1. I patrimoni collettivi[1] dell’arco alpino comprendono vasti terreni destinati a prati e a pascolo che le collettività locali hanno per secoli gestito, secondo le loro antiche consuetudini, nell’interesse di tutti gli aventi diritto.

Storicamente l’economia dei villaggi alpini, oltre che sul commercio del legname, era basata, in principal modo, sull’allevamento del bestiame che produceva carne e formaggi destinati, per la maggior parte, all’autoconsumo personale. Il sistema zootecnico si fondava su norme tramandate di generazione in generazione in forza delle quali le esigenze dei singoli venivano contemperate con quelle della comunità insediata nei vari villaggi. Ogni famiglia era proprietaria di uno o più capi di bestiame che inviava sul terreno collettivo d’alta montagna (il c.d. alpeggio), insieme agli animali delle altre famiglie proprietarie, sotto la guida di un pastore pagato dalla collettività stessa. Le consuetudini locali, consolidate nei vecchi statuti, laudi o carte di Regola, disciplinavano il godimento comune dei pascoli consentendo a ciascuna famiglia di soddisfare le proprie necessità alimentari rispettando, nel contempo, anche le esigenze delle altre famiglie. I terreni collettivi vicini al fondovalle (i c.d. segativi), venivano invece assegnati a rotazione ai vari fuochi famiglia. Ogni nucleo famigliare vi provvedeva allo sfalcio, ricavando il fieno necessario per il proprio bestiame nel periodo in cui esso non veniva portato all’alpeggio.

Nell’attuale contesto storico-economico-sociale il godimento diretto dei patrimoni antichi da parte di tutta la collettività ha ceduto il passo a forme di godimento indiretto. Le aziende agricole direttamente gestite dalla comunità sono ormai poche e, a differenza di un tempo, le famiglie hanno rinunciato ad allevare un proprio bestiame da carne o da latte.

Orbene, qualora il pascolo e i terreni segativi non siano più utilizzati dagli aventi diritto secondo le antiche consuetudini, il soggetto gestore dei beni collettivi [ovvero, la stessa comunità entificata, oppure il Comune (o Frazione comunale) quale soggetto esponenziale della comunità proprietaria del terreno collettivo] avrà, quindi, la facoltà di affidarne il godimento e la gestione a terzi. La particolare natura del dominio collettivo, tuttavia, richiede il rispetto di alcune cautele nella concessione delle terre comuni così da non pregiudicare i diritti dei singoli titolari del dominio collettivo, nonché impone di effettuare una verifica sull’applicabilità, alla concessione, della disciplina cogente in materia di affitto di fondo rustico.

A questo punto è necessario ricordare che le proprietà collettive – ora denominate “domini collettivi” in forza della legge 168/2017 – possono essere “chiuse” o “aperte”: sono chiuse quelle di spettanza dei soli discendenti, ex sanguine, degli antichi membri delle famiglie originarie [e per comodità le chiamiamo “terre collettive”, la cui titolarità spetta sulla base del vincolo agnatizio e dell’incolato], mentre sono aperte quelle spettanti a tutti gli abitanti del Comune (o della Frazione comunale) con-titolari del terreno in questione sulla base del solo incolato (e per comodità le diciamo “terre civiche”).

2. La concessione del godimento dei beni collettivi a terzi non facenti parte dei titolari dei domini collettivi è possibile solo a determinate condizioni.

E’ necessario, innanzitutto, che nessun titolare dei domini collettivi sia interessato ad un utilizzo diretto dei beni. Ad ogni proprietario dei beni collettivi spetta, infatti, il tradizionale diritto di pascolo e di segativo che potrà esercitare per il soddisfacimento dei bisogni propri e di quelli della propria famiglia. Ed è proprio per questo motivo che il  soggetto gestore dei domini collettivi dovrà garantirne principalmente il godimento da parte dei membri della collettività proprietaria, riconoscendo a ciascuno di essi una posizione giuridica qualificata nel godimento dei beni stessi. Ciascuno di essi, infatti, mantiene il diritto di utilizzare i beni nei limiti di quanto stabilito dalla tradizione che, generalmente, è limitato al soddisfacimento dell’autoconsumo della famiglia. Qualora, tuttavia, il godimento da parte del con-titolare dei beni collettivi vada oltre i bisogni personali suoi e della propria famiglia e venga esercitata sui beni del patrimonio antico comune, si ha un’attività economica in forma di impresa che impone di contemperare l’interesse del singolo con l’interesse della collettività. In tal caso, il singolo, infatti, farà proprie anche le risorse che sarebbero spettate agli altri membri della comunità dei proprietari, per cui il resto della collettività dovrà ricevere una sorta di indennizzo in ragione del maggior godimento dei pascoli collettivi concesso ad uno solo dei com-proprietari. Sicché, in linea generale, si deve ritenere che, nell’eventualità in cui il pascolo non sia utilizzato collettivamente da tutti gli aventi diritto, ciascun con-titolare dei diritti collettivi è legittimato a richiedere al soggetto gestore del dominio collettivo la concessione del godimento esclusivo del bene stesso, indennizzando la collettività proprietaria per il proprio maggior godimento.

Ed infatti l’art. 10 della L.R. del Veneto n. 31 del 22.07.1994, stabilisce che le terre civiche convenientemente utilizzabili come pascolo permanente, qualora non siano gestite direttamente dal Comune (o dalla Frazione comunale o dall’Amministrazione Separata dei Beni Civici-ASBUC[2]), siano concesse “a favore di coltivatori diretti, imprenditori agricoli e imprenditori agricoli professionali, con priorità a quelli residenti nel comune intestatario delle terre stesse” (art. 10, co. I, l. “b” L. R.): cioè – trattandosi nella specie di terre civiche spettanti a tutti gli abitanti del Comune o della Frazione in forza del (solo) diritto di incolato – la priorità è riconosciuta ai con-titolari delle terre civiche.

Va chiarito fin da subito che il rapporto tra il soggetto esponenziale della collettività proprietaria e il singolo residente non può rientrare nell’ambito dei contratti di affitto che – come noto – fanno sorgere in capo al conduttore il diritto alla detenzione del bene. La detenzione, infatti, è il potere di mero fatto esercitato su una cosa da un soggetto (il detentore) che non compie sul bene un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale. Nel caso di specie, infatti, il diritto di godimento sull’intero compendio è riconosciuto a chi è già com-proprietario del bene, per cui il concessionario del dominio collettivo mantiene il possesso sul compendio temporaneamente assegnatogli e vi esercita l’attività agricola in forza di un rapporto contrattuale instaurato con l’organo che rappresenta la collettività al quale spettano i poteri di gestione sul dominio collettivo. Tale contratto disciplina le modalità di esercizio dell’assegnatario dei fondi, le quali non sono date dalle norme cogenti previste per la diversa fattispecie dell’affitto di fondo rustico disciplinato dalla L. n. 203 del 1983. Tramite il contratto di affitto il concessionario, privo di alcun titolo che lo legittimi nel godimento sul bene, ottiene – come si è detto – la detenzione del terreno altrui, intesa come mero potere di fatto sulla cosa. Il concessionario del dominio collettivo, in quanto com-proprietario, invece, esercita sul terreno già un potere di fatto corrispondente al diritto di proprietà.

Alla luce delle considerazioni appena svolte, per evitare contestazioni e liti, si ritiene opportuno che ciascun soggetto gestore di domini collettivi provveda a dotarsi di un proprio regolamento che preveda le modalità attraverso le quali si può pervenire all’assegnazione temporanea dei terreni collettivi a singoli con-titolari del patrimonio collettivo e per la quale assegnazione, non essendo applicabili le norme di cui alla l. n. 203 del 1982, non varrà la disposizione sulla durata del rapporto di affitto, durata che, quindi, potrà essere liberamente determinata nel rispetto solo delle antiche consuetudini.

3. A questo punto ritorna utile quanto si è detto relativamente alle “terre civiche” e alle “terre collettive”.

Infatti, se tanto per le terre civiche quanto per le terre collettive temporaneamente non utilizzate dalla comunità titolare del dominio se ne potrà ipotizzare una destinazione temporanea, con atto di concessione finalizzato al godimento di un singolo individuo (cfr. Cass. Civ., sez. II, 12.5.1999, n. 4694; Cass. Civ., sez. III, 5.5.1993, n. 5187), vi è una particolare differenza a seconda che il dominio sia gestito dalla stessa comunità costituita in ente [è l’ipotesi delle “terre collettive”], oppure dal Comune o dall’ASBUC quale soggetto esponenziale della comunità con i poteri di gestione delle “terre civiche”.

In effetti, il Tar Veneto (T.A.R. Veneto 10 marzo – 16 maggio 2021, n. 837) ha affermato che, nell’eventualità che una terra civica sia inutilizzata collettivamente, il soggetto gestore delle terre civiche deve attivare un contraddittorio tra i residenti del territorio di riferimento (cioè tra gli effettivi titolari del dominio), per valutare le diverse modalità di utilizzo dello stesso (in forma collettiva o in forma individuale) e le forme di affidamento quanto alla durata della concessione e ai requisiti di partecipazione.

Quale principio generale occorre, quindi, far riferimento alla necessità per il soggetto gestore di verificare, all’interno della stessa collettività proprietaria della terra civica, quali siano i criteri per l’utilizzo dei relativi beni pascolivi o falciativi. La presenza di un regolamento che disciplini preventivamente tali aspetti renderà più agevole procedere alla scelta dell’eventuale concessionario, stabilendo i criteri di valutazione delle distinte proposte e quelli di previsione di eventuali forme di prelazione a parità di condizioni, volti a valorizzare gli interessi dei residenti dei beni secondo quanto richiesto dal T.A.R. Veneto, 10 marzo – 16 maggio 2021, n. 837).

Invece, in merito alla concessione a singoli terzi del godimento delle terre civiche, il Consiglio di Stato ha, innanzitutto, affermato che “quando il mutamento di destinazione ‘in deroga’ delle terre sottoposte ad uso civico si risolve in un’attribuzione a terzi di diritti spettanti alla collettività, l’iter per il rilascio della relativa autorizzazione deve quindi essere necessariamente ricondotto all’ambito proprio dei procedimenti di concessione dei beni demaniali, in quanto ha l’identico effetto di privare i componenti della collettività (che ne sono i veri titolari) del beneficio, per trasferirlo a soggetti privati che richiedono l’utilizzazione imprenditoriale del terreno a fini di lucro personale per un consistente lasso di tempo”. Quindi e in secondo luogo, il Consiglio di Stato ha precisato: “se i diritti appartengono alla collettività e questi sono solo amministrati dal Comune sotto il controllo della Regione, è evidente che le relative dinamiche procedimentali di gestione non solo debbano corrispondere al predetto assetto istituzionale, ma soprattutto debbano comunque avvenire nel rispetto dei cardini della pubblicità, imparzialità, trasparenza e non discriminazione in quanto, analogamente alle concessioni di beni demaniali, anche qui il procedimento finisce per costituire un utilizzo privato di beni della collettività che, nel favorire le possibilità di lucro di un determinato imprenditore in danno degli altri, altera le naturali dinamiche del mercato (arg. ex Corte Conti 13 maggio 2005 n. 5)” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 26 marzo 2013, n. 1698). Così statuendo, si potrebbe ritenere che il dictum giurisprudenziale si applichi all’eventualità in cui i terreni di dominio della comunità siano amministrati dal Comune, ovverosia siano “terre civiche”[3].

Nell’eventualità, invece, che le terre siano “terre collettive” e perciò gestite dagli stessi titolari del dominio stesso, attraverso il loro ente esponenziale, occorrerà tener conto della piena autonomia statutaria riconosciuta ai predetti enti gestori dalla l. n. 168 del 2017, così come della piena capacità di autonormazione prevista per le ASUC nell’eventualità in cui esse amministrino “terre civiche”. L’art. 1, comma 1, prevede, infatti, espressamente che “In attuazione degli articoli 2, 9, 42, secondo comma, e 43 della Costituzione, la Repubblica riconosce i domini collettivi, comunque denominati, come ordinamento giuridico primario delle comunità originarie”, mentre il comma 1 lett. b precisa che detto ordinamento giuridico è “dotato di capacità di autonormazione, sia per l’amministrazione soggettiva e oggettiva, sia per l’amministrazione vincolata e discrezionale”, concludendo al comma 2 che “Gli enti esponenziali delle collettività titolari dei  diritti di uso  civico  e  della  proprietà  collettiva  hanno  personalità giuridica di diritto privato ed autonomia statutaria”.

In conclusione, in quanto ordinamenti giuridici dotati di autonormazione, le stesse comunità costituite in ente gestore del dominio collettivo o rappresentate dall’ASUC, potranno autonomamente predeterminare le norme attraverso le quali procedere all’assegnazione a singoli terzi dei propri prati e dei propri pascoli, a differenza del Comune che, in qualità di amministratore di terreni in proprietà altrui [altrui, perché la proprietà è della comunità], sarà tenuto ad osservare i principi indicati nel citato orientamento giurisprudenziale.

Tornando all’ipotesi della concessione a singoli terzi del godimento delle terre civiche, è utile evidenziare che la Corte di Conti, Sezione giurisdizionale per il Trentino Alto Adige, sede di Trento, ha statuito come la tesi della necessaria massimizzazione del profitto economico ricavabile dalla concessione dei terreni collettivi mediante la loro assegnazione al miglior offerente, debba tenere conto della “insopprimibile vocazione paesaggistica e ambientale” dei domini collettivi, sicché non deve ritenersi irragionevole o illegittima la scelta dell’ASBUC di assegnare in concessione i terreni pascoli mendiate trattativa privata previo confronto concorrenziale per offerte segrete[4]. Tale statuizione conferma che non è necessario procedere all’assegnazione dei beni collettivi tramite asta pubblica.

4. Si è già accennato al problema se il rapporto che si instaura tra il soggetto gestore delle proprietà collettive e i singoli terzi concessionari possa o meno essere ricondotto all’interno del contratto di affitto di fondo rustico disciplinato dalla L. 3 maggio 1982, n. 203. E’ opportuno ritornare sull’argomento.

Attraverso la normativa sul contratto di affitto di fondi rustici il legislatore ha imposto all’autonomia contrattuale una disciplina vincolistica superabile solo attraverso il meccanismo dell’accordo “in deroga” con l’assistenza delle associazioni di categoria maggiormente rappresentative, le quali devono offrire ai contraenti un’effettiva assistenza durante la fase di contrattazione.

Orbene, alla luce della particolare destinazione riservata ai domini collettivi, la giurisprudenza ha da sempre dimostrato la necessità di valorizzare la dimensione collettiva del godimento delle terre spettanti alle comunità, ritenendo lo stesso prevalente rispetto alla normativa agraria in materia di affitto di fondo rustico. Ritenuto quindi possibile concedere un terreno collettivo a terzi soggetti  individuali che, proprio perché “terzi”, non sono con-titolari del dominio collettivo, devesi affermare che siffatta situazione contrattuale non può e non deve portare ad una compressione o una diminuzione del ruolo proprio del bene. Non bisogna, infatti, dimenticare che la titolarità delle “terre civiche” spetta alla comunità dei residenti abitanti del territorio, intesa come collettività indifferenziata, insediata su un territorio e unita da un vincolo organizzativo, i cui diritti non possono risultare compromessi dagli interessi di soggetti terzi che si siano trovati a godere dei detti beni a seguito delle scelte del soggetto gestore (appunto gestore, non proprietario) degli stessi.

Per esprimersi nei termini di una recente sentenza della Suprema Corte, si ha la considerazione che “la possibilità di consentire in favore dei privati, con atto di concessione o con contratto di affitto, il godimento individuale di un terreno demaniale di uso civico, temporaneamente non utilizzato dalla comunità, può avere solo carattere precario e temporaneo. Ne consegue che il rapporto resta sottratto alle norme speciali in materia agraria relative alla durata poiché altrimenti resterebbe preclusa alla P.A. la possibilità di condizionarne la continuazione e la rinnovazione alla compatibilità, in concreto, con la destinazione ad uso civico del terreno” (Cass. civ. Sez. III Ord., 12/06/2020, n. 11276, ma in termini identici anche Cass. civ. Sez. III Ord., 10/10/2017, n. 23648 Cass. civ. Sez. II, 12/05/1999, n. 4694 Cass. civ. Sez. III, 05/05/1993, n. 5187 Cass. civ. Sez. Unite, 10/03/1995, n. 2806 e altri). Pertanto, è consentito trasferire il godimento di terre in dominio collettivo non usufruite dalla comunità attraverso un atto di concessione a terzi, ma ciò a condizione che sussista la temporaneità della destinazione e non si determini un’alterazione della qualità originaria dei beni (così T.A.R. Abruzzo L’Aquila, 05/11/2003, n. 913).

Va, però, notato che la Cassazione si è espressa limitatamente alla durata del contratto e non alle altre norme della l. 203/1982. Per cui, e in ogni caso, è da tenere presente quanto disposto dall’art. 6 del decreto legislativo n. 228/2001, intitolato Utilizzazione agricola dei terreni demaniali e patrimoniali indisponibili, secondo cui: “1. Le disposizioni recate dalla legge 12 giugno 1962, n. 567, e successive modificazioni, dalla legge 11 febbraio 1971, n. 11, e successive modificazioni, dalla legge 3 maggio 1982, n. 203, e successive modificazioni, si applicano anche ai terreni demaniali o soggetti al regime dei beni demaniali di qualsiasi natura o del patrimonio indisponibile appartenenti ad enti pubblici, territoriali o non territoriali, ivi compresi i terreni golenali, che siano oggetto di affitto o di concessione amministrativa. // 2. L’ente proprietario può recedere in tutto o in parte dalla concessione o dal contratto di affitto mediante preavviso non inferiore a sei mesi e pagamento di una indennità per le coltivazioni in corso che vadano perdute nell’ipotesi che il terreno demaniale o equiparato o facente parte del patrimonio indisponibile debba essere improcrastinabilmente destinato al fine per il quale la demanialità o l’indisponibilità è posta. // 3. Sui terreni di cui al comma 1 del presente articolo sono ammessi soltanto i miglioramenti, le addizioni e le trasformazioni concordati tra le parti o quelli eseguiti a seguito del procedimento di cui all’articolo 16 della legge 3 maggio 1982, n. 203. In quest’ultimo caso l’autorità competente non può emettere parere favorevole se i miglioramenti, le addizioni e le trasformazioni mantengono la loro utilità anche dopo la restituzione del terreno alla sua destinazione istituzionale. // 4. Gli enti di cui al comma 1 del presente articolo, alla scadenza della concessione amministrativa o del contratto di affitto, per la concessione e la locazione dei terreni di loro proprietà devono adottare procedure di licitazione privata o trattativa privata. A tal fine possono avvalersi della disposizione di cui all’articolo 23, terzo comma, della legge 11 febbraio 1971, n. 11, come sostituito dal primo comma dell’articolo 45 della legge 3 maggio 1982, n. 203. // 4-bis. Qualora alla scadenza di cui al comma 4 abbiano manifestato interesse all’affitto o alla concessione amministrativa giovani imprenditori agricoli, di età compresa tra i 18 e i 40 anni, l’assegnazione dei terreni avviene al canone base indicato nell’avviso pubblico o nel bando di gara. In caso di pluralità di richieste da parte dei predetti soggetti, fermo restando il canone base, si procede mediante sorteggio tra gli stessi”.

Sebbene la norma si riferisca a terreni di proprietà di enti territoriali, mentre i domini collettivi nella ipotesi delle terre civiche non appartengono al Comune bensì alla comunità, la giurisprudenza (cfr.  T.A.R. Veneto Venezia, Sez. I, Sent., (data ud. 12/01/2022) 08/02/2022, n. 241) ha ritenuto applicabile tale normativa anche ai domini collettivi, sicché per l’orientamento giurisprudenziale prevalente i rapporti contrattuali di concessione aventi ad oggetto terreni in proprietà collettiva devono essere ricondotti all’interno della fattispecie contrattuale dell’affitto di fondo rustico, così come regolata dalla L. n. 203/1982.

Tuttavia, se sono riconducibili all’affitto tutti i rapporti in cui il proprietario concede in godimento a terzi il proprio fondo in cambio di un corrispettivo in quanto disciplina inderogabile ai sensi dell’art. 58 della l. n. 203/1982, e se si deve ritenere plausibile concludere per l’applicabilità della predetta legge anche in caso di concessione a terzi dei domini collettivi, occorre rammentare l’insegnamento giurisprudenziale per il quale vi è la necessità di contemperare – caso per caso – la detta normativa vincolistica con il particolare regime dei beni in proprietà collettiva.

La giurisprudenza si è, così, pronunciata già su altri aspetti riferibili alla compatibilità tra le norme vincolanti dell’affitto di fondo rustico e il regime dei domini collettivi. Ad esempio nel caso del c.d. diritto di prelazione a favore dell’affittuario uscente, quando il contratto di affitto venga rinnovato con un terzo. L’art. 4 bis della l. 203/1982, introdotto dal d.lgs. 18 maggio 2001, n. 228 ed applicabile in caso di conduttore coltivatore diretto sia di conduttore non coltivatore diretto[5], prevede, infatti, che: 1. Il locatore che, alla scadenza prevista dall’articolo 1 […] o alla diversa scadenza pattuita tra le parti, intende concedere in affitto il fondo a terzi, deve comunicare al conduttore le offerte ricevute, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, almeno novanta giorni prima della scadenza. […]. // 3. Il conduttore ha diritto di prelazione se, entro quarantacinque giorni dal ricevimento della comunicazione di cui al comma 1 e nelle forme ivi previste, offre condizioni uguali a quelle comunicategli dal locatore. // 4. Nel caso in cui il locatore entro i sei mesi successivi alla scadenza del contratto abbia concesso il fondo in affitto a terzi senza preventivamente comunicare le offerte ricevute secondo le modalità e i termini di cui al comma 1 ovvero a condizioni più favorevoli di quelle comunicate al conduttore, quest’ultimo conserva il diritto di prelazione da esercitare nelle forme di cui al comma 3 entro il termine di un anno dalla scadenza del contratto non rinnovato. Per effetto dell’esercizio del diritto di prelazione si instaura un nuovo rapporto di affitto alle medesime condizioni del contratto concluso dal locatore con il terzo.

Orbene, ci si chiede se tale diritto di prelazione [melius, di preferenza] dell’affittuario uscente sussista anche nella circostanza in cui i terreni oggetto del contratto rientrino all’interno della categoria dei domini collettivi e quindi, in sostanza, quale sia il rapporto tra la normativa agraria – e segnatamente l’art. 4-bis sopra riportato – e le norme poste a tutela di un dominio collettivo.

Il timore che un ex-concessionario possa esercitare a suo vantaggio un diritto di “prelazione” in ordine ad una successiva concessione del terreno in proprietà collettiva, ostacolando la libertà del soggetto gestore e ledendo gli interessi della comunità, giustificherebbe la mancata applicazione della norma relativa alla c.d. prelazione dell’affittuario uscente. Sicché è bene riportare la particolarmente tranciante pronuncia del T.A.R. Lombardia – Milano n. 1004 del 03/05/2019, in ordine alla possibilità di riconoscere un diritto di prelazione a favore del precedente concessionario in sede di nuova concessione del bene di proprietà collettiva. Essa, preso atto dell’orientamento delineato dalle sentenze sopra citate, stabilisce: “Nel quadro così delineato, è evidente che in presenza di una richiesta di esercizio di uso civico, come quella avanzata dal ricorrente, la P.A. non può dare applicazione alla prelazione agraria di cui all’art. 4-bis della l. n. 203/1982, atteso il carattere recessivo della prelazione de qua rispetto al diritto di uso civico. Ne consegue che il Comune, nella fattispecie, anziché applicare in favore del controinteressato la prelazione in questione, avrebbe dovuto consentire al sig. [….] di esercitare il diritto di uso civico e dunque di usufruire dell’alpeggio […] per pascolare ed abbeverare il proprio bestiame.”.

Nel caso di specie, dunque, si è ritenuto di far prevalere sulla “libertà” di gestione da parte del soggetto titolare del bene in proprietà collettiva rispetto l’interesse del precedente concessionario alla continuazione della propria attività di impresa sul bene della comunità, qualora – al pattuito termine della concessione – il soggetto gestore del patrimonio collettivo decida di procedere ad una sua nuova concessione.

5. Si è visto che l’art. 10 della L.R. del Veneto n. 31 del 22.07.1994 ha riconosciuto un diritto di priorità del residente nella circoscrizione amministrativa del Comune (o della Frazione) quale gestore di terre civiche perché costui è, di per sé, con-titolare del bene in proprietà collettiva spettante a tutti gli abitanti del comune o della frazione in virtù del (solo) diritto di incolato, e ciò ogni volta che il soggetto gestore decida di concedere a singoli individui il godimento dell’intero patrimonio collettivo. Ma, ora, si prospetta una diversa ipotesi, cioè quella in cui non vi siano richieste di concessione del godimento esclusivo di un bene collettivo da parte di un membro della comunità titolare di tale bene; ora si discute dell’applicabilità dell’art. 4-bis nell’ipotesi in cui non vi sia qualche con-titolare del dominio collettivo che chieda di poter esercitare il diritto di uso civico sul bene dalla collettività inutilizzato. In questo caso, mentre si ritiene che rimanga ferma la possibilità per il soggetto gestore di concedere a terzi il godimento della terra collettiva, ci si è chiesto se vi siano ostacoli a riconoscere il diritto di prelazione al precedente concessionario, domandandosi se esso potesse determinare un pregiudizio per la comunità titolare del bene in proprietà collettiva.

Si è detto della sentenza del TAR Lombardia sul c.d. diritto di prelazione del concessionario uscente. E’ una sentenza del 2019 che esclude l’applicabilità della prelazione di cui all’art. 4 bis della L. n. 203/1982 nell’eventualità in cui un titolare del dominio chieda l’assegnazione del terreno collettivo, senza trattare il diverso caso in cui venga esercitato il diritto di prelazione dal precedente affittuario in assenza di richieste da parte degli aventi diritto al dominio collettivo.

La recente riforma del sopratrascritto art. 6, al comma 4-bis del d.lgs. n. 228 del 18 maggio 2001, introdotta con d. l. del 17 maggio 2022, n. 50, convertito con modificazioni dalla l. 15 luglio 2022, n. 91 che ha disposto (con l’art. 20, comma 2-bis) la modifica del detto comma 4-bis dell’art. 6, risolvendo definitivamente il problema. Infatti, e come già si è riportato, l’art. 6, comma 4-bis, stabilisce quanto segue: Fatto salvo il diritto di prelazione di cui all’articolo 4-bis della legge 3 maggio 1982, n. 203, qualora alla scadenza di cui al comma 4 del presente articolo abbiano manifestato interesse all’affitto o alla concessione  amministrativa giovani  imprenditori agricoli,  di  età  compresa   tra   diciotto   e   quaranta   anni, l’assegnazione  dei  terreni  avviene   al   canone   base   indicato nell’avviso pubblico o nel bando di gara. In caso di pluralità  di richieste da parte dei predetti soggetti, fermo  restando  il  canone base, si procede mediante sorteggio tra gli stessi”[6].

Non può esservi, quindi, più dubbio sull’applicabilità dell’art. 4 bis della l, n. 203 del 1982 anche in caso di affitto di terre civiche nonché sul carattere poziore del suddetto titolo di precedenza rispetto al diritto di preferenza riconosciuto ai giovani imprenditori.

6. Concludendo:

a) in caso di terre collettive, la comunità entificata è, in virtù dei suoi riconosciuti poteri di autonormazione, libera di stabilire criteri di preferenza in caso che decida di concedere a singoli terzi il godimento dell’intero bene collettivo inutilizzato direttamente dalla comunità.

b) Va preferito in qualità di concessionario colui che riveste la qualità di titolare di dominio collettivo;

c) in caso di terre civiche, qualora non vi sia la loro gestione collettiva e l’ASUC decida di concederle ad un terzo estraneo alla comunità, il soggetto gestore – così come affermato dalla Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti del Trentino Aldo Adige – non è tenuto ad assegnare il bene tramite asta pubblica, ma può procedere alla sua assegnazione a mezzo di trattativa privata, a causa dell’insopprimibile vocazione paesaggistica e ambientale del bene civico[7].

d) qualora si sia proceduto all’assegnazione della terra civica ad un terzo, al termine della concessione il concessionario uscente ha diritto di essere preferito, qualora il soggetto gestore decida di procedere ad una nuova assegnazione, e ciò ai sensi dell’art. 4-bis della l. 203/1982 sulla disciplina del contratto di affitto.

e) qualora siano plurime le richieste di assegnazione da parte di terzi, va preferito colui che è giovane imprenditore agricolo, in virtù dell’art. 6, comma 4-bis, del d. lgs. 228/2001.

f) qualora più giovani imprenditori abbiano chiesto la concessione del godimento della terra civica, per scegliere il concessionario va fatto il sorteggio tra di essi, e ciò in virtù dell’art. 6, comma 4-bis, del d. lgs. 228/2001.

Elisa Tomasella

 

*Il contenuto del presente scritto è stato discusso con il prof. Alberto Germanò, la cui preziosa collaborazione ha dato spunto ad un’attenta riflessione sui vari aspetti che connotano il complesso rapporto tra i titolari dei domini collettivi e i loro beni.

 

[1] Sugli assetti fondiari collettivi cfr. Grossi P., Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Milano, 1977, 385; Id., Il dominio e le cose. Percezioni medioevali e moderne dei diritti reali, Milano, 1992; Germanò A., Domini collettivi, in Dig./civ., Agg., vol. XI, 2018, 203; Marinelli F., Assetti fondiari collettivi, in Enc. dir., Annali, vol. X, Milano, 2017, 72; Pagliari G., “Prime note” sulla l. 20 novembre 2017, n. 168 (“norme in materia di domini collettivi”), in Il diritto dell’economia, 2019, 11.

[2] Si ricordi. Infatti, la possibilità che la gestione del patrimonio in proprietà collettiva sia svolta tramite un’amministrazione separata da quella del Comune.

[3] Ma non si dimentiche che nel caso in cui la comunità degli antichi originari titolare di terre collettive non si sia costituita in ente, spetta al Comune la loro amministrazione.

[4] La Corte dei Conti, con la sentenza n. 3 del 10 gennaio 2022, peraltro, evidenzia come l’art. 17 comma 2 della L.P. n. 23/1990 consenta all’amministrazione in via generale di adottare “motivatamente” un procedimento di scelta del contraente diverso all’asta pubblica. La Corte perviene a tale conclusione in ragione della presunta natura pubblica delle Amministrazioni Separate di Usi Civico, sebbene la legge n. 168/2017 richiami espressamente l’art. 42, co. 2, Cost. che si riferisce espressamente alla proprietà privata.

[5] Qui si è formulata l’ipotesi con la precisazione che è “così detto diritto di prelazione”. E’ importante evidenziare come la prelazione di cui all’art. 4 bis della l. n. 203/1982 non possa essere confusa con la prelazione del confinante coltivatore diretto e dell’affittuario coltivatore in caso di vendita del fondo limitrofo o del terreno oggetto del contratto d’affitto di cui rispettivamente all’art. 7 della legge 14 agosto 1971, n. 817 e all’art. 8 comma 1 l. n. 590/1965.  In sostanza e più precisamente si tratta di un diritto di preferenza.

[6] In precedenza l’art. 6, comma 4 bis si limitava a prevedere “Qualora alla scadenza di cui al comma 4 abbiano manifestato interesse all’affitto o alla concessione amministrativa giovani imprenditori agricoli, di età compresa tra i 18 e i 40 anni, l’assegnazione dei terreni avviene al canone base indicato nell’avviso pubblico o nel bando di gara. In caso di pluralità di richieste da parte dei predetti soggetti, fermo restando il canone base, si procede mediante sorteggio tra gli stessi”. Secondo il Consiglio di Stato, sez. V, con la sentenza n. 1367 del 21 dicembre 2015 doveva essere riconosciuto carattere poziore al titolo di precedenza per i giovani imprenditori agricoli ai sensi del richiamato comma 4-bis dell’articolo 6 del decreto legislativo n. 228 del 2001.

[7] Ma non si può non ricordare che l’art. 6 d.lgs. 228/2001 sembra prescrivere sempre la trattativa privata.

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