciò deputata, tenuta a valutare la compatibilità dell’intervento richiesto attraverso il rilascio di uno specifico parere o nulla osta; in tale eventualità, infatti, la ponderazione dell’osservanza delle previsioni di specie viene lasciata alle diverse amministrazioni volta a volta competenti in ordine al rilascio dei provvedimenti autorizzatori o concessori inerenti gli interventi di trasformazione del suolo richiesti caso per caso.
3 – I Piani di Assetto Idrogeologico.
La legge n. 183 del 1989 ha conosciuto un seguito attuativo travagliato, attraverso – è il caso di dirlo – una “alluvionale” decretazione d’emergenza, a partire dal D.L. 11 giugno 1998, n. 180 (emanato a seguito dell’esondazione del fiume Sarno del 5 maggio 1998) e convertito nella legge 3 agosto 1998 n. 267, il quale prevedeva che tutte le autorità di bacino adottassero entro un anno piani – stralcio per l’assetto idrogeologico (meglio conosciuti con l’acronimo PAI), senza tralasciare il D.L. 12 ottobre 2000, n. 279 (convertito nella legge 11 dicembre 2000, n. 365) che aveva anticipato i termini per l’adozione dei PAI attraverso l’individuazione e la perimetrazione delle aree a rischio idrogeologico e l’assunzione delle correlate misure di salvaguardia per le aree censite. Infine, la legge n. 183 del1989 (così come modificata e integrata dai diversi decreti-legge emanati) è stata trasfusa all’interno della parte III del D. Lgs. n. 152 del 2006 che all’art. 67, comma 1, prevede l’obbligo, da parte delle autorità di bacino distrettuale, di approvare il piano stralcio di assetto idrogeologico (P.A.I.).
Non è superfluo sottolineare che, in realtà, l’art. 67 individua due distinte figure di piani: i veri e propri “piani di assetto idrogeologico” (al primo comma) e i “piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico” di cui al comma secondo. Si tratta di strumenti che, quanto a struttura e presupposti, si presentano in modo profondamente diverso. I P.A.I., infatti, si configurano come un piano “stralcio” rispetto alla pianificazione di bacino distrettuale aventi ad oggetto “l’individuazione delle aree a rischio idrogeologico, la perimetrazione delle aree da sottoporre a misure di salvaguardia e la determinazione delle misure medesime”. Inoltre, all’interno di questi piani, sono individuate sia “le infrastrutture e i manufatti che determinano il rischio idrogeologico” (comma 6) che “i piani di gestione del rischio di alluvione”. I “piani straordinari”, viceversa, costituiscono strumenti, per l’appunto, di carattere non ordinario e ad effetti transitori, nel senso che sono diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico per l’incolumità delle persone e per la sicurezza delle infrastrutture e del patrimonio ambientale e culturale. Inoltre, la loro straordinarietà rileva anche sul piano procedimentale: essendo uno strumento di natura eccezionale con il quale si intende fare fronte ad una situazione di emergenza, a differenza del P.A.I. può essere approvato anche in deroga alle procedure ordinarie di cui all’art. 66. In ogni caso, secondo il Consiglio di Stato – Sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6250 – le indicazioni andranno statuite rifiutando un “approccio puramente ipotetico al rischio fondato su semplici supposizioni non ancora accertate scientificamente”, dando rilievo alla “valutazione dei rischi che riveli indizi specifici, i quali, senza escludere l’incertezza scientifica, permettano di concludere sulla base dei dati disponibili che risultano maggiormente affidabili e dei risultati più recenti della ricerca internazionale, che l’attuazione di tali misure è necessaria al fine di evitare pregiudizi all’ambiente e alla salute”; infine, tenendo conto che “la situazione di pericolo deve essere potenziale o latente ma non meramente ipotizzata” e che, sul piano procedimentale, “la valutazione deve concludersi con un giudizio di stretta necessità della misura”.
Stante la natura anticipatoria dei P.A.I., che dispongono misure di tutela pianificata in via preventiva, la Corte Costituzionale ha inevitabilmente riconosciuto che ai P.A.I. deve essere attribuita la stessa natura giuridica (e le medesime finalità) dei piani di bacino (cfr. il punto 18 del considerato in diritto della sentenza n. 232 del 23 luglio 2009), per cui nell’esplorare i possibili effetti giuridici delle prescrizioni relative, lo sguardo va in primo luogo al disposto dell’art. 65, comma 4, ai sensi del quale “le disposizioni del piano di bacino approvato hanno carattere immediatamente vincolante per le amministrazioni ed enti pubblici nonché per i soggetti privati, ove trattasi di prescrizioni dichiarate di tale efficacia dallo stesso piano di bacino”.
4 – I P.A.I. tra pianificazione urbanistica e tutela paesaggistica.
Quanto or ora riportato dimostra – come ha affermato il Consiglio di Stato nella decisione della Sezione IV, 20 maggio 2014, n. 2563 – che i piani e gli strumenti connessi alla tutela idrogeologica costituiscono un “prius” logico e funzionale rispetto alla pianificazione urbanistica, in coerenza e continuità con quanto la Consulta aveva affermato nell’importante sentenza n. 85 del 1990, decisione che aveva puntualizzato come “il fine conservativo dei piani di bacino sia pregiudiziale e condizionante rispetto agli usi del territorio per fini urbanistici, civili e di sfruttamento dei materiali di produzione”. Queste inequivoche affermazioni di principio sulla cogenza delle previsioni vincolistiche dei piani di assetto hanno occasionato – giocoforza – un amplissimo contenzioso di cui si rinviene traccia nelle banche – dati, promosso sia da privati non intenzionati ad accettare lo svuotamento pratico delle facoltà di utilizzo e di godimento dei loro beni, sia da enti locali poco inclini ad accettare una invasione tanto penetrante della loro autonomia programmatoria.
Molte sono le esemplificazioni fornite dalle pronunce giurisprudenziali ove si chiarisce che “i comuni non potranno rilasciare i provvedimenti abilitativi che siano contrastanti con le previsioni del PAI in materia edilizia” (TAR Puglia, Lecce, sez. I, 29 aprile 2014, n. 1117), ovvero si sentenzia che “è legittimo il provvedimento con il quale non viene assentita la realizzazione di un nuovo insediamento abitativo in zona ad elevato rischio di esondazione. Il provvedimento di approvazione del Piano di Bacino agisce quale revoca implicita di precedenti provvedimenti di approvazione della lottizzazione, la cui motivazione risulta in re ipsa tenuto conto della natura del vincolo (Tar Sicilia, Palermo, sez. III, 31 agosto 2011, n. 1571). Ragion per cui anche la Cassazione Penale non ha avuto dubbi nello statuire che “le disposizioni dei Piani stralcio di distretto per l’assetto idrogeologico (c.d. P.A.I.), contenenti misure applicabili in via d’urgenza per fronteggiare situazioni di rischio idrogeologico nelle more dell’intervento ordinario, in quanto assimilabili a quelle dei Piani di bacino ai sensi degli art. 65, comma 4, e 67, comma 1, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, hanno carattere immediatamente vincolante per le amministrazioni, gli enti ed i soggetti privati, ove lo stesso Piano le qualifichi espressamente come tali, e prevalgono, in tale ipotesi, sugli strumenti urbanistico-edilizi eventualmente già adottati; ne consegue l’illegittimità dei titoli abilitativi (nella specie, permesso di costruire) rilasciati in violazione di tale disciplina vincolistica e la configurabilità della contravvenzione di cui all’art. 44, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 (Cass. Pen., Sez. III, 16 giugno 2016, n. 55003). Molto interessante è pure quanto ha stabilito il T.A.R. per il Veneto, con riguardo all’applicazione di una disciplina fortemente derogatoria della pianificazione territoriale come la normativa regionale in materia di disabilità, concludendo che l’art. 10 della L.R. Veneto n. 16 del 2007 (disposizione che riconosce uno speciale bonus edificatorio per le abitazioni di persone invalide) non consenta di eludere i divieti posti “a monte della strumentazione urbanistica dal piano di assetto idrogeologico” (TAR Veneto, sez. II, 9 settembre 2016, n. 1001).
Quanto abbiamo visto circa la prevalenza assoluta della pianificazione idrogeologica pone evidentemente problemi delicati allorquando si abbia riguardo alla pianificazione paesistica. Potremmo principiare lungo questo crinale da un richiamo alla sentenza della Corte Costituzionale n. 50 del 2017 che dichiara la illegittimità della legge urbanistica ligure (L.R. n. 36 del 1997) nella parte in cui – all’art. 2, comma 5 – dispone che “«i piani di bacino, nonché i piani delle aree protette di cui alla vigente legislazione regionale, vincolano, nelle loro indicazioni di carattere prescrittivo, la pianificazione territoriale di livello regionale, metropolitano, provinciale e comunale con effetto di integrazione della stessa e, in caso di contrasto, di prevalenza su di essa». Tale norma viola l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione all’art. 145, comma 3, del codice dei beni culturali e del paesaggio, il quale prevede che le disposizioni dei piani paesaggistici prevalgono sulle disposizioni contenute negli altri atti di pianificazione territoriale di settore” (Corte Cost., 10 marzo 2017, n. 50). Delicatissimo è quindi il profilo dell’equilibrio delle competenze. Nessun problema sussiste ovviamente quando è il legislatore stesso che si incarica di tracciare la rotta, come nel caso isolato della disciplina delle aree protette fissata dalla legge n. 394 del 1991, secondo cui il piano del parco sostituisce ad ogni effetto e livello i piani paesistici, i piani urbanistici e tutti gli strumenti di pianificazione territoriale (cfr. art. 12, comma 7, tant’è il Consiglio di Stato parla di “speciale sovraordinazione e netta ed automatica prevalenza ed efficacia sostitutiva”: cfr. la sentenza della Sezione IV, 24 novembre 2014, n. 5821); questo conclamato valore assorbente semplifica e ordina ex ante l’approccio procedimentale alla materia. In generale, però, si pone il problema di stabilire il grado di priorità nell’ambito degli interventi/interessi pubblici. Se le attività modificative del territorio, ordinate alla tutela delle acque o dalle acque va riconosciuta una valenza superprimaria, come si ricava anche dal lessico dottrinale, in quanto riguardano una risorsa vitale ed una componente essenziale dell’equilibrio ambientale, allora ci troviamo in presenza di un interesse equiordinato ad altri interessi superprimari, anch’essi inerenti alla dimensione spaziale del territorio, quali la tutela dei beni paesaggistici (cfr. S. AMOROSINO, Governo delle acque e governo del territorio e (paesaggio), in Analisi giuridica dell’economia, n. 1/2010, p. 83). In assenza di un criterio normativo di prevalenza, prestabilito in sede costituzionale o legislativa, in questi casi il confronto e la composizione tra gli interessi vanno compiuti nell’ambito del procedimento amministrativo volto ad autorizzare la realizzazione di un certo intervento in un determinato sito.
Un interessante tentativo di quadratura del tema è contenuto nel nuovo Testo Unico in materia di foreste, emanato con il D. Lgs. 3 aprile 2018, n. 34, normativa di notevole rilievo nel mettere a fuoco la simbiosi tra attività forestale e tutela idrogeologica. Vi si definiscono – ad esempio – all’art. 7 come attività di gestione forestale “le opere di sistemazione idraulico forestale realizzate con tecniche di ingegneria naturalistica” e, all’art. 6, si impegnano le Regioni ad adottare un Programma forestale regionale calibrato “alle necessità di prevenzione del rischio idro-geologico, di mitigazione e di adattamento al cambiamento climatico” (comma 2). Ebbene, al comma 12 dell’art. 7 il D. Lgs. n. 34 dispone che con il Piano paesaggistico regionale o sulla base di specifici accordi tra le Regioni e il MIBAC vengono concordati gli interventi di gestione forestale “ritenuti paesaggisticamente compatibili con i valori espressi nel provvedimento di vincolo”. Adusi a determinazioni dell’Autorità tutoria che, in materia di paesaggio e di bellezze naturali, rassomigliano di frequente a mere clausole di stile, infarcite di una verbosità tautologica spesso fine a sé stessa e che mortifica qualsiasi seria comprensione dei contesti reali, qui possiamo cogliere l’esigenza di un autentico cambiamento di verso. Posta la delicatezza e l’importanza della tutela idro-geologica la legge promuove strumenti consensuali che tendano alla riduzione dei margini di arbitrarietà, oggettivizzando criteri e parametri di valutazione. Abbandonando i lidi di un sistema in cui il provvedere è di matrice totalmente soggettivo-discrezionale, modellato su ponderazioni caso per caso com’è tipico degli atti soprintendentizi, questi accordi potrebbero essere la sede di una adeguata formalizzazione scientifica di regole e concetti, in un dialogo proficuo tra scienza e diritto. Avvertiamo il bisogno di questa ibridazione che dia coerenza e affidabilità alle valutazioni e che, pur accettando l’ineliminabilità della discrezionalità, ponga le basi di una utile correttezza procedimentale, impostata con la pre-determinazione dei canoni da contestualizzare nei singoli giudizi. D’altro canto, il D.P.R. n. 31 del 2017 ci è già di grande aiuto perché nell’allegato A annovera tra gli interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica “opere idrauliche; interventi di realizzazione o adeguamento della viabilità forestale al servizio delle attività agrosilvopastorali e funzionali alla gestione e tutela del territorio” (A 20) ed anche “interventi di manutenzione degli alvei, delle sponde e degli argini dei corsi d’acqua, compresi gli interventi sulla vegetazione ripariale arborea e arbustiva, finalizzati a garantire il libero deflusso delle acque – Interventi di manutenzione e ripristino funzionale dei sistemi di scolo e smaltimento delle acque e delle opere idrauliche in alveo” (A 25) oppure “interventi puntuali di ingegneria naturalistica diretti alla regimazione delle acque e/o alla conservazione del suolo” (A 26). Anche la procedura semplificata considerata dall’allegato B va riferita a rilevanti interventi di settore come “interventi di modifica di manufatti di difesa delle acque delle sponde dei corsi d’acqua e dei laghi per adeguamento funzionale” (B 39) e “interventi sistematici di ingegneria naturalistica diretti alla regimazione delle acque, alla conservazione del suolo o alla difesa dei versanti da frane e slavine” (B 40).
Merita segnalazione pure lo sforzo compiuto dalla Regione Veneto con la legge regionale 30 dicembre 2016, n. 30 che all’art. 68, con il titolo di “norme semplificative per la realizzazione degli interventi di sicurezza idraulica” – prescriveva che “gli interventi di manutenzione degli alvei, delle opere idrauliche in alveo, delle sponde e degli argini dei corsi d’acqua, compresi gli interventi sulla vegetazione ripariale arborea e arbustiva, finalizzati a garantire il libero deflusso delle acque possono essere eseguiti senza necessità di autorizzazione paesaggistica ai sensi dell’articolo 149 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42”. La previsione anticipava temporalmente la liberalizzazione che sarebbe poi stata introdotta con il D.P.R. n. 31 del 2017 ma la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 66 del 30 marzo 2018, non tardò a dichiararne l’illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, comma 2, lett. s), Cost., posto che si prevedeva una procedura per l’autorizzazione paesaggistica diversa da quella dettata dalla legislazione statale, non essendo consentito alle Regioni introdurre deroghe agli istituti di protezione ambientale che dettano una disciplina uniforme, valevole su tutto il territorio nazionale. L’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata non è stata esclusa dall’intervenuto D.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31, che ha individuato le tipologie di interventi per i quali l’autorizzazione paesaggistica non è richiesta, in quanto si è affermato che essa ha una portata più ampia della regolamentazione statale quanto al tipo di interventi esonerati (le «opere idrauliche in alveo»), ragion per cui – anche a volere ritenere coincidenti le due tipologie di interventi (quella regionale e quella statale sopravvenuta) – la norma regionale avrebbe prodotto, seppure per un limitato arco temporale, un abbassamento degli standard di tutela ambientale, così contravvenendo alla ripartizione costituzionale delle competenze.
5 – Gli altri strumenti pianificatori di tutela idrogeologica.
Si può avere l’impressione a questo punto che siano fondati i luoghi comuni sul fatto che il tema della pianificazione idro-geologica sia un tema emergenziale, dove il legislatore tradisce sempre il fiato corto, rincorrendo le calamità e pensando a piani dettati dall’urgenza più che dalla programmazione accorta. Questo, come abbiamo visto, in parte è vero: in fondo, della possibilità di utilizzare i piani stralcio, quali strumenti di pianificazione meno complessi dei piani di bacino, si sono ampiamente avvalse le Autorità di bacino e l’esperienza dei piani stralcio sta proprio a dimostrare la difficoltà di elaborare il piano generale di bacino e rende palese la frequente tendenza a ricorrere ad atti pianificatori parziali e contingenti che si qualificano dal punto di vista formale solo quali anticipazioni del piano comprensivo e che consentono di mettere in atte misure provvisorie di protezione sganciate dai tempi di una pianificazione complessiva.
Tuttavia, non deve sfuggire che questa tendenza è anche il frutto di una carenza di utilizzo, pressoché assoluta, di strumenti che la legislazione aveva comunque previsto in anni non sospetti, quando le impellenze dei cambiamenti climatici erano di là a venire, strumenti che hanno però conosciuto rara applicazione.
Il pensiero corre in particolare alla legge 25 luglio 1952, n. 991 (“Provvedimenti in favore dei territori montani”) che disegna l’ambizioso progetto di una riqualificazione dei territori alpini e pre-alpini per il tramite di un piano generale di bonifica montana, modellato sulla figura dei consorzi di bonifica integrale. Dal punto di vista applicativo veniva prevista una articolazione del territorio in comprensori con una gestione del miglioramento fondiario affidata a specifici consorzi precipuamente deputati “alle opere di consolidamento del suolo e di regimazione delle acque” (cfr. art. 17, primo comma). Ma, dal punto di vista concreto, questa possibilità è rimasta largamente lettera morta, mentre molteplici e diffusi sarebbero stati i benefici di una attuazione effettiva dei consorzi di bonifica montana, tanto più che l’approvazione dei piani relativi avrebbe avuto “per effetto di determinare le opere e le attività da considerare pubbliche e quindi di competenza dello Stato e di rendere obbligatoria l’esecuzione delle opere indicate nel piano stesso, con i sussidi previsti dalla legge” (cfr. art. 18, primo comma).
Altra occasione persa concerne i piani pluriennali di sviluppi socio-economico di cui all’art. 29, comma terzo, della legge n. 142 del 1990 e sopravvissuti alle successive riforme della normativa in materia di enti locali, tanto che l’art. 27 del D. Lgs. n. 267 del 2000 assegna alle Comunità Montane (ora, in Veneto, Unioni Montane) il compito di elaborare piani zonali (cfr. la lett. c) del comma quarto) di possibile interesse al tema odierno. Infatti, l’ultima legge statale sulla montagna, la legge n. 97 del 1994, all’art. 7 – titolato “Tutela ambientale” – assegna ai piani in questione che “hanno come finalità principale il consolidamento e lo sviluppo delle attività economiche ed il miglioramento dei servizi” anche la individuazione degli interventi per “il riassetto idrogeologico, la sistemazione idraulico-forestale, l’uso delle risorse idriche” (cfr. il primo comma).
La disposizione traccia un quadro esemplare di coordinamento sinergico tra lo sviluppo economico, civile e sociale della montagna e il consolidamento dei suoi territori ed indica nella difesa del suolo una politica permanente di tutela ambientale (cfr. M. BUSATTA, Commento all’art. 7, in La nuova legge per le zone montane a cura di G. C.. DE MARTIN e altri, Milano, 1995, p. 64). E’ peraltro significativo che il secondo comma dell’art. 7 in esame richieda che le relative previsioni siano “coordinate con i piano di bacino previsti dalla legge 18 maggio 1989, n. 183” e siano “rese coerenti con gli atti di indirizzo e di coordinamento emanati ai sensi della predetta legge” in tal modo prefigurando una sistema pianificatorio che si completa “a cascata”, nel quale le previsioni del P.A.I. potranno essere integrate e precisate a livello di pianificazione locale (sul punto, si veda TAR Piemonte, sez. I, 17 marzo 2016, n. 1310).
Questi utili strumenti di pianificazione preventiva, alla prova numerica dei fatti si sono dimostrati degli istituti a cui i governi regionali e locali hanno dedicato scarsissima attenzione, risolvendosi spesso in una occasione irrimediabilmente persa di affrontare nei tempi debiti situazioni poi fatalmente trattate entro un approccio solo emergenziale.
6 – Considerazioni finali.
Nel 1987, sulla rivista Jus, Feliciano Benvenuti a cui questo convegno è dedicato parlava della necessità di un diverso rapporto del potere pubblico con il territorio, non più come un esercizio delle potestà amministrative sul territorio ma per il territorio. Con una visione per il tempo alquanto innovativa, parlava del territorio come «bene comune», cioè “oggetto di un generale interesse che sta fuori dei concetti arcaici di proprietà o di possesso, ma costituisce una nuova forma di rapporto che, per quanto possa sembrare paradossale, si avvicina piuttosto a una nuova relazione tipica che unisce il cittadino a beni immateriali, come ad esempio la salute” (cfr. F. BENVENUTI, Pianificazione del territorio e tutela del cittadino, in Scritti giuridici, Milano, 2006, vol. V, p. 3946) ed oggi – a più di trent’anni di distanza – potremmo dire anche la sicurezza.
Ma si può aver avuto anche la sensazione che il tema di oggi sia un tema pan-pubblicistico che si gioca tutto dentro una legislazione amministrativa speciale di alto contenuto tecnico. Questa impressione sarebbe fuorviante e a tal riguardo può essere salutare uno sguardo finale al Codice Civile, sia per recuperare una spinta culturale più ampia, sia per sfatare anche la diceria che i nostri vecchi sapevano dove costruire e noi invece no e che saremmo noi moderni ad aver creato il problema del dissesto, prima sconosciuto … e altri luoghi simili comuni.
Dopo l’art. 832, secondo cui “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”, il Codice ci propone una serie di disposizioni sulla relativizzazione della proprietà privata mediante limiti di natura pubblicistici di cui in genere – per necessità di frequentazione quasi quotidiana – conosciamo le norme sulle distanze, sui regolamenti comunali, sui Piano Regolatori Generali ecc. (artt. 870, 872, 873 c.c.).
Sono state norme molto mal accettate dalla dottrina civilistica del tempo, perché aprivano la porta ad un flusso di leggi speciali stimato impuro e peccaminoso, che derogava o aggirava il vecchio impianto codicistico ereditato dal 1865. Il Codice iniziava a recepire dentro di sé ciò che la legislazione aveva accumulato fuori da esso. Si parlò del patimento di attrezzarsi per trovare il diritto civile nel Codice Civile (cfr. N. IRTI, La cultura del diritto civile, Milano, 1990, p. 3). Sono discorsi che ci porterebbero lontano ma in buona sostanza ci parlano della scelta di politica del diritto, che allora fu fatta, di assicurare e tutelare, prima (o comunque accanto) del godimento privatistico della proprietà, la sopravvivenza della stessa stanzialità umana sul territorio.
Tra queste norme, sotto una sezione dedicata a “Dei vincoli idrogeologici e delle difese fluviali”, si rinviene l’art. 866 secondo cui “i terreni di qualsiasi natura e destinazione possono essere sottoposti a vincolo idrogeologico, osservate le forme e le condizioni stabilite dalla legge speciale, al fine di evitare che possano con danno pubblico subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque” (primo comma). Inoltre, si prevede una tutela dei beni “che per la loro speciale ubicazione difendono terreni o fabbricati dalla caduta di valanghe, dal rotolamento di sassi, dal sorrenamento e dalla furia dei venti” (terzo comma).
Qui si coglie un frasario del tutto analogo al disposto dell’art. 17 della “legge Serpieri” ma si coglie anche un salto di qualità rispetto a vent’anni prima perché non si parla più solo di boschi o foreste ma di terreni in generale. Si tratta di una norma emblematica della scelta operata: lo Stato viene a perdere quel ruolo di «neutralità» rispetto alla proprietà ereditato dal passato e interviene direttamente, interessandosi, al contrario di quanto accadeva in precedenza, delle possibili utilizzazioni dei beni. Nella voce della Enciclopedia del Diritto prima ricordata, il prof. Sandulli indugia sul regime particolare dei terreni assoggettati a vincoli idro-geologico. Esclude nel suo argomentare che si tratti di una servitù, né prediale (in quanto manca una soggezione di un fondo a un altro fondo), né personale (in quanto manca l’insistenza sul bene di diritti altrui) e conclude che per le particolari limitazioni che il diritto di proprietà riceve da tale regime, i beni considerati assumono, nel quadro dei beni privati, un aspetto peculiare “sì da meritare ad essi l’inquadramento nella categoria dei beni privati d’interesse pubblico, da tener differenziata da quella degli altri beni privati” (ibidem).
Siamo dunque in presenza di una particolare delineazione e delimitazione del diritto di proprietà. Credo sia importante – e che aiuti anche la metabolizzazione da parte dei cittadini delle penalizzanti e gravi prescrizioni contenute nei Piani di Assetto – capire la valenza comunitaria sottesa alla loro titolarità di questi beni, per comprendere che il diritto non è più unicamente dei singoli ma è chiamato a farsi diritto del cittadino (e, dunque, della città, della comunità). Veicolare questo messaggio può assecondare una consapevolezza più piena del problema, che trasmuta in un problema di “come” godo la mia proprietà, in nuovo rapporto uomo/cose, uomo/terra, a partire dallo statuto codicistico del mio diritto dominicale. Si avverte qui, anche a fronte della fragilità politica, l’esigenza di una tensione morale e di una capacità tecnica da mettere a servizio. Entra in gioco “il fondamentale rapporto fra l’uomo e la terra, un rapporto di vita con vita, che si amplia poi nel rapporto della comunità con la terra, presupposto di ogni attività umana” (così G. CAPOGRASSI, Agricoltura, diritto e proprietà, in Opere, Milano 1959, vol. V, p. 275). Il problema è di unire le tre vite, la vita del singolo, la vita della comunità e la vita della terra: tutte e tre devono unirsi come vita e non come sfruttamento o asservimento dell’una con l’altra.
Enrico Gaz
*Relazione al XXIX Convegno annuale dell’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti, sul tema : “Cambiamenti climatici, tutela del suolo e uso responsabile delle risorse idriche” (Cortina d’Ampezzo, 5 luglio 2019). Si è conservata l’originaria forma colloquiale.