Resilienza climatica e rigenerazione urbana devono camminare a braccetto.
La rigenerazione urbana, contemplata in numerosi arresti del diritto pattizio internazionale – dall’Agenda O.N.U. 2030, dalla New urban agenda della Conferenza mondiale Habitat III di Quito del 2016 e dall’Agenda urbana dell’Unione europea approvata a Lipsia nel 2020 –, comprende una molteplicità di interventi, che vanno dalla riconversione delle aree abbandonate, al recupero delle periferie degradate, alla rivitalizzazione dei centri storici marginalizzati[1], da realizzarsi attraverso il riuso dei fabbricati, la sostituzione edilizia e la riqualificazione urbanistica, secondo criteri e metodologie di sostenibilità ambientale, salvaguardia del suolo, delocalizzazione dei nuovi interventi di trasformazione nelle aree già edificate e degradate, innalzamento del potenziale ecologico-ambientale e della biodiversità urbana, riduzione dei consumi idrici ed energetici, rilancio della città pubblica attraverso la realizzazione di adeguati servizi primari e secondari e miglioramento della qualità e della bellezza dei contesti abitativi[2].
In essa, l’obiettivo di sviluppo delle città si realizza in combinazione con l’esigenza di «stimolare una maggiore eco-efficienza ambientale»[3].
D’altronde, la nostra giurisprudenza ha recepito da tempo un concetto di territorio inteso non più come «spazio topografico suscettibile di occupazione edificatoria», ma come «risorsa complessa che incarna molteplici vocazioni (ambientali, culturali, produttive e storiche) … all’interno della quale si è consolidata la consapevolezza del suolo quale risorsa naturale eco-sistemica non rinnovabile, essenziale ai fini dell’equilibrio ambientale, capace di esprimere una funzione sociale e di incorporare una pluralità di interessi e utilità collettive, anche di natura intergenerazionale»[4].
Pertanto, sul piano dell’agire amministrativo, la rigenerazione urbana costituisce oggi una precisa strategia pubblica[5] o, comunque, un modulo organizzativo d’integrazione tra più settori a cavallo tra le funzioni del governo del territorio e della tutela dell’ambiente[6].
Nondimeno, dietro il perseguimento e l’attuazione pratica dell’obiettivo si annidano problemi, giuridici e tecnici, di grande spessore.
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1) Una prima questione attiene al riparto delle competenze legislative, tra materia dell’ambiente, posta in capo allo Stato – cui spetta prescrivere standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, anche incidenti sulle competenze legislative regionali[7] – e materia del governo del territorio, che appartiene alle regioni, la cui azione è strutturalmente più efficace a contrastare il fenomeno del consumo di suolo, perché in grado di porre limiti generali ed ab externo alla pianificazione locale[8].
Per raccordare i due livelli, è intervenuto l’art. 5 del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (c.d. “decreto sviluppo”), convertito con legge 12 luglio 2011, n. 106, che ha autorizzato le regioni ad approvare proprie leggi, per incentivare con misure premiali – quali, espressamente: il riconoscimento di volumetrie aggiuntive, la delocalizzazione, la modifica della sagoma ed il cambio delle destinazione d’uso, purché tra loro compatibili o complementari – le attività edilizie, anche di demolizione e ricostruzione, aventi il “fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente, nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili”.
Tale norma rappresenta il volano delle leggi regionali che si sono via via succedute, le quali tuttavia incontrano spesso il limite di concentrarsi principalmente su semplici interventi episodici di rinnovamento edilizio (sostituzione o implementazione di parti di edifici, demolizione e ricostruzione, delocalizzazione), quando appare più coerente puntare verso una pianificazione incentivata “per risultato” di carattere diffuso, tesa a rivitalizzare il tessuto edilizio esistente, àmbito per àmbito[9].
Per altro, questa tecnica legislativa ha talora portato a valorizzare la potestà legislativa delle regioni a discapito di quella amministrativa dei comuni, cui deve riconoscersi un ruolo insostituibile, in virtù del principio di sussidiarietà verticale e stante l’esistenza di un principio fondamentale dell’ordinamento in base al quale sono i comuni, attraverso i consigli comunali[10], «a dover individuare gli àmbiti urbani che necessitano di razionalizzazioni del patrimonio edilizio esistente o di riqualificazione in quanto ricomprendenti aree urbane degradate»[11].
Sono state dunque dichiarate costituzionalmente illegittime le disposizioni comportanti l’eccessiva compressione delle prerogative dei comuni, «per il fatto di dettare una disciplina … idonea, in ragione della sua natura autoapplicativa, a ripercuotersi su scelte attinenti all’uso del territorio»[12].
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2) Altro punto critico riguarda l’assenza, nel nostro ordinamento, di una definizione di rigenerazione urbana, che il T.U. dell’edilizia cita quattro volte, allo scopo di prevedere incentivi o deroghe, senza mai chiarirne precisamente i tratti distintivi:
– all’art. 3, comma 1, lett. d), dove si stabilisce che, nei casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, l’intervento di ristrutturazione edilizia può dar luogo ad incrementi di volumetria “anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana”;
– all’art. 14, comma 1-bis, dove si stabilisce che il consiglio comunale può attestare l’interesse pubblico di un intervento di ristrutturazione edilizia in deroga allo strumento urbanistico “limitatamente alle finalità di rigenerazione urbana, di contenimento del consumo del suolo e di recupero sociale e urbano dell’insediamento”;
– all’art. 17, comma 4-bis, dove si consente la riduzione del contributo di costruzione “al fine di agevolare gli interventi di rigenerazione urbana, di decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo, di ristrutturazione, nonché di recupero e riuso degli immobili dismessi o in via di dismissione, rispetto a quello previsto dalle tabelle parametriche regionali”;
– all’art. 23-quater, comma 1, dove si ammette l’utilizzazione temporanea di edifici ed aree per usi diversi da quelli previsti dallo strumento urbanistico “allo scopo di attivare processi di rigenerazione urbana, di riqualificazione di aree urbane degradate, di recupero e valorizzazione di immobili e spazi urbani dismessi o in via di dismissione e favorire, nel contempo, lo sviluppo di iniziative economiche, sociali, culturali o di recupero ambientale».
Viceversa, è basilare stabilire quali siano gli elementi essenziali della rigenerazione urbana, per comprendere se l’intervento proposto è sussumibile, o meno, nel paradigma.
Ciò in quanto «il legislatore, sia pure in vista anche di un rilancio delle attività economiche inerenti all’edilizia, non ha in sostanza inteso “liberalizzare” e “generalizzare” ogni intervento edilizio incrementativo degli edifici esistenti (consistente in demolizione e ricostruzione o sia pure in solo ampliamento), collegando l’obiettivo di “rilancio” dell’attività edilizia a specifiche e ineludibili finalità relative all’interesse, di pari rilievo e preminenza, anche costituzionale, ad un miglioramento del tessuto urbanistico, cui sono chiaramente correlate le due alternative finalità/condizioni di ammissibilità dell’intervento (“razionalizzazione del patrimonio edilizio”, “riqualificazione dell’area urbana degradata”)»[13].
In altre parole, i meccanismi incentivanti non possono riguardare qualsiasi intervento demo-ricostruttivo su immobili dismessi o in zona degradata, dovendo invece l’intervento possedere le caratteristiche della razionalizzazione e della riqualificazione, proprie della rigenerazione, “tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili” (come recita il d.l. n. 70 del 2011).
In carenza di una normativa nazionale, spetta dunque alle leggi regionali ed alla pianificazione comunale stabilire per lo meno gli obiettivi della rigenerazione.
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3) Un aspetto problematico concerne la qualificazione dell’intervento demo-ricostruttivo e, conseguentemente, la natura del titolo richiesto.
Come è noto, il T.U. dell’edilizia sottopone la demo-ricostruzione a titoli edilizi diversificati, a seconda dell’entità delle modifiche apportate rispetto all’edificio preesistente[14].
L’intervento che mantiene sagoma, prospetti, sedime, caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente è riconducibile alla ristrutturazione “ricostruttiva” o “leggera” ex art. 3, comma 1, lett. d) e richiede la SCIA.
Esiste poi una ristrutturazione edilizia “pesante”, soggetta a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, comma 1, lett. c), quando l’organismo ricostruito è in tutto o in parte diverso dal precedente per modifiche sulla volumetria complessiva, sulla sagoma o sui prospetti, purché queste siano di portata limitata e comunque riconducibili all’organismo preesistente.
Se, invece, le modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti non sono di portata limitata, né sono riconducibili all’organismo preesistente, l’intervento si configura come nuova costruzione.
Ora, il punto è che l’art. 3 comma 1, lett. d), circoscrive ai soli “interventi di ristrutturazione edilizia” la previsione di incrementi planovolumetrici “anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana” con legge regionale o con gli strumenti urbanistici comunali.
Dunque, in via generale, questi incentivi non possono riguardare le ipotesi di demo-ricostruzione configurabili come nuova costruzione.
Diversamente accade per gli incentivi, anche volumetrici, in favore di interventi di rigenerazione urbana, i quali, ai sensi dell’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011, possono attuarsi, tramite le leggi regionali, “anche con interventi di demolizione e ricostruzione”, senza che sia ulteriormente stabilito che essi debbano essere riconducibili alla mera ristrutturazione edilizia.
Questo, ovviamente, rende ancora più indispensabile effettuare un chiaro distinguo sul quando l’intervento demo-ricostruttivo costituisca rigenerazione.
Inoltre, si palesa necessario verificare, a livello comunale, quale sia l’organo competente ad effettuare tale valutazione, che va identificato: a monte, in via generale ed astratta, nell’organo di indirizzo; a valle e nel caso concreto, nel dirigente che rilascia il titolo.
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4) Bisogna prendere atto che nell’ordinamento permangono limiti generali, applicabili agli interventi di rigenerazione, che non risultano superati dalla nuova normativa.
Anzitutto, sussiste l’obbligo del piano attuativo nelle zone centrali e di pregio di cui all’art. 2-bis, comma 1-ter, del T.U., che recita: “nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatti salvi le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela”.
A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. d), nelle stesse zone – oltre che per gli immobili vincolati – “gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria”.
Pertanto, in dette zone la rigenerazione urbana:
– è subordinata all’approvazione di un piano attuativo, verosimilmente un programma complesso ex artt. 2 e 16 della legge 17 febbraio 1992, n. 179 (programmi di riqualificazione urbana e programmi integrali d’intervento), o atto similare, ossia uno strumento attuativo speciale che opera in variante alla strumentazione primaria vigente, pur essendo inidoneo a vincolare quella successiva[15]. Al contrario, il piano di recupero, rivestendo valenza meramente attuativa dello strumento generale[16], è inidoneo a derogare allo strumento urbanistico generale, neppure quando tale modifica trovi giustificazione in una richiesta del privato[17];
– può tendenzialmente avvenire solo attraverso interventi di nuova costruzione e non di ristrutturazione “leggera” o “pesante”.
Opera, poi, l’obbligo di rispetto delle distanze legittime preesistenti di cui all’art. 2-bis, comma 1-ter, del T.U., in base al quale: “gli incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati anche con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito, sempre nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti”.
Operano le norme sulle altezze massime, di cui all’art. 8 del D.M. 1444/1968: “le altezze massime degli edifici per le diverse zone territoriali omogenee sono stabilite come segue:
1) Zone A): …; – per le eventuali trasformazioni o nuove costruzioni che risultino ammissibili, l’altezza massima di ogni edificio non può superare l’altezza degli edifici circostanti di carattere storico-artistico;
2) Zone B): – l’altezza massima dei nuovi edifici non può superare l’altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiaria di cui all’art. 7.
3) Zone C: – contigue o in diretto rapporto visuale con zone del tipo A): le altezze massime dei nuovi edifici non possono superare altezze compatibili con quelle degli edifici delle zone A) predette.
4) Edifici ricadenti in altre zone: le altezze massime sono stabilite dagli strumenti urbanistici in relazione alle norme sulle distanze tra i fabbricati di cui al successivo art. 9”.
Ed un ulteriore limite è quello di dover garantire le aree standard ed a parcheggio, nei casi sia di premialità volumetrica, sia di mutamento di destinazione d’uso.
Infatti, l’art. 23-ter, comma 1-quater, del T.U. prevede che “il mutamento di destinazione d’uso non è assoggettato all’obbligo di reperimento di ulteriori aree per servizi di interesse generale previsto dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 e dalle disposizioni di legge regionale, né al vincolo della dotazione minima obbligatoria dei parcheggi previsto dalla legge 17 agosto 1942, n. 1150”, ma ciò nei casi di cui al comma 1-ter, ossia quelli riguardanti “una singola unità immobiliare ubicata in immobili ricompresi nelle zone A), B) e C) o equipollenti”. Per contro, la rigenerazione riguarda concettualmente interi fabbricati e non singole unità immobiliari.
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Tirando le fila del discorso, appare chiaro come l’ordinamento in vigore sia lacunoso di dispositivi effettivamente idonei al perseguimento della rigenerazione urbana, giacché il legislatore nazionale, dimostrando un incomprensibile «ritardo concettuale» rispetto al legislatore regionale[18], si ha preferito di favorire interventi episodici di rinnovamento edilizio.
Da questo vizio d’origine deriva che, allo stato, la rigenerazione urbana viene realizzata con moduli organizzativi tradizionali ed aspecifici, quali i piani urbanistici attuativi e gli schemi generali di cooperazione istituzionale e sussidiarietà (come l’accordo di programma ed il partenariato pubblico-privato) e, comunque, in assenza di una stabile e mirata cornice legislativa.
Fatalmente, questa “fragilità” del tessuto normativo di riferimento frena molte spinte propulsive, specie quando l’intervento proposto dai soggetti interessati non sia immediatamente riconducibile entro le griglie normative e pianificatrici esistenti, col duplice risultato di “mettere in allarme” le amministrazioni pubbliche nei riguardi delle soluzioni più innovative e di “allontanare” gli investimenti privati[19].
Nell’impasse che si è determinato, pertanto, l’unico approccio utile alle politiche di rigenerazione è stato di tipo empirico e sperimentalista, fondato cioè sulle peculiarietà e sulle necessità del caso concreto.
Un esempio per tutti riguarda una «importante opera architettonica di complessiva riqualificazione di un centro urbano precedentemente degradato, certamente ascrivibile in primo luogo all’interesse economico che ha motivato il finanziamento privato delle nuove opere edilizie e diversamente valutabile quanto al soggettivo apprezzamento estetico, ma certamente legittima sotto il profilo della valutazione, ponderazione e comparazione dei diversi profili d’interesse pubblico coinvolti, da parte dell’ente democraticamente esponenziale della comunità locale, che ha non irragionevolmente ritenuto prevalenti le esigenze di sistemazione e modernizzazione dell’habitat urbano di vita della medesima comunità rispetto alla preservazione di contesti tradizionali oramai compromessi, così come acclarato dalla competente Soprintendenza con due pareri paesaggistici adottati a seguito di un’ampia istruttoria aperta alla partecipazione di tutti gli interessi coinvolti»[20].
Nicola Durante
*Il testo riproduce l’intervento tenuto dal Dott. Nicola Durante nel corso del Convegno svoltosi in data 13 febbraio 2025 in Venezia dal titolo “La tutela climatica attraverso il diritto”, organizzato dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti.
[1] GIANI L., D’ORSOGNA M., Diritto alla città e rigenerazione urbana. Esperimenti di resilienza, in AA.VV., Scritti in onore di Picozza, vol. 3, Napoli, 2020.
[2] GIUSTI A., La rigenerazione urbana. Temi, questioni e approcci nell’urbanistica di nuova generazione, Napoli, 2018.
[3] Dichiarazione della conferenza dei Ministri dell’U.E. di Toledo del 2010.
[4] C. cost. 16 luglio 2019, n. 179.
[5] CARTEI G.F., Rigenerazione urbana e governo del territorio, in Istituzioni di federalismo, 2017, 614.
[6] FAVARO T., Dai brownfields alle smart cities. Rigenerazione urbana e programmazioni digitalmente orientate, in PASSALACQUA M., POZZO B. (a cura di), Diritto e rigenerazione dei brownfields, amministrazione, obblighi civilistici, tutele, Bologna, 2019, 171.
[7] Corte cost. 20 dicembre 2002, n. 536 e 26 luglio 2002, n. 407.
[8] Corte cost., 23 maggio 2019, n. 179.
[9] MARENGHI G.M., La città nuova nel nuovo diritto. Rigenerazione urbana e destinazione urbanistica, Napoli, 2024, 134 e 149 ss.
[10] T.A.R. Abruzzo, Pescara, Sez. I, 6 maggio 2024, n. 145; T.A.R. Puglia, Bari, Sez. I, 21 ottobre 2022, n. 1396.
[11] T.A.R Lazio, Sez. II-bis, 27 dicembre 2022, n. 17543.
[12] Corte cost., 28 ottobre 2021, n. 202, sulla legge regionale della Lombardia.
[13] T.A.R Lazio, Sez. II-bis, 27 dicembre 2022, n. 17543, cit.; Cons. Stato, Sez. IV, 1 settembre 2015, n. 4088 e 19 aprile 2017, n. 1828.
[14] Cons. Stato, Sez. VII, 23 dicembre 2024, n. 10307.
[15] Cass. pen., Sez. III, 2 aprile 2009, n. 14504; Cons. Stato, Sez. IV, 22 giugno 2006, n. 3889.
[16] Cons. Stato, Sez. II, 25 febbraio 2021, n. 1631; C.g.a., 19 febbraio 2016, n. 48; Cons. Stato, Sez. IV, 29 dicembre 2010 n. 9537.
[17] Cons. Stato, Sez. IV, 5 marzo 2008, n. 922.
[18] URBANI P., GOLISANO L., Il decreto Sblocca cantieri e il mancato intervento in materia di rigenerazione urbana, in Rivista di diritto urbanistico Pausania, 2019.
[19] BONETTI T., La rigenerazione urbana nell’ordinamento giuridico italiano: profili ricostruttivi e questioni aperte, in FONTANARI E., PIPERATA G. (a cura di), Agenda re-cycle. Proposte per reinventare la città, Bologna, 2017, 59 ss.
[20] Cons. Stato, Sez. III, 26 aprile 2024, n. 3780 (vicenda del Crescent di Salerno).