Da quando abbiamo l’età della ragione sentiamo parlare di crisi della giustizia e della pubblica amministrazione nel nostro Paese.
Probabilmente, per loro natura, la giustizia e la pubblica amministrazione sono sempre in crisi, perché poste nella zona di conflitto dei principi e delle regole con il pulsare (frequentemente problematico e instabile) della vita sociale e le conseguenti azioni della “mano pubblica”.
Ma i processi e i procedimenti, spesso imputati di essere cause della crisi, non sono aggeggi pleonastici.
Un fine giurista come Giuseppe Bettiol affermava che il diritto processuale è un diritto di rango costituzionale[1], rendendo così onore alla importanza delle “forme” quando si discute della vita e della libertà dei consociati.
Nei tempi attuali, l’idea dell’avvocato come scienziato del cavillo si palesa come un’idea più leggendaria che reale, più immaginaria che aderente alla effettività della funzione forense.
È fondamentale che i protagonisti del processo e del procedimento conoscano bene le regole perché una ignoranza della procedura e una scarsa intelligenza dei suoi strumenti può dissolvere le ragioni sostanziali, facendone evaporare i contenuti. Non a caso, Stefano Bigolaro si è recentemente interrogato sul “diritto di essere cavillosi”[2].
Viene in mente la figura di un giurista sovietico, Evgenij Pasukanis[3], uno dei più brillanti giuristi dell’epoca staliniana, che aveva trascorso la vita a sostenere che la terzietà del giudice, la pubblicità del processo, la dualità delle parti erano tutti simulacri della “ingiustizia borghese”, dato che la vera giustizia era quella proletaria e che le vere procedure erano quelle guidate dal popolo. Scrivendo libri e manuali, passò la sua carriera di studioso nello sforzo di fondare questa affermazione ma fu poi vittima di una delle tante purghe staliniane, spirando in un gulag.
Non è improbabile che nell’ultima fase della sua esistenza abbia potuto rimeditare sull’imparzialità dei procedimenti e sulle esigenze del contraddittorio, capendo che non sono finzioni sovrastrutturali ma quel tanto di vero e di utile che gli uomini sono riusciti a mettere assieme per fare giustizia in modo accettabile e per affrontare le questioni entro una cornice di equilibrio e assennatezza.
Gli avvocati amministrativisti sono sempre in rapporto con il potere.
Questa collocazione non è né oltraggiosa né disonorante, né – tantomeno – moralmente riprovevole. Costituisce, anzi, il proprium del foro amministrativo, che lo distingue e lo qualifica.
Un foro che opera entrando in contatto diretto con l’interesse generale, sia all’interno delle istituzioni, sia dalla parte dei cittadini, difende non la libertà di qualcuno ma la libertà di tutti. Incide, in altre parole, sul modo stesso di rapportarsi dell’amministrazione con gli amministrati ovvero sul “servizio esclusivo alla Nazione” (art. 98 Cost.) e sui modi in cui esso si esplica, tanto nel procedimento quanto nel processo.
In questa direzione, come efficacemente messo in luce da Leopoldo Mazzarolli[4], può essere utile rileggere le parole di Enrico Guicciardi nell’introduzione della prima edizione (1942) de “La giustizia amministrativa” e compararle con quelle riportate nella terza edizione, pubblicata in età repubblicana (1954). Colpisce che Guicciardi prospettasse in entrambi i testi la assoluta parità di Amministrazione e cittadino di fronte alla norma giuridica. Uno sforzo inesausto, in altre parole, di affermare che l’attività amministrativa è sempre sottoposta alla legge, principio che valeva nel 1954 esattamente quanto valeva nel 1942.
Lungo questo crinale è facile avvertire come l’azione dell’amministrativista sia costantemente mossa dalla ricerca di percorsi e soluzioni praticabili per rendere effettiva la libertà delle persone, fisiche e giuridiche, anche quando le spinte ordinamentali tendono a soffocarla.
Se nel suo operare nel processo e prima ancora nel procedimento esiste una invariante, essa va sempre ricercata nella concreta soddisfazione della libertà dell’agire, facendosi carico del “problema fondamentale e delicatissimo di stabilire, fra le persone e le formazioni sociali, da un lato, lo Stato dall’altro, dei confini, delle zone di rispetto, dei raccordi”[5].
Ecco perché serve l’avvocato.
Enrico Gaz
[1] G. BETTIOL, Istituzioni di diritto e procedura penale, CEDAM, 1973, p. 8.
[2] S. BIGOLARO, La torre Eiffel non si farà, CLEUP, 2024, pp. 142-144.
[3] Sul tema, vedi C. DI MASCIO, Pasukanis e la critica marxista del diritto borghese, Phasar edizioni, 2013; la figura di Pasukanis è ricordata anche in F. CORDERO, Guida alla procedura penale, UTET, 1986.
[4] L. MAZZAROLLI, Presentazione de La giustizia amministrativa di E. GUICCIARDI, CEDAM, 1994, VII.
[5] A. MORO, Intervento del 13 marzo 1947 all’Assemblea costituente, in Camera dei Deputati – Segretariato generale, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, Roma, 1970, I, 368.