1. – È vizio congenito del sistema di giustizia amministrativa il fatto che la riforma del 1889 non abbia fatto venire meno quella del 1865.

Le due discipline erano tra loro concettualmente incompatibili. L’allegato E venne emanato per far cessare l’azione dei giudici titolari del potere di annullamento; la legge Crispi portò invece a riaffermarne l’esistenza. Coerenza avrebbe voluto che, mutata l’impostazione politica, si abbandonasse quella preesistente. Entrambi i mezzi di tutela, invece, vennero mantenuti, sì da alimentare un potenziale conflitto.

Si dirà che non vi era nessuna ragione per abrogare la legge del ’65. Pur sempre, la stessa, anche dopo la riforma, continuava a fornire l’unica tutela giurisdizionale, mentre la Quarta Sezione conservava un profilo interno all’Esecutivo, sebbene agisse con le forme e con le garanzie del processo.

Si trattava, però, di una giustificazione formale e presto il problema del riparto si dimostrò in tutte le sue dimensioni, palesando quel vizio congenito di cui ho detto. Due giudici e due tutele, con confini reciproci non del tutto chiari.

Astraendoci dal dibattito di quel tempo, anche il successivo concordato Romano-d’Amelio ha fornito più uno strumento applicativo che una soluzione dogmatica.

Era causa di questa imprecisione teorica l’incertezza che tuttora permane non solo sulla nozione di interesse legittimo, ma anche di diritto soggettivo il quale, solo con un non facile sforzo interpretativo, può essere assimilato ai diritti civili o politici richiamati dall’art. 2 della legge abolitiva.

Per conseguenza di tutto ciò, quel criterio empirico venne presto messo in crisi.

Solo per riportare alcuni esempi, è noto il dibattito, iniziato nell’immediato dopoguerra, sulla c.d. carenza di potere.

Di questa figura oggi non si sente quasi più parlare (perché l’estensione delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, soprattutto in materia di governo del territorio, ne ha fatto venir meno parte dell’utilità), ma fino a tutti gli anni ’80 non vi era studio di giustizia amministrativa che non se ne occupasse.

Nella sua duplice accezione (della carenza in concreto e in astratto), la medesima figura venne, in definitiva, introdotta proprio per allargare le crepe del criterio concordatario; essa mirava – in ragione di come veniva prospettata – a volgere davanti all’A.G.O. alcune cause proprie del giudice speciale e viceversa.

Si pensi, ancora, ai c.d. diritti incomprimibili.

A osservare il fenomeno con gli strumenti della logica formale, si fatica a capire perché mai, nonostante il provvedimento amministrativo, persisterebbero diritti soggettivi pieni in capo al privato.

Delle due l’una, infatti: o il potere ha prodotto i suoi effetti (ma allora il diritto cessa di esistere) oppure sopravvive il diritto (ma allora il potere non è stato esercitato). È quindi plausibile che questa teorica altro non sia, se non uno strumento logico-retorico per giustificare lo spostamento di alcune controversie particolarmente sensibili dal giudice amministrativo a quello ordinario.

Nonostante queste incrinature, l’impianto uscito dal concordato ha, tuttavia, reso una soluzione effettiva al problema del riparto; diversamente, non avrebbe retto per molti decenni.

Si sapeva, in linea di massima, che in presenza di una lesione diretta, personale e attuale cagionata dal provvedimento amministrativo su un qualificato interesse di fatto, la giurisdizione apparteneva al giudice speciale e che quella era l’unica tutela ammessa. Ai fini pratici, tanto bastava.

Vi è da chiedersi se quella soluzione possa dirsi ancora dotata di effettività.

 

2. – La prima breccia è stata aperta dalla risarcibilità degli interessi legittimi.

Di fronte alla prospettiva che, secondo l’indicazione della Cassazione, si creassero due separati binari di tutela (uno, davanti al giudice amministrativo, di carattere costitutivo e soggetto a termini decadenziali; l’altro, di natura aquiliana e soggetto a interrompibili termini di prescrizione, davanti al giudice ordinario), è prevalso un tentativo di unificazione, che, tuttavia, si è sviluppato in modo scomposto.

Invece di affrontare una riforma organica, si è voluto consolidare un sindacato generale in capo al giudice speciale passando prima attraverso alcune pronunce della Plenaria e, poi, intervenendo chirurgicamente sul testo dell’art. 7, legge T.A.R. (togliendo l’aggettivo “esclusiva” dal sintagma “nell’ambito della sua giurisdizione”).

Era troppo poco perché la questione potesse dirsi sopita a fronte delle rivendicazioni del giudice ordinario sulle nuove controversie risarcitorie.

Sono seguiti così gli anni tormentati della pregiudiziale amministrativa e della guerra tra le giurisdizioni, per arrivare alla soluzione, per così dire transattiva, dell’art. 30 del codice di rito.

Si è trattato di una transazione solo apparente.

L’art. 30, cit., assoggettando la domanda risarcitoria autonoma a un ingiustificabile termine di decadenza e estendendovi un regime aggravato del concorso del creditore non ha affatto applicato i criteri dell’aliquid datum aliquid retentum.

La guerra delle giurisdizioni, in realtà, si è risolta a pieno favore del giudice amministrativo e le concessioni tributate al fronte avverso, perché più di apparenza che di sostanza, hanno lasciato terreno fertile per il riemergere delle conflittualità.

L’occasione è stata data dalla giurisprudenza sull’eccesso di potere giurisdizionale, che, nonostante l’intervento del giudice costituzionale, non deve ritenersi esaurita, come dimostrano le recenti remissioni alla Corte di giustizia nonché i tentativi, finora solo carsici, di riqualificare la censura ex art. 360, n. 3, c.p.c. come una creazione di diritto nuovo da parte del giudice, con conseguente difetto di giurisdizione della sentenza amministrativa per invasione del Potere legislativo.

 

3. – Il consolidamento davanti al giudice amministrativo dell’azione aquiliana costituisce anche un vulnus alla tipicità della giurisdizione esclusiva, se, come si ritiene, l’oggetto dell’accertamento giudiziale è il diritto al risarcimento e se la lesione dell’interesse attiene solo a una questione pregiudiziale.

In tal modo, si è aperto un sindacato generale sui diritti risarcitori, svincolato dalla materia a cui si riferisce la specifica controversia, sì da contribuire, anche per tal via, a incrinare i principi concordatari.

È stato eccepito dalla Corte costituzionale che sarebbe corretto, in tal caso, parlare di strumenti di tutela più che di diritti fatti valere. Tanto è bastato per ritenere superato lo scoglio dell’art. 103 cost. e ha spianato la strada ad altre simili fenomenologie.

Alludo, in particolare, alla tutela dei diritti patrimoniali consequenziali, che ora è affidata sempre al giudice amministrativo, pur non essendovi alcun dubbio che si tratti di veri diritti soggettivi.

Ma valga anche ricordare che, mentre l’impugnazione (ad opera del terzo danneggiato) di un provvedimento favorevole esplicito ricade nella cognizione di legittimità, per gli alternativi titoli semplificati (silenzi e segnalazioni certificate) l’art. 133 c.p.a. parla di giurisdizione esclusiva, indipendentemente dalla materia su cui incidono. Quasi che la definizione di una materia dipenda dalla natura del titolo contestato e non dall’oggetto delle suscitate controversie.

Considerazioni analoghe vanno ripetute per gli accordi di diritto pubblico, in quanto anch’essi attratti alla giurisdizione esclusiva senza tener conto della materia a cui si riferiscono, con la peculiare conseguenza che le parti, nell’aderirvi, implicitamente accettano anche di derogare al criterio di riparto.

L’estensione di queste macchie di giurisdizione esclusiva generale (introdotte in via esplicita o surrettiziamente, attraverso l’ampliamento della nozione della giurisdizione di legittimità) ha favorito la creazione di terre di tutti e di terre di nessuno; di ambiti in cui entrambi gli apparati giurisdizionali rivendicano la potestas iudicandi e di ambiti in cui entrambi la negano.

Queste incertezze sono state aggravate dal tentativo di scongiurare la tesi del blocco di materie, imponendo, per la sussistenza della giurisdizione esclusiva, l’esercizio, almeno apparente, del potere imperativo. Cosicché una determinata controversia, pur riguardando il medesimo diritto, è tributata ora ad un giudice ora ad un altro in ragione del titolo fatto valere.

In tal modo, se tra un ente pubblico e un cittadino si contendesse del diritto di proprietà, la giurisdizione sarebbe ordinaria ove si facesse valere l’usucapione; sarebbe del giudice speciale ove si contestasse l’efficacia di un provvedimento espropriativo o l’insorgenza del relativo procedimento.

Ma il giudicato copre il dedotto e il deducibile. Questo implica che, davanti al giudice competente a conoscere dell’esistenza di un diritto, si dovrebbero poter fare valere tutti i potenziali titoli costitutivi dello stesso, a prescindere dalla loro natura privatistica o pubblicistica. Diversamente, o non si saprebbe giustificare in che modo l’efficacia di giudicato copra anche per i titoli che non si possono esibire o si dovrebbe rivedere lo stesso concetto di giudicato, svincolandolo dal principio del dedotto e del deducibile.

 

4. – Oltre a questi interventi, collegati al modificarsi delle tutele, ha portato una lesione ai principi concordatari anche il mutato volto del diritto sostanziale.

Secondo un Presidente del Consiglio di Stato di qualche generazione fa, il giudice amministrativo sarebbe diventato il giudice dell’economia.

In effetti, è vero che quelle di diritto pubblico sono sempre più discipline di diritto pubblico dell’economia.

Solo per fare qualche esempio, i piani regolatori non si limitano più a sovrintendere ad un ordinato sviluppo urbanistico del territorio. Il territorio, invece, è l’occasione per regolare anche il numero e le potenzialità degli esercizi commerciali o degli stabilimenti produttivi. La stessa disciplina urbanistica è fatta oggetto di scambio diretto, giacché sono stati ammessi, con i noti limiti, gli accordi che la riguardano.

Dal regime dei beni culturali fino a quello delle fonti energetiche, dei servizi pubblici e del c.d. terzo settore, non vi è norma di diritto pubblico che non abbia ricadute sui mercati.

Questo più accentuato dirigismo, di cui si fanno interpreti le autorità amministrative nella fase di esecuzione della legge, si pone in un contesto diverso da quello che aveva ispirato l’ambiguo art. 41 cost., perché si sono affievolite le ideologie che ne erano alla base.

Il rilievo non esclude che queste sopravvenute forme di dirigismo siano sollecitate da nuovi, meno ideologici ma non meno pressanti, impulsi. Il dirigismo, a ben vedere, è uno strumento che può servire finalità eterogenee.

Tutto ciò implica, per un verso, che le amministrazioni si confrontino con gli imprenditori non solo per svolgere controlli dall’esterno sull’esercizio di attività potenzialmente dannose per la collettività, ma anche in qualità di soggetti co-determinatori del modo di essere e di funzionare dell’impresa stessa.

Per altro verso, però, questi diversi rapporti comportano nuovi bisogni di tutela, legati alle peculiarità d’azione degli operatori economici.

Una tutela di mero annullamento, vale a dire una tutela che si limita, per quanto possibile, a riportare la realtà giuridica nella configurazione quo ante, può apparire, talvolta, piuttosto grossolana rispetto ai sofisticati e dinamici interessi commerciali che si agitano nella fattispecie sostanziale.

Questo tanto più vale, se consideriamo che la tutela costitutiva dipende pur sempre dal vizio di legittimità, il quale non è di per sé collegato alla lesione di privatistici interessi. L’illegittimità, al contrario, è posta a tutela diretta di interessi pubblici, come dimostra il fatto che il provvedimento può essere invalido anche quando non lede alcun soggetto di diritto privato.

Da queste considerazioni ha preso verosimilmente la spinta il tentativo di costruire un nuovo canone di valutazione dell’azione amministrativa.

Si è cercato, così, di sovrapporre al sindacato sulla legittimità (di matrice pubblicistica) un diverso sindacato, ispirato ai principi civilistici e alle c.d. clausole generali.

Siamo di fronte a un fenomeno di pluriqualificazione indipendente, perché i due piani di valutazione sono reciprocamente indifferenti: l’atto potrebbe essere legittimo e, nello stesso tempo, contrario ai parametri di valutazione civilistica.

Gli stessi regimi processuali e le tutele si atteggiano, conseguentemente, in modo diverso, secondo il diverso sindacato esercitato sul provvedimento: mutano i termini processuali e le preclusioni, mutano le domande. Può mutare il giudice.

Tra tutte le clausole generali ha un ruolo preminente quella di buona fede, con il suo risvolto della tutela risarcitoria, ben più versatile della rigida tutela di annullamento.

È quindi insolito che di questa clausola generale si sia servita la stessa Plenaria quando, in una pronuncia di qualche anno fa, ha riconosciuto il risarcimento del danno per lesione dell’affidamento, in dipendenza da una gara pubblica che era stata interrotta senza incorrere in alcun profilo d’illegittimità.

Nell’ammettere un tale risultato, il giudice speciale ha, in realtà, indebolito il proprio sindacato quasi-generale sull’azione amministrativa, di cui è stato, in altre occasioni, un custode geloso.

Si versava in una fattispecie di giurisdizione esclusiva; pertanto, spettava al giudice speciale pronunciarsi anche sulla domanda risarcitoria.

Ma i risvolti impliciti erano chiari: quando la controversia esca dal perimetro dell’art. 133 c.p.a., un’analoga tutela risarcitoria potrebbe essere restituita anche dal giudice ordinario.

Coerentemente, la Suprema Corte ha confermato di recente che spetta all’A.G.O. dare tutela all’affidamento, quando esso sia stato leso dal pur legittimo annullamento in sede di autotutela di un provvedimento favorevole. A cagionare il danno non sarebbe, infatti, l’invalidità di diritto pubblico del provvedimento, ma la sua difformità rispetto alla clausola generale.

Superato così il problema dell’accertamento dell’illegittimità, vengono insieme superati – se mi è consentito un brutto neologismo: vengono bypassati – anche i ristretti limiti entro cui è stata circoscritta la tutela risarcitoria dell’interesse legittimo.

E se tale è il principio affermato, non si può escluderne l’estensione anche oltre le fattispecie amministrative di autotutela, per comprendere la generalità delle ipotesi in cui sia denunciabile la lesione della buona fede oggettiva.

 

5. – A complicare il quadro, vanno, infine, segnalati alcuni rimedi alternativi che nella prassi stanno emergendo, attraverso la qualificazione di fattispecie amministrative con coloriture penalistiche o contabili. Si tratta di strumenti giudiziali diretti ad altri scopi, ma che vengono utilizzati in modo distorto, per ottenere una sorta di tutela tangente.

Quanto allo spettro della Corte dei conti, il rimedio non è in grado, di per sé, di restituire alcun ristoro, nemmeno indiretto, alla parte privata. Esso esaurisce la propria funzione in una fase persuasiva e preliminare al suo esperimento.

Maggiormente efficace è, invece, il ricorso alla magistratura penale, perché il relativo processo dà spunto per la costituzione di parte civile o per ottenere, in certi casi, la disapplicazione del provvedimento amministrativo, con conseguenti obblighi conformativi di natura caducatoria o ripristinatoria.

Alla base di queste tendenze si pongono varie ragioni. Alcune sono di carattere economico perché un esposto alla Procura è meno oneroso di un ricorso amministrativo; altre attengono alla duttilità dell’espediente, non fosse altro perché esso non è soggetto a decadenze. Ma, forse, vi è anche la convinzione che la tutela offerta dal giudice amministrativo arriverebbe “dove può” e che vi sia bisogno di una tutela altra.

 

6. – Il mio compito, in questa sede, è quello di descrivere un fenomeno e di ipotizzarne le possibili conseguenze; non è quello di verificare se queste nuove tendenze siano giuridicamente sostenibili. In questo senso, mi pare che nessuna di esse sia in grado di demolire da sola l’effettività del classico criterio di riparto.

Se, invece, le consideriamo nella loro convergenza di risultati, l’attuale sistema di giustizia risulta indebolito e poco nitido.

Forse il legislatore non ha avuto abbastanza coraggio. Di fronte a sopravvenute esigenze di tutela, egli è intervenuto in modo tiepido, quando non si è più semplicisticamente affidato alla capacità di problem solving della giurisprudenza.

Ma – anche volendo trascurare i dubbi sull’opportunità di procedere a riforme per il mezzo delle sentenze – la giurisprudenza è pur sempre soggetta alla legge e la sua azione è lenta e disorganica, perché legata alla cognizione di un caso concreto.

È proprio la disorganicità il male più grave, perché essa impedisce che sia posta la parola definitiva su determinate fattispecie litigiose, compromettendo la stabilità dell’azione amministrativa e la certezza dei rapporti.

A tale disorganicità va, dunque, posto rimedio, consapevoli che le esigenze di giustizia sono, in un certo senso, incontenibili. Se non opportunamente soddisfatte, non vi è strumento giuridico-concettuale che le possa trattenere. Esse, inevitabilmente, cercheranno soluzioni alternative.

Francesco Volpe

*Relazione introduttiva al Convegno “Le giurisdizioni “sconfinate”” svoltosi, a cura della Associazione Veneta Avvocati Amministrativisti, il 13 novembre 2020 con il patrocinio della Giustizia Amministrativa e del T.A.R. per il Veneto.

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