Nell’anno che si è appena aperto ricorrerà il cinquantesimo anniversario della legge 3 dicembre 1971, n. 1102 meglio nota come “prima” legge sulla montagna della recente storia repubblicana. Mezzo secolo è un tempo idoneo per esaminare una legge con sufficiente distacco critico, consentendo una analisi senza il condizionamento delle attese, delle speranze, degli auspici che accompagnano ogni parto legislativo.

Riletta oggi nel suo testo originario, la legge n. 1102 del 1971 rivela una sorprendente modernità, nonostante i cinque decenni trascorsi, i notevolissimi mutamenti sociali intervenuti ed anche le diverse norme di settore nel frattempo entrate in vigore, ivi compresa la successiva legge “sulla montagna” (n. 97 del 1994).

Il mondo politico legato alle aree alpine e prealpine ha in passato additato spesso presunti limiti operativi della legge ma una disamina pacata non tarderebbe a dimostrare che quei limiti vanno imputati più alla pochezza di sostegni attuativi e di finanziamenti da parte dell’Esecutivo che a reali carenze delle singole disposizioni.

In effetti, ancora adesso il lettore rinviene nella legge 1102 un respiro pienamente attuale, tanto da restare un termine inevitabile di confronto per chiunque voglia accostarsi alla materia, respiro che deve la sua freschezza al modo alto con cui il Legislatore ha saputo guardare cinquanta anni fa alla montagna. Diversi potrebbero essere i profili con cui mettere a fuoco l’attualità dei contenuti fissati nelle varie norme: per ragioni di brevità l’attenzione va incentrata solo su alcuni di essi.

Innanzitutto, merita una segnalazione convinta l’affermata necessità di una dimensione (anche) culturale delle politiche per la montagna. La legge 1102, riconoscendo alle popolazioni montane “la funzione di servizio che svolgono a presidio del territorio” (art. 2), non si propone di supportare le zone montane unicamente dal punto di vista infrastrutturale (esecuzione di opere pubbliche, attuazione di bonifiche montane, attivazione di servizi civili speciali) ma intende(va) anche “favorire la preparazione culturale e professionale delle popolazioni montane”.

Coerentemente con questo approccio attento alla crescita “immateriale” della montagna, la legge traccia un disegno istituzionale mirato a valorizzare la ricchezza e la pluralità di espressione delle comunità locali, tanto da imporre che nella formazione delle Comunità montane (ora Unioni Montane ex L.R. 28 settembre 2012, n. 40) sia costituito «un organo deliberante con la partecipazione della minoranza di ciascun consiglio comunale, ed un organo esecutivo ispirato ad una visione unitaria dagli interessi dei Comuni partecipanti» (si veda l’art. 4, poi abrogato dalla legge n. 265 del 1999).

La serietà del dato culturale trova ulteriore conferma nella previsione che ogni decisione politica per la montagna venga assistita da adeguate azioni di studio e di ricerca. Non solo a livello locale, dove il piano di sviluppo deve partire “da un esame conoscitivo della realtà della zona” (art. 5, ora abrogato con la legge n. 142 del 1990), ma anche a livello nazionale attraverso la creazione di una apposita “Carta della montagna” (art. 14 tutt’ora vigente) alla quale spetta fornire “a livello di prima approssimazione” un rilievo generale sulla situazione attuale delle zone montane.

È facile allora comprendere perché mai – secondo l’art. 7 – «la Comunità montana… può redigere piani urbanistici» norma che esprimeva una lungimiranza giuridico-amministrativa di notevole spessore.

Appare in fondo logico che l’attività di studio e di rilevamento e lo sforzo di sintesi unitaria appena visti trovino una loro traduzione programmatica nella gestione del territorio, dei suoi usi e delle sue possibilità di trasformazione. Vi fu – tuttavia – uno scarso seguito attuativo della disposizione, in seguito caducata dalla legge n. 142 del 1990, il che porterebbe ad aprire una riflessione sulla eccessiva “timidezza” con cui si è promossa la dimensione comunitaria nel governo della montagna, non certo – come visto – per mancanza di strumenti legislativi ma, piuttosto, per una radicata disabitudine a pensare in maniera unitaria.

È davvero significativo, in questo senso, che la legge urbanistica veneta (n. 11 del 23 aprile 2004) incoraggi a più riprese l’avvio di una pianificazione urbanistica intercomunale (i cosiddetti P.A.T.I., piani di assetto del territorio intercomunali), addirittura orientando ad essa in via preferenziale la distribuzione del fondo di dotazione, quasi riproponendo e stabilizzando anche al di fuori delle “terre alte” le intuizioni di mezzo secolo fa.

Enrico Gaz

 

 

 

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