Con la sentenza n. 2295 del 31 gennaio 2025, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: l’autonomia statutaria dei domini collettivi, pur riconosciuta dalla legge, non può spingersi al punto di violare i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. In particolare, la Corte ha censurato l’utilizzo del cognome come criterio esclusivo per l’appartenenza alla Regola di Casamazzagno, ritenendolo discriminatorio nei confronti delle donne.

Come tutte le comunioni familiari montane del Comelico e della provincia di Belluno, la Regola di Casamazzagno è un esempio tipico di proprietà collettiva “chiusa”, una categoria che la L. 168/2017 include tra le “terre collettive comunque denominate, appartenenti a famiglie discendenti dagli antichi originari del luogo“. Tali proprietà si distinguono dalle proprietà collettive “aperte”, come i demani civici e le terre di uso civico, che invece garantiscono accesso e utilizzo a tutti i residenti di un determinato comune o frazione. Della distinzione tra le due tipologie si fa cenno anche nella sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 12570 del 10 maggio 2023.

La lunga storia delle proprietà collettive “chiuse” è segnata dalla necessità di stabilire confini chiari, sia per delimitare le terre e le risorse, sia per determinare chi appartenga alla comunità e chi, invece, in quanto foresto, debba restarne escluso. Tale esigenza riflette il primo dei principi individuati dal premio Nobel Elinor Ostrom come posti a salvaguardia del controllo e della sostenibilità di una risorsa comune: la chiara definizione dei confini. Proprio in questo contesto, dopo un lungo iter di modifiche statutarie indotte anche da interventi giudiziari, la Regola di Casamazzagno aveva deciso di ancorare l’appartenenza alla comunità al “vincolo di discendenza con gli antichi cognomi delle famiglie originarie”.

Il principio di diritto secondo il quale i domini collettivi sono riconosciuti dalla L. n. 168 del 2017 come “ordinamento giuridico primario delle comunità originarie, soggetto solo alla Costituzione” era stato fissato da Cassazione Sez. II n. 24978 del 10 ottobre 2018. Richiamandosi a questo precedente, la Prima Sezione della Suprema Corte ritiene che la norma statutaria della Regola di Casazzagno che ha individuato nel cognome un elemento decisivo per il riconoscimento dello status di Regoliere si pone in contrasto con i principi costituzionali.

Nel rimprovero mosso dalla Cassazione alla Regola di Casamazzagno riecheggia la celebre favola di Fedro: il lupo accusa l’agnello, pur trovandosi quest’ultimo più a valle, di intorbidare l’acqua del ruscello. Erigendosi a garante del principio di eguaglianza di genere, la Corte censura lo statuto della Regola per aver individuato nel cognome un criterio rilevante per la trasmissione del titolo. Ma, come nella favola, l’accusa sembra paradossale: la Regola non ha inquinato l’acqua, bensì ha bevuto da un ruscello già compromesso dalle norme dell’ordinamento dello stato civile.

Infatti, la questione della trasmissione del cognome ha un’origine strutturale nell’ordina­men­to giuridico italiano. Fin dall’origine la normativa ha imposto la patrilinearità del cognome, limitando il diritto delle donne di trasmettere il proprio. Solo di recente la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale questa regola automatica (sentenza n. 286/2016, confermata dalla n. 131/2022), ma nella prassi sociale e anagrafica continua a prevalere il cognome paterno. Dunque, l’apparente “inquinamento” della parità di genere non nasce dallo statuto della Regola, ma dal fatto – dice la Cassazione – che “il cognome [è] trasmesso, di regola, dal padre”, il che equivale ad ammettere che è proprio quello stesso ordinamento giuridico che pone al suo vertice la Costituzione a non essere stato fino ad ora in grado di correggersi compiutamente.

Se oggi una Regola condiziona l’appartenenza alla comunità regoliera al possesso di un cognome, è perché ha ereditato una realtà già viziata dalla normativa statale, e non perché ha arbitrariamente introdotto una discriminazione ex novo. Eppure, la Cassazione ritiene che, pur avendo ereditato una realtà giuridica preesistente, la Regola non possa legittimamente perpetuarla.

In questa prospettiva, il messaggio della sentenza appare chiaro: se l’ordinamento statale ha tardato a correggere una diseguaglianza, ciò non legittima soggetti privati a perpetuarla. La Regola di Casamazzagno, dunque, avrebbe dovuto adottare criteri di appartenenza più neutri, basati sulla discendenza e sul radicamento territoriale piuttosto che su un dato anagrafico soggetto a un sistema di attribuzione storicamente squilibrato.

Se la favola di Fedro si chiude con il lupo che divora l’agnello, la sentenza della Cassazione si conclude con l’annullamento delle disposizioni statutarie discriminatorie. Resta il fatto che l’acqua era già torbida prima che l’agnello la bevesse, eppure è lui, se non proprio a essere accusato di averla resa impura, a vedersi obbligato a depurarla.

A questo punto si potrebbe obiettare che l’agnello in questione non era in fondo così meritevole di compassione, avendo forse scelto di ancorare lo status di Regoliere al criterio del cognome non per altro che per perpetuare maliziosamente la tradizionale esclusione delle donne dalla piena partecipazione ai diritti di Regola, in particolare al diritto di trasmettere il titolo ai propri discendenti. Anche se può apparire plausibile. questa conclusione risulta forse un poco affrettata e, a ben guardare, tutt’altro che scontata. E ciò anche al netto dell’evoluzione segnata da Corte Costituzionale n. 131/2022, dopo la quale una discriminazione di genere nell’attribuzione del cognome non dovrebbe più ritenersi un pregiudizio irrimediabile.

Il cognome rappresenta uno degli elementi fondamentali attraverso cui viene espressa e riconosciuta pubblicamente l’identità di una persona, nonché il suo legame con le proprie origini e radici familiari. In quanto tale svolge una duplice funzione identitaria e genealogica: identifica l’individuo all’interno di una determinata famiglia o comunità, permettendo di riconoscere in modo immediato il gruppo di appartenenza; veicola informazioni sulle origini, sulla storia e sul radicamento territoriale di una famiglia. Nelle proprietà collettive “chiuse”, dove dovrebbe prevalere la dimensione comunitaria rispetto a quella individuale, i cognomi delle famiglie originarie sono una componente fondamentale dell’identità del gruppo e sono sempre stati percepiti quale simbolo di continuità intergenerazionale (art. 1, comma 1, lett. c, L. 168/2017). Nonostante la Cassazione sostenga che l’eliminazione del criterio del “vincolo di discendenza con gli antichi cognomi delle famiglie originarie” non pregiudica il carattere “chiuso” della Regola, resta il dubbio che l’apertura a nuovi cognomi, diversi da quelli per tradizione secolare iscritti all’anagrafe della Regola, possa invece, agli occhi di molti, compromettere l’identità del gruppo.

Vi sono inoltre ragioni pratiche che non sembrano essere state adeguatamente considerate. In Comelico, territorio storicamente isolato e, in quanto tale, fino ad un recente passato caratterizzato da una forte endogamia, vi sono Comuni in cui coesistono territorialmente più Regole. Se il criterio di appartenenza fosse solo la discendenza in senso ampio, senza alcun riferimento al cognome, molti individui potrebbero contemporaneamente richiedere l’iscrizione a più Regole in contrasto con quanto sancito dalle tradizioni e creando potenziali squilibri nella gestione delle risorse collettive. In questo contesto il cognome sembrerebbe davvero poter rappresentare il ponte tra l’identità personale e l’appartenenza collettiva ad un gruppo. Esso non solo identifica l’individuo a livello personale, ma rende pubblica la sua storia e le sue radici, traducendosi in uno strumento attraverso il quale si trasmette alle future generazioni un patrimonio identitario e una memoria storica condivisa.

Resta da fare una notazione finale. Se il principio cardine delle proprietà collettive “chiuse” è preservare nella sua integrità ambientale un patrimonio agro-silvo-pastorale e garantire il suo trasferimento alle generazioni future, una piena ed effettiva parità di genere non dovrebbe essere vista come un ostacolo contrario alle tradizioni, ma piuttosto come una risorsa per la sopravvivenza stessa delle Regole. Il drastico calo demografico ha moltiplicato i casi in cui, in una famiglia, non vi sono figli maschi che possano garantire la continuità regoliera la dove ancora vige un sistema di trasmissione patrilineare del titolo. In un simile scenario, l’apertura a una piena partecipazione delle donne ai diritti di Regola non è solo una doverosa questione di conformità alla Costituzione, ma potrebbe ora essere valutata anche quale strategia necessaria per assicurare la perpetuazione delle comunità regolatrici.

Cognome o non cognome, nella loro riconosciuta autonomia, anche le Regole più tradizionali potrebbero forse cogliere l’opportunità di riconsiderare il proprio assetto normativo, non solo per conformarsi ai principi costituzionali, ma pure per garantire la propria sopravvivenza in un contesto demografico e sociale in continuo mutamento.

Andrea Trebeschi

Sentenza