Scontro  frontale tra Cassazione e Consiglio di  Stato: il 29 settembre le Sezioni Unite della Corte  regolatrice della  giurisdizione dicono che  il   giudizio avverso l’atto di sospensione per mancata  vaccinazione  da parte  di professionisti  sanitari spetta al giudice ordinario vertendosi in fattispecie di tutela di  diritti soggettivi in quanto la p.a.  ha poteri vincolati (poteri sì ma vincolati) e il  4 ottobre il  Consiglio di  Stato dice l’esatto  opposto: la giurisdizione spetta al giudice amministrativo  poiché il potere vincolato (su questo concorda con  le Sezioni Unite) non tocca solo diritti  soggettivi ma anche,  come nella   fattispecie, interessi legittimi,  come avviene  quando la norma  attributiva del potere  di intervento  pubblico  è immediatamente e  direttamente rivolta alla  tutela dell’interesse pubblico  e  non  del singolo amministrato.

La cronologia (e  in particolare la  vicinanza  temporale tra le due  autorevolissime e argomentate pronunce), oltre alla  piena, perfetta identità della fattispecie trattata (sospensione  di professionisti sanitari disposta da due  ordini  professionali diversi solo per territorio -Liguria il Consiglio di Stato, Marche la Corte di Cassazione- e -ovviamente- soggetti interessati) evidenzia,  se  non drammatizza, l’importanza e gravità del contrasto.

Se si tiene   conto che, nella vicenda esaminata  dalla Corte  di Cassazione, vi erano  già state due pronunce, l’una del  giudice ordinario in sede di ricorso ex art. 700 cpc, declinatoria della giurisdizione, l’altra, un’ordinanza del Tar Ancona ai sensi dell’art. 11 cpa, di sollevazione di conflitto negativo di competenza, e che nel caso del Consiglio  di  Stato, era invece intervenuta  una sentenza del Tar  che aveva  declinato la giurisdizione “Dopo avere respinto in più occasioni e con diversi decreti monocratici la domanda di tutela cautelare provvisoria”, rigetto verosimilmente intervenuto anche per ragioni di giurisdizione, si può cogliere facilmente come l’incertezza sulla giurisdizione -tanto più rispetto  ad  un tema estremamente puntuale e soggetto  a continui interventi legislativi come quello della sospensione dei sanitari non vaccinati, interventi normativi che non hanno mai toccato la giurisdizione- produce un lavoro giudiziario esorbitante rispetto  alle  risposte   date al cittadino  e consuma  in modo sconfortante la “risorsa giustizia” notoriamente scarsa (Cons.  St. A.P. 8/2022 del  13 7 2022; Cgars 814/2022)  e da proteggere con interventi  di “economia  sostenibile”. Le due pronunce rimettono la palla a nuovi giudizi, uno dei quali (quello amministrativo, radicato avanti al  Tar Liguria per  effetto dell’affermazione della giurisdizione ammininistrativa ad opera della pronuncia del Consiglio di  Stato  n. 8433/22) esposto a censure di giurisdizione possibili per tre gradi di giudizio.

Si tratterà di problematica specifica ad esaurimento (la vaccinazione è destinata a cessare come obbligo per i  sanitari  con la fine dell’anno corrente, salvi scongiurati imprevisti) ma il  problema macroeconomico, giuridico e civile della risorsa  giustizia rimane, come rimane in piedi la partita  a scacchi tra interesse legittimo e diritto soggettivo.

Posto che il problema riguarda gli atti vincolati e non,  ovviamente, gli  atti discrezionali (salvo che per la “discrezionalità tecnica” la Corte di legittimità sembra propendere ancora per il giudice ordinario), appare chiaro la diversità del “faro” ricercato rispettivamente da Corte di Cassazione e Consiglio di Stato per individuare il “porto” competente al giudizio:

a) Corte di Cassazione: le parole chiave  sono “discrezionalità” o “vincolatività” dell’atto  lesivo e impugnato. La giurisdizione amministrativa ricorre in caso di “impugnazione” di atti discrezionali sotto il profilo  valutativo (la  discrezionalità tecnica non  è  sufficiente) in  quanto è solo in tali casi, e cioè quando  la pubblica amministrazione “introduce” una propria “decisione” non predefinita o imposta  dal legislatore e che quindi si esercita e manifesta un “potere”; l’atto vincolato è voluto dal legislatore e  non dalla  pubblica  amministrazione e fronteggia diritti soggettivi, laddove l’atto discrezionale interloquisce  con interessi legittimi, rimanendo  sempre incentrata su tale diversa posizione giuridica il discrimine  tra le due giurisdizioni; potere è potere discrezionale; il  “potere” vincolato è una mera dichiarazione della volontà  del legislatore;

b) Consiglio di Stato: parola chiave è l’interesse pubblico perseguito in via diretta ed immediata dalla norma che prevede l’atto ritenuto lesivo e impugnato: se la norma persegue prima di tutto  l’interesse pubblico, la posizione del soggetto asseritamente leso è tutelata solo mediatamente, e quindi corrisponde ad un interesse legittimo. L’atto vincolato (ed è tale anche per il Consiglio di Stato, perfettamente d’accordo  con le Sezioni  Unite sul punto, anche la sospensione dei professionisti non vaccinati) tocca, dunque, anche interessi legittimi e non solo diritti soggettivi. Priva di fondamento è, per il Consiglio di Stato, invocando Corte Cost. n. 127/98, la tesi   che l’attività vincolata determina sempre la giurisdizione ordinaria in quanto interloquente solo con diritti soggettivi.

Il   tema delle “tecniche di accertamento” (secondo la brillante espressione usata da Cassazione civile sez. III, 27/07/2021, n. 21535, evocative del labirinto che ci si trova davanti e della quanto ormai più accentuata complessità, a fronte della vastità delle formulazioni normative) del diritto  soggettivo e rispettivamente interesse legittimo è notoriamente plurisecolare ma troppo raffinata ed elevata per l’irrilevante competenza pratica di un operatore come chi scrive.

Ci si permette, modestamente, solo  di sottolineare che:

a) La tesi “categorica”, “secca” della Corte di Cassazione, della rilevanza della natura discrezionale o vincolata dell’atto, sembra scontrarsi con le norme del codice del processo amministrativo che parlano di attività vincolata (v. art. 31, comma 3, cpa), il che richiederebbe una  spiegazione da parte della Suprema Corte,  circa la compatibilità dell’assunto con tali risultanze positive;

b) La soluzione operativa avallata  dal Consiglio di Stato (in linea con una consolidata tradizione),  per la quale occorre verificare se la norma che, in ossequio al principio costituzionale di legalità (art. 97 Cost.) prevede l’atto  posto in essere da un’amministrazione  pubblica “tuteli in via diretta l’interesse pubblico” apre scenari ampiamente … discrezionali ed  incerti, considerato che non risulta concepibile che una norma che preveda comunque un intervento di  una pubblica  amministrazione  non persegua in via diretta l’interesse pubblico e tenuto in ogni caso conto dell’inestricabile intreccio tra  i  due   profili (interesse collettivo e privato). Appare un po’ troppo fioca la “luce” rappresentata dall’oggetto della tutela della norma individuato  come “in via diretta l’interesse pubblico”, posto che l’attribuzione di  un compito (un atto da porre in essere in una fattispecie  concreta) ad una pubblica amministrazione è disposta  da una norma, per definizione, allo scopo del perseguimento da parte della stessa di un interesse pubblico e non  certo di un interesse privato, nel qual   caso il privato sarebbe investito direttamente dalla legge della possibilità di agire. Si consideri, al riguardo,  l’art. 9 della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, che stabilisce: “ Gli Stati membri possono subordinare l’accesso ad un’attività di servizio e il suo esercizio ad un regime di autorizzazione soltanto se sono soddisfatte le condizioni seguenti:
a) il regime di autorizzazione non è discriminatorio nei confronti del prestatore;
b) la necessità di un regime di autorizzazione è giustificata da un motivo imperativo di interesse generale;
c) l’obiettivo perseguito non può essere conseguito tramite una misura meno restrittiva, in particolare in quanto un controllo a posteriori interverrebbe troppo tardi per avere reale efficacia…”.

A sua volta, l’art. 12 del d.lgs. 59/10, attuativo della direttiva, dispone: “ Nei casi in cui sussistono motivi imperativi di interesse generale, l’accesso e l’esercizio di una attività di servizio possono, nel rispetto dei principi di proporzionalità e non discriminazione, essere subordinati al rispetto dei seguenti requisiti:
a) restrizioni quantitative o territoriali sotto forma, in particolare, di restrizioni fissate in funzione della popolazione o di una distanza geografica minima tra prestatori;
b) requisiti che impongono al prestatore di avere un determinato statuto giuridico;
c) obblighi relativi alla detenzione del capitale di una società;
d) requisiti diversi da quelli relativi alle questioni disciplinate dal decreto legislativo 9 novembre 2007, n. 206, o da quelli previsti in altre norme attuative di disposizioni comunitarie, che riservano l’accesso alle attività di servizi in questione a prestatori particolari a motivo della natura specifica dell’attività esercitata;
e) il divieto di disporre di più stabilimenti sul territorio nazionale;
f) requisiti che stabiliscono un numero minimo di dipendenti;
g) tariffe obbligatorie minime o massime che il prestatore deve rispettare;
h) l’obbligo per il prestatore di fornire, insieme al suo servizio, altri servizi specifici”.

Tutto sembra deporre  nel senso che ove  sia prevista un’autorizzazione  (che è  il provvedimento preclusivo dell’attività privata  normalmente vincolato, esiste comunque  un interesse  pubblico (per  giunta, correlato a motivi imperativi e non a motivi “ordinari”, secondo il lessico comunitario  recepito  dal  legislatore interno) che  giustifica  la previsione della subordinazione  dell’attività privata stessa al  predetto  provvedimento vincolato;  con conseguente  necessità di “aggiornare” la tesi  espressa dalla “dogmatica italiana” secondo cui “l’autorizzazione ha ad oggetto un’attività privata, non lesiva di pubblici interessi, ma neanche strumentale al soddisfacimento di un interesse pubblico, mentre la concessione ha per oggetto lo svolgimento di un’attività ontologicamente strumentale al perseguimento di un interesse della collettività, in quanto riservata ai pubblici poteri” (v. Caponigro,  Le concessioni demaniali nel rapporto con la Corte di Giustizia Europea”, nota n. 5, in giustizia-amministrativa).

Del resto, entrambi i Supremi  Giudici, individuano la finalità della norma sulla  sospensione  come afferenti ad interessi pubblici  (sanità pubblica, della collettività che interferisce con il sanitario) e interesse privato (salute del  sanitario)  e la priorità dell’uno o dell’altro non è di certo segnata in modo inequivoco dalla norma.

Non si può nemmeno pensare, a fronte dell’art. 103 Cost. , di invocare il  facile criterio del giudice amministrativo come giudice “della pubblica amministrazione”, rimanendo, il medesimo, giudice dei pubblici poteri (v. Corradino, Manuale di diritto amministrativo, pag. 5), con la  conseguente necessità di una definizione di potere, visto che le due posizioni espresse nelle sentenze in esame si differenziano anche su tale nozione, l’una (Cassazione) riconoscendolo solo in caso di potere discrezionale. Vero è che gli ambiti di incertezza, anche grazie alle numerose pronunce in materia per l’appunto di “regolamento di confini” tra i due ordini giurisdizionali dovrebbero indurre il legislatore ad  intervenire  con lo strumento legislativo, tempestivamente, evitando l’allargamento dei conflitti ed operando settorialmente, nel rispetto delle note pronunce costituzionali, anche se non si tratta necessariamente di individuare materie di giurisdizione esclusiva. In tempi di manovre legislative  complicate, instabili e costose messe in atto  soprattutto ai fini dell’utilizzo delle risorse del PNRR ma non solo, questi  interventi   sarebbero a costo zero e di  non irrilevante impatto positivo in termini  di fiducia tra cittadino  e  amministrazione.

Quantomeno in tema di sospensione dei professionisti, una norma eviterebbe un bel  po’ di lavoro  frustrante di vari sedi giudiziarie.

Sentenza Consiglio di Stato n. 8434/2022

Sentenza Corte di Cassazione n. 28429/2022

Franco Botteon

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