Hanno suscitato un certo rumore i problemi, che avevo avanzato in via dubitativa nel mio intervento in commento al d.l. n. 28/2020, circa la data di cessazione del periodo di sospensione dei termini processuali.

In quello scritto avevo rilevato che la data di cessazione, secondo il d.l. n. 18/2020, era fissata al 15 aprile.

Il successivo d.l. “intermedio”, n. 23/2020, aveva poi “spostato” la data al 3 maggio, ma solo per il termine di notificazione del ricorso.

Tuttavia, la legge n. 28/2020 (convertendo senza sostanziali modificazioni sul punto il primo decreto-legge – cioè il d.l. n. 18/2020) si poteva intendere come norma sopravvenuta, rispetto allo stesso d.l. n. 23/2020. 

E poiché la legge di conversione aveva convertito un testo in cui il termine era fissato al 15 aprile (e non al 3 maggio), si poteva intendere che il decreto-legge intermedio, n. 23, risultasse abrogato per incompatibilità, con la conseguenza che il termine di scadenza fosse da individuarsi alla data del 15 aprile stesso.

A tale ipotesi sono state avanzate alcune obiezioni, che tuttavia non mi hanno pienamente persuaso.

In particolar modo, non mi sembra convincente sostenere che la legge di conversione non avrebbe natura novativa, rispetto al decreto-legge convertito, sì da non porsi come fonte autonoma e sopravvenuta (e dotata, perciò, di efficacia abrogativa di eventuali norme anteatte che siano confliggenti, qualunque sia la loro fonte).

Benché non manchino moderni tentennamenti (Sorrentino), la dottrina costituzionalistica “classica” sembra, in effetti, schierata a favore del carattere novativo della legge di conversione. Ciò è avanzato da Esposito, da Mortati, da Crisafulli, da Paladin, da Modugno (solo per citarne alcuni), al punto tale lo stesso Paladin ebbe a sostenere che il decreto-legge sarebbe fonte comunque destinata a scadere, vuoi a causa della mancata conversione, vuoi perché, una volta convertito, esso sarebbe sostituito dalla legge di conversione.

Se così fosse, varrebbe poco sostenere che la legge n. 28/2020 avrebbe inteso convertire solo il d.l. n. 18/2020. 

Certamente è così: l’effetto diretto della legge è quello di convertire solo il d.l. n. 18. 

Ma questo non significa che la medesima legge possa dispiegare tutti gli effetti tipici di una legge, appunto. Ivi compresi gli effetti abrogativi di una precedente disposizione, avente pari forza e valore, quale sarebbe, l’art. 36 del d.l. n. 23/2020, che possa rivelare un contenuto incompatibile.

Analogamente, a me pare che valga poco eccepire che il giorno in cui la legge di conversione è stata approvata dalla prima Camera (vale a dire dal Senato) sia coinciso con il giorno in cui è stato emanato il d.l. n. 23/2020, sì da impedire al Parlamento (ignaro della decretazione d’urgenza che stava per essere approntata a Palazzo Chigi) la possibilità di intervenire su un testo normativo per altri aspetti estesissimo e su cui l’Esecutivo aveva posto la fiducia.

Il rilievo, infatti, atterrebbe ad un dato di fatto. Certo, sarebbe questo un dato di fatto utilissimo, ma di per sé incapace di scalfire le regole formali sulla successione delle norme del tempo.

E, allora, c’è una possibilità di fuggire da questo impasse che, giustamente, è stato da taluni ritenuto una follia? 

Una follia, beninteso, del normatore e non dell’interprete il quale si è limitato a constatarne l’esistenza e il quale sarebbe stato folle se, invece, non l’avesse fatto.

Una prima strada potrebbe essere tentata osservando che il d.l. n. 23/2020 è norma speciale, riferita al solo termine di notificazione dei ricorsi. Ma è strada che, a mio parere, si rivelerebbe anch’essa fragile.

Si potrebbe, in altre parole, sostenere che l’art. 36 del d.l. n. 23/2020 è norma speciale, come tale non derogata dalla legge di conversione n. 28/2020.

A questo punto, però, sarebbe facile obiettare che la legge di conversione, riferendosi a tutti i termini processuali, regolerebbe l’intera materia, così da prevalere anche sulle leggi speciali anteriori.

Tuttavia, un argomento per escludere il venire meno del termine del 3 marzo forse c’è e mi accingo ad esporlo io stesso, che pure ho sollevato per primo il problema.

Suggerisco, perciò che la strada da seguire sia quella di sostenere che l’art. 36, nella parte in cui esso ha stabilito che “nei giudizi disciplinati dal codice del processo amministrativo sono ulteriormente sospesi, dal 16 aprile al 3 maggio 2020 inclusi, esclusivamente i termini per la notificazione dei ricorsi”, non abbia, in realtà, riformato il termine del 15 aprile indicato dal previgente art. 84, d.l. n. 18/2020.

Ipotizzo, invece, che si possa sostenere che il medesimo art. 36, in luogo di prorogare il precedente periodo di sospensione processuale, abbia, invece, inteso giustapporre, ad un primo periodo di sospensione processuale (quello indicato dall’art. 84, cit., ed effettivamente conclusosi il 15 aprile), un secondo e concettualmente distinto periodo di sospensione, sia pure avviatosi senza soluzione di continuità rispetto al primo.

Se così fosse, se cioè noi sostenessimo che l’art. 36 non avrebbe modificato il termine finale dell’art. 84, ma avrebbe aggiunto ad un altro un nuovo e separato periodo di sospensione processuale, allora ben potremmo concludere dicendo che la legge di conversione n. 28/2020 non ha abrogato l’art. 36.

Essa, infatti, avrebbe convertito e fatto salvo il primo periodo di sospensione feriale (quello stabilito dall’art. 84 e cessato il giorno 15 aprile) e solo quello, senza regolare il secondo periodo di sospensione feriale (iniziato il 16 aprile e destinato a concludersi il 3 maggio), proprio perché esterno alla disciplina contenuta nell’art. 84. 

Con il che, troverebbe, forse, una più ampia possibilità di essere sostenuta quella tesi secondo la quale la legge di conversione avrebbe inciso solo sul decreto-legge convertito e non avrebbe inciso, neppure indirettamente, sul decreto legge n. 23.

Il tutto a prescindere dagli ulteriori problemi – che qui non ritengo necessario approfondire – che potrebbero trovare spunto dall’art. 103, d.l. n. 18, dove pure si parla di termini legati al compimento dell’attività giurisdizionale, riferendosi però ad un periodo di sospensione che dovrebbe essere diretto, piuttosto, a regolare i termini del procedimento (e non del processo) amministrativo.

Spero con ciò di avere dato un contributo alla soluzione di un problema che era emerso e del quale, ritengo non si potesse tenere conto, dal momento che nasconderne l’esistenza non solo non mi pare procedimento speculativo corretto, ma potrebbe risultare anche fonte di future, non gradite, sorprese in sede di applicazione, se non si fosse in grado di prevenirle e, se del caso, inertizzarle.

Francesco Volpe

 

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