Palermo

Nella vita ci sono delle cose che dovresti avere fatto, e se non le hai fatte vuol dire che hai delle lacune. Poi, ogni tanto, c’è l’occasione di colmare almeno qualcuna di queste lacune. Io, è dura da confessare, non ero mai stato a Palermo.

Essere invitato a questo convegno è per me un grande onore, e ringrazio tutti di cuore, a cominciare dagli amici Salvatore Raimondi, Beatrice Miceli e Giampiero De Luca e dal presidente Salvatore Veneziano, e tutti gli organizzatori. Ma è anche l’occasione – di cui sono grato – di essere in un posto magnifico, carico di storia e di cultura, e che non conoscevo se non per i documentari, le letture, il Gattopardo…

Naturalmente l’ultima cosa che può fare uno che arriva in una realtà che non conosce è pensare di dare delle indicazioni. Me ne guardo bene, non lo farò.

Anche se – lo dico con affetto – credo che si sbagli il professor Raimondi quando ipotizza che un avvocato siciliano non può essere ai vertici dell’Unione nazionale degli avvocati amministrativisti perché non frequenta il Consiglio di Stato “romano” ma il Consiglio di Giustizia amministrativa. Il mondo della giustizia amministrativa siciliana non è un mondo parallelo. È un mondo con le sue peculiarità, ma pienamente integrato con le vicende nazionali in tema di giustizia amministrativa.

 

L’emergenza: capire ciò che è essenziale

Detto questo, le mie considerazioni sui giudici amministrativi e sugli avvocati amministrativisti sono generali e nello stesso tempo personali: non rappresento nessuno, anche se spero che le mie idee possano essere condivise.

Dunque: siamo qui, ora, in un momento particolare e del tutto nuovo. Scriveva Eugenio Montale che la storia non è “magistra” di niente che ci riguardi. Non so se è vero, forse esagerava, però l’impressione è quella: è una situazione nuova, e le risposte non possono venire dalla storia, neanche dalla storia delle istituzioni. La lunga storia delle istituzioni della nostra giustizia impone rispetto, ma non significa che esse non possano essere cambiate se devono essere cambiate per adeguarle al mutare delle esigenze e della sensibilità.

In questi due anni (abbondanti) di emergenza sanitaria abbiamo vissuto una situazione che non immaginavamo neppure e che è stata davvero drammatica, specie nel periodo iniziale quando eravamo esposti a rischi per cui non c’erano difese. La crisi ha messo in dubbio libertà che davamo per acquisite. Ha determinato un contrasto tra valori costituzionali, quali la tutela della salute e le libertà individuali. E ci ha messo di fronte alla necessità di comprendere che cosa è essenziale: anche nel processo amministrativo, anche nel rapporto tra gli operatori della giustizia amministrativa.

 

Giudici e avvocati, elementi essenziali di una funzione

C’è un libro ora di grande diffusione sulla giustizia amministrativa, si intitola “Potere assoluto”. Sarebbe il potere del Consiglio di Stato, dei Consiglieri di Stato. Un titolo così è efficace per lo “storytelling”, dietro c’è già un racconto: la giustizia amministrativa, in particolare il Consiglio di Stato, come luogo di un potere pervasivo e oscuro.

È un modo di esporre fatti ed episodi (con il rischio, peraltro, di delegittimare…). In realtà credo che il potere sia diffuso; che sia quello delle tante pubbliche amministrazioni che riempiono ogni aspetto della nostra vita esercitando ciascuna i propri e diversi poteri.

Ciò rende essenziale che vi sia un giudice, che vi sia un sistema di giustizia cui ci si possa rivolgere contro qualcuno che è più forte perché appunto esercita un potere. Anche il giudice, per svolgere il suo compito, deve dunque esercitare un potere: il potere di intervenire sugli atti amministrativi, di condannare la pubblica amministrazione a risarcire i danni, di conformare l’attività amministrativa.

Non un potere fine a sé stesso, ovviamente; ma un potere necessario per rendere un servizio ai cittadini, alle imprese, a chi si rivolge al sistema della giustizia amministrativa.

Il potere del giudice è in funzione di tale servizio. Ma la nozione di servizio non è sufficiente, perché un servizio può essere ridotto, può essere eliminato se le risorse disponibili divengano sempre più scarse. La tutela da parte di un giudice nei confronti dei poteri pubblici è invece un servizio che non può mancare: se non fosse data risposta all’esigenza di tutela, quest’ultima cercherebbe altre strade, sia a livello individuale che a livello sociale, mettendo a rischio la legalità complessiva dell’ordinamento. E dunque la giustizia amministrativa è una funzione pubblica fondamentale e incomprimibile.

Ho rubato un verso di Shakespeare e l’ho usato per dare un titolo a un mio modesto libro: “Per prima cosa, uccidiamo tutti gli avvocati”. Sembra una frase divertente, e lo è anche, lo ammetto… Ma il senso è diverso da quel che appare. Gli avvocati, come i giudici, sono un elemento centrale della nostra società e della nostra civiltà. E – nella tragedia di Shakespeare – quando dei rivoltosi animati dalla volontà di sovvertire tutto, di impadronirsi con la violenza per il proprio tornaconto dello Stato, passano in rassegna le cose da fare, mettono l’eliminazione degli avvocati in cima alla loro lista: è un complimento per gli avvocati, è il riconoscimento del fatto che sono essenziali.

Shakespeare chiude lì, ma se c’era un verso in più sarebbe stato per i giudici: siamo entrambi elementi di un sistema.

 

Distinti e complementari

Da qui muoverei dunque ad esaminare i rapporti tra giudici amministrativi e avvocati amministrativisti, che sono l’oggetto di questo intervento.

È anzitutto evidente la diversità dei ruoli, e la necessità del loro rispetto. Siamo complementari nella funzione cui concorriamo, ma certamente non compatibili: nessuna sovrapposizione è ammissibile in nessun modo.

Credo che un buon punto di partenza sia il testo attuale dell’articolo 111 della Costituzione, quello sul giusto processo, che impone che le parti siano in posizione di parità davanti al giudice.

Sembra scontato – che giudice è mai chi giudica in un processo squilibrato? – ma nella giustizia amministrativa non lo è affatto: la pubblica amministrazione è portatrice di interessi pubblici, esercita poteri pubblici, incide sulle posizioni individuali, ha una posizione di preminenza. Ma tutto ciò fuori dal processo. Nel processo deve invece essere una parte come le altre, in condizioni di parità con le altre. Sbaglierebbe nei fondamentali il giudice amministrativo che guardasse all’interesse pubblico, perché si sostituirebbe a una delle parti.

Nei rapporti con gli avvocati il tema è in fondo analogo: la parità tra le parti non può essere messa a rischio dalle preferenze personali, dall’amicizia, dalle frequentazioni, dai rapporti tra il giudice e l’avvocato. Insomma: vogliamoci bene, tra avvocati e giudici, ma non troppo…

Il tema dunque è quello dell’indipendenza: l’indipendenza dei giudici nei confronti del potere pubblico, ma anche l’indipendenza nei confronti degli avvocati. Non parlerò qui della tematica delle “porte girevoli” e delle previsioni normative al riguardo nel disegno di legge “Cartabia”, ma non ne siamo lontani.

È un tema vasto – bisognerebbe in realtà distinguere tra imparzialità, indipendenza, terzietà – ma mi limito qui a dire che si pone sia a livello personale che strutturale.

A livello personale è il singolo giudice che deve preservare il suo ruolo: nei rapporti con le parti, ovviamente, ma anche con gli avvocati (così come è il singolo avvocato che deve garantire il rispetto dei reciproci ruoli nei suoi rapporti con i giudici).

A livello strutturale si pone la problematica dell’indipendenza della magistratura amministrativa come plesso; e dunque vi si inquadrano le questioni connesse all’esercizio delle funzioni giurisdizionali e consultive, agli incarichi extragiudiziari, alle nomine dirette dei Consiglieri di Stato.

È un tema sul quale la sensibilità – non solo la nostra come operatori della giustizia amministrativa, ma quella collettiva – si è acuita nel corso del tempo, rendendo necessaria una verifica della normativa vigente e, ritengo, un suo adeguamento.

La parità delle parti non può essere lesa neanche solo a livello di immagine, ed è uno degli aspetti che ci impone grande attenzione: basta infatti la semplice possibilità del dubbio perché sia pregiudicata la credibilità del sistema, e dunque quella dei giudici e degli avvocati insieme.

 

La cooperazione necessaria

Pur nella diversità dei ruoli, è naturalmente necessaria la cooperazione tra giudici e avvocati.

I protocolli di intesa tra giudici e avvocati, a parte le considerazioni sulla loro natura giuridica, li conoscevamo già prima dell’emergenza sanitaria: hanno avuto un ruolo fondamentale nel consentire il passaggio al processo amministrativo telematico.

Ma nel periodo emergenziale sono diventati un metodo che può essere ora di generale applicazione. Ciò ha aspetti certamente positivi, ma anche qualche profilo da considerare con attenzione: in particolare, quello della eterogeneità geografica che i protocolli locali possono determinare.

Certo, rispetto a una tendenza condivisibile e generale alla gestione consensuale delle problematiche operative, si pone ora in netta contraddizione l’attribuzione al Consiglio di Stato – disposta nel corso del periodo emergenziale, ma a regime – del potere di normare il processo amministrativo telematico nei suoi profili tecnici. Capisco la specificità della disciplina: ma, in linea di principio, chi pone le regole o è fuori dal gioco o non può essere uno soltanto di chi vi partecipa.

Sotto altro profilo, credo che dovrebbero essere introdotti per legge degli organismi del tipo dei consigli giudiziari anche nella giustizia amministrativa.

Non per dare le “pagelle” ai giudici, come usualmente (e riduttivamente) si dice. Fermo restando però che la giustizia amministrativa non può comunque continuare a essere autoreferenziale. Non può essere cioè un sistema in cui ogni decisione sui giudici è presa dai giudici; e, più precisamente, da un Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa fatto di giudici amministrativi e di “laici” i quali di regola sono scelti tra quanti non sanno di diritto amministrativo. Sia chiaro, è una “regola” ben comprensibile, ad evitare i profili di possibile conflitto di interessi, ma porta a un risultato incongruo; mentre è evidente la mancanza nel C.P.G.A. di una rappresentanza dell’avvocatura.

Ricordo che anni fa il Presidente dell’Unione nazionale degli avvocati amministrativisti dell’epoca, Umberto Fantigrossi, si rese disponibile a far parte del Consiglio di Presidenza (e a smettere conseguentemente di fare l’avvocato). Come Unione sostenemmo quella candidatura, cercando di capire come funzionavano le nomine. I meccanismi di scelta dei “laici” da parte dei due rami del Parlamento si rivelarono tutt’altro che trasparenti, le nomine furono oggetto di accordi interni tra le forze politiche, e – pur rappresentando istituzionalmente l’avvocatura specialistica – non venimmo neppure presi in considerazione.

Francamente, non so quale sia la soluzione giusta: ma se – nella formazione del C.P.G.A. – il risultato è questo, da qualche parte si deve pur intervenire.

Ciò detto, la ragione per istituire – a livello locale e centrale – degli organismi gestionali permanenti espressione di Foro e Curia è quella di poter contare su “tavoli” congiunti operativi la cui esistenza non dipenda da scelte individuali e nei quali possano affrontarsi le questioni organizzative in un confronto aperto.

 

Telematica, udienze da remoto, riserve mentali

Sempre in ordine alla necessità della cooperazione tra giudici e avvocati amministrativi, credo che il periodo emergenziale ci abbia dato modo di capire con grande concretezza la direzione verso cui si sta andando.

Il dato rilevante è che il processo amministrativo ha retto, che il sistema della giustizia amministrativa ha continuato a funzionare. Non sempre tutto è andato nel modo migliore, e la normativa è stata spesso confusa (pensiamo alle disposizioni sulle memorie e sulle note d’udienza, che hanno creato incertezze di tutti i tipi). E poi, per ragioni di fatto, non hanno potuto svilupparsi esperienze importanti come ad esempio un uso “evolutivo” delle camere di consiglio (in funzione cioè non della tutela cautelare, ma della progressione nel giudizio e del superamento del contenzioso).

Però il sistema ha retto. In generale, la telematica – che già aveva cambiato il processo amministrativo – ha consentito che il processo funzionasse anche durante la pandemia. Tre anni prima, il processo amministrativo telematico ci aveva fatto sentire tutto il peso della sua introduzione. Tre anni dopo, ha mostrato quali erano gli enormi vantaggi. Tutto ha potuto essere fatto a distanza, senza muoversi dallo studio o anche da casa.

Le udienze telematiche, poi, hanno funzionato bene: almeno nel loro complesso, almeno nel settore della giustizia amministrativa. Ora però sono relegate alle udienze di smaltimento. Al di fuori di quelle, le udienze telematiche non possono più esserci, neanche come facoltà in più, neanche in casi eccezionali. Credo sia uno sbaglio, che la realtà imporrà di correggere. Le udienze telematiche ci hanno consentito di partecipare effettivamente, dimostrando che è possibile un enorme risparmio di tempo e denaro, specie in una giustizia come la nostra in cui l’unico giudice d’appello è a Roma (o a Palermo). Se la cautela è doverosa e l’attenzione deve essere costante, tuttavia contrastare il nuovo che avanza è inutile e può anzi impedire di coglierne le immediate opportunità.

L’evoluzione fisiologica del processo amministrativo passerà anche attraverso le udienze telematiche (e i loro inevitabili sviluppi, come le udienze miste, partecipate insieme da remoto e in presenza).

Devo poi dire che non condivido le posizioni romantiche per le quali la discussione ha senso solo se è in presenza. Molte discussioni, se devi farle in presenza, non le fai. E dunque le udienze da remoto non sono la negazione dell’oralità. Al contrario, consentono un incremento dell’oralità nel processo amministrativo, usando gli strumenti di un mondo che cambia. Il concetto mi sembra importante: oggi l’oralità, nel processo amministrativo, è garantita dalla possibilità che le udienze si svolgano a distanza. Invece imporre che le discussioni si svolgano solo in presenza significa limitare l’oralità. Le nobili affermazioni a sostegno della necessità della presenza fisica rischiano di essere slegate dalla realtà.

E forse in qualche caso c’è dietro una riserva mentale. Forse se le discussioni diventano più numerose perché telematiche – e più facili da fare – possono essere percepite come una perdita di tempo da parte del giudice. Ma allora il problema è un altro, e va affrontato apertamente: come devono essere le discussioni in udienza perché non siano una perdita di tempo? Come devono essere condotte per essere utili? E soprattutto, le udienze richiedono uno studio e una preparazione prima: dunque, rileva il tema delle “precamere” di consiglio. E allora c’è un altro aspetto da approfondire: come funziona la collegialità del giudice quando i componenti sono remoti tra loro?

Insomma, gli stessi temi – per essere esaminati davvero – vanno visti da più parti. E convegni come questo costituiscono un’ottima occasione.

 

Eliminare l’arretrato quando ancora non è arretrato?

Altri elementi nuovi di questi due anni meritano certamente di restare. Le fasce orarie, ad esempio, quando predisposte con cura si sono dimostrate un buon modo di organizzare le udienze; le preliminari caotiche e affollate dalle spedizioni a sentenza non lasciano rimpianti.

Invece è presto per capire gli effetti del nuovo art. 72 bis del codice del processo amministrativo, che in sostanza prevede un filtro iniziale generalizzato per eliminare i ricorsi immediatamente eliminabili, cioè – nella pratica – quelli inammissibili.

L’obiettivo risponde a una logica di per sé condivisibile: impedire in partenza che si abbia un contenzioso “gonfiato”, così da evitare che si formi un arretrato che non merita di formarsi. E il meccanismo dell’art. 72 bis può essere visto come uno strumento utile anche per gli avvocati, che potranno attivarlo mediante segnalazioni provenienti dalle parti resistenti e controinteressate (in aggiunta alle segnalazioni dell’Ufficio del processo).

Ma in ogni caso il nuovo articolo 72 bis è uno strumento da maneggiare con grande cura: proposto il ricorso, rischi di trovarti immediatamente in una camera di consiglio che non hai chiesto, con un piede già nel baratro, e con la prospettiva di un appello nel quale vi sono limiti alle difese e alle produzioni documentali. E forse, di fronte a uno strumento nuovo con tali potenzialità e rischi, un “convenzionamento” tra il Foro e la Curia sulle modalità di applicazione può essere utile ad evitare usi indiscriminati.

Il discorso si lega ai tempi del giudizio amministrativo e all’effettiva importanza dell’obiettivo dello smaltimento dell’arretrato. Obiettivo del tutto condivisibile, sia chiaro. Però ciò che i giudici – e/o il legislatore – considerano un problema gravissimo, l’arretrato, non sempre è sentito allo stesso modo dagli avvocati e dai loro clienti: dipende dalle situazioni. Insomma, misurare la qualità di un giudice dall’arretrato smaltito forse non è corretto.

E poi vi è il tema – di grande rilievo pratico – dell’Ufficio del processo. Anche su questo, non è facile fare valutazioni. Ma di sicuro è molto delicata l’inserzione di personale amministrativo precario (e spesso legato al mondo dell’avvocatura) nello svolgimento dell’attività giurisdizionale.

Il paragone frequente è con la Corte costituzionale e con gli assistenti di quei giudici. Ma la situazione è diversa quando devi giudicare del fatto. E se stiamo parlando dei rapporti tra giudici e avvocati, va rimarcato che qui c’è un elemento nuovo: l’inserzione di un soggetto diverso.

 

Il momento per riordinare i riti

Sotto un ulteriore profilo, la disciplina attuale del processo amministrativo è caratterizzata da troppi riti, non coordinati, spesso complicati e talora sovrapposti.

L’amico Francesco Volpe – in modo molto efficace – li ha messi recentemente in fila. Il conto è impressionante: risultano esserci undici riti speciali e – nelle controversie ordinarie – otto sistemi alternativi per giungere a sentenza. Tra giudizi accelerati, giudizi definibili in camera di consiglio, o a seguito di istanza di prelievo ex 71 bis, o su segnalazione ex 72 bis, cause che vanno in smaltimento, riti del silenzio, dell’accesso, risarcitori, riti ex 119, ex 120 c.p.a, c’è da perdersi…

La pluralità dei riti ha senso solo se risponde ad esigenze effettive, in funzione di un esito più agevole e adeguato del giudizio. Ma molti di questi riti non sembrano affatto rispondere a tali esigenze. Dunque si impone un riordino. E forse è il momento giusto per farlo, in quella verifica complessiva della funzionalità del servizio giustizia che il PNRR ci impone.

 

Se cambia l’amministrazione, deve cambiare la giustizia dell’amministrazione

Più in generale, giudici e avvocati devono essere consapevoli dell’evoluzione dell’attività amministrativa e del procedimento. Devono saper guardare la realtà delle cose al di là del “confezionamento” formale degli atti.

Il cambiamento epocale si è avuto naturalmente con la legge 241 del 1990. Dopo quella legge, l’attività amministrativa non è più stata la stessa. Ad esempio, la motivazione come esito dell’attività procedimentale ora non manca più in nessun provvedimento. Ma molte volte non serve davvero a motivare; serve piuttosto a far da barriera, a difesa di decisioni già prese. Si rende dunque necessaria un’evoluzione nella consapevolezza degli operatori della giustizia amministrativa per poter valutare davvero l’attività dell’amministrazione per come è ora. Insomma, per poter vedere “oltre”.

In tale quadro vanno considerate con grande favore alcune modifiche recenti della legge 241 che rispondono a questa mutata sensibilità: come la regola chiamata “one shot”, posta – su impulso della giurisprudenza – dal rinnovato articolo 10 bis della legge 241. L’amministrazione deve essere collaborativa e non imperscrutabile, deve prendere una posizione compiuta su ciò che le viene chiesto: non può prenderti per “sfinimento”, non può dire di no dieci volte di seguito per dieci ragioni diverse, costringendo a contenziosi defatiganti ma inutili. Ciò si lega al principio della buona fede, visto come regola generale dell’ordinamento e introdotto espressamente nel nuovo articolo 1 della legge 241.

 

Due storie, una stessa responsabilità

Concludo parlando della responsabilità dei giudici e degli avvocati, che – nella diversità dei ruoli – è tuttavia analoga.

Vorrei raccontare due storie, una dedicata ai giudici ma in realtà riferibile anche agli avvocati; l’altra riguardante gli avvocati ma in realtà perfetta anche per i giudici. E il fatto che vadano bene per entrambe le categorie conferma, a mio avviso, che la responsabilità non è diversa.

La prima storia sta tutta in una frase raccontata dal Presidente di un TAR.

Una sera a cena un’amica si lamentava del marito, anestesista, perché si alzava sempre prestissimo per arrivare la mattina al lavoro con largo anticipo. E il marito rispose che sì, era vero, ma che la mattina, andando in macchina verso l’ospedale, pensava sempre che per lui quello era un giorno normale, ma per il paziente che stava per essere operato era il giorno più importante della sua vita.

Ecco, l’etica dell’anestesista è quella che dobbiamo avere: il senso della responsabilità per gli effetti di ciò che facciamo, come giudici e come avvocati. Da noi non dipende la vita e neanche la libertà delle persone, ma siamo responsabili per un’attività da cui dipendono vicende che hanno un impatto diretto sui singoli e sull’intera collettività.

La seconda storia riguarda un grande giurista del secolo scorso, Feliciano Benvenuti, il cui pensiero conserva un’eccezionale attualità.

Era il 1991, Feliciano Benvenuti parlava agli aspiranti avvocati dell’epoca, un amico portò un mangiacassette e registrò l’intervento (riemerso a decenni di distanza, un po’ come un’ultima lezione di Benvenuti).

Era fine giugno, e questo era l’esordio:

Potremmo iniziare con una domanda: perché siete qui e non in spiaggia? Oggi è un gran bella giornata! Che caldo e che bel sole! Perché siete qui? Perché avete scelto questa via? La domanda non è banale e la risposta è decisiva.

Qualcuno lo fa per continuità familiare, qualche altro per la posizione sociale che la nostra professione ancora assicura, pochi, mi auguro, per trovare un mucchio d’oro perché soldi se ne fanno di più e con molta minore fatica facendo altre cose.

In realtà io penso di immaginare quali siano le vostre risposte: state realizzando la vostra vocazione, la vostra chiamata al meglio di voi stessi.

E, dopo un esordio del genere, la conclusione è di pari levatura:

L’ultima parola che vorrei dirvi è auto-responsabilità: è questa la parola dell’avvocato.

Sapeste quante volte ci si chiede: ma se avessi detto questo, ma se avessi toccato quel punto, se avessi sviluppato quella tesi, e così via. Capiterà anche a voi, ve lo auguro. Ogni mattina e ogni sera, quando vi alzate e quando vi coricate dovrete chiedervi: sono stato un buon avvocato?

In questa sua solitudine sta la grandezza dell’avvocato.

E’ controintuitivo, ma vero. Si fa un lavoro immerso nei rapporti sociali, eppure si è soli.

Vale anche per i giudici, collegiali o no che siano.

Si è soli di fronte a sé stessi, di fronte alla propria coscienza. E se riusciamo a reggere questo confronto, in ciò sta la nostra grandezza.

Stefano Bigolaro

*Intervento tenuto il 27.5.2022 nel convegno “Il processo amministrativo dopo la pandemia: dall’emergenza a una nuova normalità”, organizzato a Palermo presso la Sede del TAR della Sicilia dall’Associazione avvocati amministrativisti della Sicilia e dalla Camera amministrativa siciliana.

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