La sentenza della Corte costituzionale n. 99/2019[1] ha demandato all’amministrazione sanitaria l’adozione dei modelli organizzativi e protocolli operativi per l’espiazione della pena detentiva dei condannati affetti da disturbo psichico incompatibile con la detenzione. In sede applicativa l’intervento ablativo del Giudice delle leggi sconta le difficoltà attuative proprie dei settori– quali l’organizzazione amministrativa e il consenso all’attività terapeutica – sottoposti a riserva di legge.

La vicenda è nota e, considerato l’ascendente prettamente penalistico, non merita di essere in questa sede integralmente ripercorsa. Ai fini del presente spot basti ricordare che, con un intervento additivo sull’art. 47-ter, comma 1 ter, della legge n. 354/1975, la Corte costituzionale ha esteso l’applicabilità degli arresti domiciliari in deroga per motivi di salute anche al detenuto affetto da infermità psichica incompatibile con lo stato di detenzione carceraria. Nella scelta di manipolare l’art. 47-ter e non il disposto degli art. 146 e 147 c.p. svolge un ruolo dirimente il “fondamentale rilievo” che “che la detenzione domiciliare possa svolgersi, oltre che «nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora», anche in «luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza», come prevede l’art. 284 cod. proc. pen. e come ribadisce anche il comma 1 del medesimo art. 47-ter ordin. penit.” (C. Cost. sent. 99/2019, sub 5.1), contemperando il diritto alla cura con l’interesse all’espiazione della pena e la “salvaguardia della sicurezza della collettività” (C. Cost. sent. 99/2019, sub 5.3).

Anche a voler prescindere dalla necessità di riconfigurare i contingenti massimi di aggregazione dei pazienti e la stretta temporaneità dei ricoveri, rimane indefinita la rilevanza del piano di trattamento prescritto dalla disciplina amministrativa in sede di applicazione del beneficio penitenziario. Dispone l’accordo approvato dalla Conferenza Unificata n. 116 del 17 ottobre 2013 (“Le strutture residenziali psichiatriche”)[2] che l’ammissione del paziente presso i presidi sanitari residenziali o semiresidenziali attivati dal dipartimento di salute mentale avvenga esclusivamente previa stipulazione con il paziente di un Piano di Trattamento Individuale, successivamente declinato in sede attuativa dalla singola struttura di presa in carico nel un Progetto terapeutico riabilitativo personalizzato. Siffatti strumenti di pianificazione condivisa delle cure – conformemente allo spirito della legge n. 219/2017 – hanno natura prettamente negoziale, legittimando l’attività terapeutica nei limiti di quanto espressamente formalizzato dalle parti[3].

L’allocazione del paziente presso un servizio territoriale preposto all’erogazione dei L.E.A., secondo le modalità ed i contenuti previsti dalla pianificazione sanitaria, non può infatti prescindere dalla disciplina settoriale che definisce la mission, i presupposti d’accesso e permanenza presso ciascuna struttura residenziale o semi-residenziale, in conformità al principio di tipicità del servizio pubblico. Non spetta al Tribunale penale definire il contenuto delle prestazioni erogate dal servizio pubblico, quand’anche ciò fosse giustificato da valide ragioni di opportunità: l’esistenza di moduli organizzativi dipendenti dal dipartimento di salute mentale non significa che l’autorità giudiziaria possa discrezionalmente intervenire per implementarne le Carte dei servizi o efficientare le modalità d’accesso. D’altronde, la valutazione del giudice dell’esecuzione investe tanto un giudizio di compatibilità della patologia con il regime carcerario (da condursi in relazione all’efficacia delle terapie condotta in regime detentivo e alla rilevanza della detenzione nell’eziopatogenesi del disturbo), quanto un giudizio di concreta adeguatezza dell’alternativa extracarceraria a soddisfare le finalità prescritte dalla Corte costituzionale.  Ne consegue che, indipendentemente dalla materiale disponibilità di un posto letto presso la struttura sanitaria, il Tribunale di sorveglianza può disporre l’esecuzione della pena presso una struttura sanitaria pubblica solo in conformità alla disciplina settoriale che predetermina finalità istituzionale dell’ente e codifica i prerequisiti d’accesso alle prestazioni.

La permanenza di lungo e medio termine presso una comunità residenziale è consentita dalla pianificazione sanitaria vigente nei limiti della necessità di attuare il Piano di trattamento individuale ed il Progetto terapeutico riabilitativo personalizzato. Ai sensi dell’art. 33 della legge n. 833/1978 – come peraltro espressamente rimarcato dal Piano Nazionale di azioni per la salute mentale – l’adesione al protocollo di cura personalizzato costituisce atto personale e volontario del paziente, insuscettibile di imposizione coattiva. La riserva di legge di cui all’art. 32 impedisce di strumentalizzare la minaccia di ripristino della misura carceraria per estorcere il consenso in ordine all’adesione del piano di cura, considerato che il presupposto della carcerazione è l’intrinseca ed ineliminabile incompatibilità tra detenzione e sintomatologia psicopatologica.

Ne consegue che, in mancanza di espressa previsione legislativa, il tribunale di sorveglianza non ha il potere di recepire il piano individuale di trattamento tra le prescrizioni ex art. 284 c.p.p., non essendo fungibile il ripristino della punizione “inumana” in quanto incompatibile con la sintomatologia psicopatologica. Analogamente, l’esistenza di una disciplina che subordina l’accoglienza del malato presso la struttura residenziale psichiatrica alla consensuale formalizzazione di un piano individualizzato di trattamento osta alla possibilità che il detenuto possa essere semplicemente allocato ad libitum presso la competente unità sanitaria se non per l’esecuzione delle determinazioni terapeutiche dallo stesso negoziate con il centro di salute mentale. Non spetta infatti all’azienda il compito offrire soluzioni abitative slegate da una prospettiva terapeutica, a soli scopi di “polizia medica” o monitoraggio dell’evasione ai sensi del combinato disposto dell’art. 47-ter, comma 8, della legge n. 354/1975 e dell’art. 361 c.p.

Resta quindi in un limbo d’incertezza il trattamento da riservare al reo affetto da infermità psichica sopravvenuta incompatibile con la detenzione che tuttavia non sottoscriva il piano di trattamento individualizzato o ritenga di sottrarvisi nel corso dell’esecuzione.

Francesco Dalla Balla

 

Corte cost. sentenza_99_2019

*Estratto dal più ampio commento in Giurisprudenza costituzionale, n. 2/2019, pag. 1130.

 

[1] Corte cost., sentenza 20 febbraio/19 aprile 2019, n. 99, in Giurisprudenza costituzionale, n. 2/2019, pag. 1088, con note M. RUOTOLO, Quando l’inerzia del legislatore rende indifferibile l’intervento della Corte costituzionale. A proposito dell’applicazione della detenzione domiciliare per il “reo folle”, p. 1103; F. SURACUSANO, Il “reo folle” davanti al Giudice delle leggi: la Corte costituzionale supplisce all’ostinata inerzia del legislatore, p. 1111; D. PICCIONE, Il silenzioso epitaffio per l’art. 148 c.p.: l’inizio della fine per la differenza di trattamento tra grave infermità fisica e psichica, p. 1121; F. DALLA BALLA, Squilibri trattamentali, verso l’uso della nosografia psichiatrica per la relativizzazione in senso soggettivo dell’afflizione penale?, p. 1130.

[2] Pubblicato in www.salute.gov.it.

[3] Cfr. Conferenza unificata, Piano nazionale di azioni per la salute mentale, delibera n. 4 del 24 gennaio 2013, pag.8 (in www.salute.gov.it).

 

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