È noto che la parte soccombente in un processo deve rimborsare alla controparte le spese di giudizio, salva la compensazione totale o parziale (artt. 91 ss. c.p.c. e art. 26 c.p.a.), sulla base di quanto stabilisce il giudice nella sentenza.
Raramente, però, l’importo liquidato dal Giudice a favore del vincitore corrisponde all’onorario che l’avvocato vittorioso aveva concordato col proprio cliente (nel caso degli enti pubblici, l’importo fissato nell’impegno di spesa).
Nel caso in cui la liquidazione giudiziale sia inferiore alla parcella richiesta, la giurisprudenza pacifica afferma che il vincitore deve in ogni caso pagare l’importo che aveva concordato col proprio avvocato.
In merito, si legga ex multis la recentissima ord. Cass., Sez. VI, 17 ottobre 2018, n. 25992: “1.- Nella giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, sentenze 19/10/1992 n. 11448; 30/5/1991 n. 6101; 28/6/1989 n. 3158) è incontrastato il principio secondo cui la misura degli oneri dovuti dal cliente al proprio avvocato prescinde dalle statuizioni del giudice contenute nella sentenza che condanna la controparte alle spese ed agli onorari di causa e deve essere determinata in base a criteri diversi da quelli che regolano la liquidazione delle spese tra le parti (quali, tra gli altri, il risultato ed altri vantaggi anche non patrimoniali). La stessa esistenza di distinte previsioni normative per la determinazione dei compensi nei riguardi del cliente – ancorché vi sia stata la pronuncia sulle spese da parte del giudice che ha definito la relativa controversia – univocamente comprova che l’ammontare delle somme dallo stesso cliente dovute, può essere diverso rispetto a quello formante oggetto della suddetta pronuncia, per cui tra le due liquidazioni può esservi corrispondenza. Ciò è, d’altra parte, confermato dalle deliberazioni dei Consigli Nazionali Forensi in base alle quali – come risulta dalla tariffa approvata con il D.M. n.55 del 2014 (artt. 5 e 6) – nella liquidazione degli onorari a carico del cliente può aversi riguardo, tra l’altro, ai risultati del giudizio, ai vantaggi conseguiti anche non patrimoniali, nonché al valore effettivo della controversia quando esso risulti, manifestamente, diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile.
Le dette disposizioni integrano una norma di favore del professionista e, al riguardo, questa Corte ha avuto modo di precisare che la differenza in questione è legata al diverso fondamento dell’obbligo di pagamento degli onorari che, per il cliente, riposa nel contratto di prestazione d’opera e, per la parte soccombente, nel principio di causalità (sentenza 19/10/1992 n. 11448). Il cliente, quindi, è sempre obbligato a corrispondere gli onorari e i diritti all’avvocato ed al procuratore da lui nominati ed il relativo ammontare deve essere determinato dal giudice nei suoi specifici confronti a seguito di procedimento monitorio o dal procedimento previsto dalla L. n. 794 del 1942, artt. 28 e 29, senza essere vincolato alla pronuncia sulle spese da parte del giudice che ha definito la causa cui le stesse si riferiscono. D’altra parte, l’eventuale errore contenuto nella detta pronuncia (per il mancato rispetto dei minimi tariffari) non può di certo ricadere sul professionista se la parte non ha inteso impugnare il provvedimento sulle spese. Inoltre, proprio perché sono diversi i criteri dettati per la liquidazione degli onorari a carico del cliente ed a carico della controparte, sarebbe illogico pretendere l’indicazione, nella nota spese a carico del soccombente, delle maggiori somme che il professionista ha diritto a percepire soltanto dal cliente.
Senza dire, o, per maggior chiarezza e a conferma, va detto, che la sentenza che ha provveduto alla liquidazione delle spese giudiziali non ha efficacia (cioè, non è vincolante per l’), nei confronti, dell’avvocato per l’assorbente ragione che lo stesso non è parte del giudizio (Cfr. Cass.10383 del 2017, n. 518 del 2016), di cui si dice, né in quel giudizio, sia pure relativamente alla liquidazione delle spese, può dedurre specifiche considerazioni.
Pertanto, la misura degli onorari dovuti dal cliente al proprio avvocato prescinde dalla liquidazione contenuta nella sentenza, che condanna l’altra parte al pagamento delle spese e degli onorari di causa, per cui solo l’inequivoca rinuncia del legale al maggiore compenso può impedirgli di pretendere onorari maggiori e diversi da quelli liquidati in sentenza. Tale rinuncia non può essere desunta dalla mera accettazione della somma corrisposta dal cliente per spese, diritti ed onorari, nella misura liquidata in sentenza e posta a carico dell’altra parte, quando non risulti in concreto che la somma è stata accettata a saldo di ogni credito per tale titolo.
1.2.- Va qui osservato che tali principi vanno confermati anche dopo l’entrata in vigore della nuova legge professionale forense n. 247 del 2013 che ha determinato il passaggio dal sistema tariffario a quello dei parametri ed, essenzialmente, perché la nuova legge, diversamente da quanto sostenuto dal Tribunale con la sentenza impugnata, non ha modificato i principi appena indicati. In particolare, la nuova legge, non solo non ha superato (e non poteva superare) il principio generale relativo ai limiti soggettivi della sentenza secondo il quale l’avvocato non è parte del giudizio che ha determinato la liquidazione delle spese giudiziali, ma e, soprattutto, la nuova legge consente di confermare il principio relativo al diverso fondamento dell’obbligo di pagamento degli onorari che, per il cliente, riposa nel contratto di prestazione d’opera e, per la parte soccombente, nel principio di causalità. Infatti, il nuovo art. 13 della legge professionale forense stabilisce che se tra cliente ed avvocato il compenso non è stato stabilito per iscritto, il giudice liquida il compenso, facendo riferimento ai parametri allegati al D.M. n. 55 del 2014 cioè, tenuto conto delle caratteristiche dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza della natura, della difficoltà e del valore dell’affare delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti dal numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate, e non secondo il principio di causalità cui è uniformata la decisione relativa alla liquidazione delle spese giudiziali tra le parti che può prescindere dai criteri appena indicati”.
Il caso inverso, invece, non sembra mai stato affrontato dal tribunale (per essere chiari è il caso in cui il vincitore aveva concordato col proprio avvocato un compenso di 100 e la controparte venga condannata a pagare al vincitore un importo superiore a 100).
Vi sono due soluzioni possibili: la differenza tra la maggior liquidazione giudiziale e il minor onorario chiesto a suo tempo del patrocinante va pagata all’avvocato del vincitore oppure viene incamerata dall’ente vincitore.
La condanna alle spese superiore a quanto pattuito tra le parti deriva dal fatto che il giudice sulla liquidazione delle stesse non è vincolato dagli accordi tra le parti e può dipendere, per esempio, dal fatto che il giudice liquida le spese in base al D.M. 55/2014, mentre il preventivo era stato fatto in precedenza o senza guardare al decreto stesso; oppure può succedere che il giudice, tenendo anche conto del comportamento processuale della parte soccombente, consideri che la difesa sia stata impegnativa e che, quindi, il soccombente meriti una determinata condanna alle spese.
Se la condanna alle spese discende da parametri normativi oppure dall’impegno difensivo richiesto dalla causa, è logico arrivare alla conclusione che quanto il giudice ha ritenuto di liquidare per la difesa debba essere pagato al difensore che per tale difesa si è prodigato.
Una conferma a questa soluzione si può trarre dal ragionamento seguito dalla Corte di Cassazione in materia di patrocinio a spese dello Stato: il divieto di arricchimento senza causa – principio generale e residuale dell’ordinamento – osta a che la parte vittoriosa lucri ingiustamente sulla condanna alle spese legali della parte soccombente, percependo somme che il Giudice voleva destinare al difensore vittorioso.
A questo proposito, si veda ex multis l’ord. Cass., Sez. VI, 19 settembre 2017, n. 21611: “A tal fine deve richiamarsi, come appunto ricordato dal ricorrente, quanto affermato dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 270/2012, laddove al fine di escludere i dubbi di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 130 sollevati dalle ordinanze di rimessione, ha escluso che, ove sia pronunziata condanna alle spese di giudizio a carico della controparte del soggetto ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, vi sia una iniusta locupletatio dell’Erario, atteso che, anche recentemente, la giurisprudenza di legittimità aveva puntualizzato che la somma che, ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 133, va rifusa in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore del soggetto non abbiente (Corte di cassazione, Sez. 6 penale, 8 novembre 2011, n. 46537).
A tal riguardo deve altresì evidenziarsi che anche la giurisprudenza delle sezioni civili di questa Corte ha aderito a tale opinione, essendosi affermato che, qualora nell’ambito di un giudizio civile risulti vittoriosa la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, il giudice è tenuto a quantificare in misura uguale le somme dovute dal soccombente allo Stato, D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 133, e quelle dovute dallo Stato al difensore del non abbiente, ai sensi degli artt. 82 e 103 del medesimo decreto, al fine di evitare che l’eventuale divario possa costituire occasione di ingiusto profitto dello Stato a discapito del soccombente ovvero, al contrario, di danno erariale (Cass. n. 18167/2016)”.
La questione sembra in tal modo trovare un punto di assestamento che, data la delicatezza e l’importanza del tema per la professione forense, andrà opportunamente verificato alla luce di possibili sviluppi futuri.
Alberto Antico