Queste estemporanee “noterelle”, a margine della riforma della giustizia che sta per essere approvata in Italia[1], sono intitolate “una modesta proposta” per riecheggiare volutamente un bizzarro pamphlet di Jonathan Swift che, nel 1729, provocatoriamente, proponeva di ingrassare i bambini poveri dell’Irlanda cattolica del diciassettesimo secolo per darli poi in pasto ai ricchi proprietari terrieri nel tentativo (piuttosto improbabile, per vero) di porre fine al vessatissimo problema della sovrappopolazione e della povertà nel paese. Il noto prete anglicano irlandese, ovviamente, usava la satira e la boutade per superare un problema che all’epoca si riteneva in qualche modo “irrisolvibile”.

Orbene, la “modestia” di questa proposta si apparenta a quella di Swift solo nel rappresentare fin da subito che, anche quando si parla della profonda ingiustizia della giustizia italiana, si pensa ad un problema egualmente insormontabile. Per il resto, invece, essa mira per davvero – come si darà conto tra breve – ad offrire al nostro Legislatore “un metodo onesto, facile e poco costoso”, per parafrasare Swift, atto a rimediare, almeno in parte, al nostro antico male.

“Antico” perché ne parlava già quasi tre secoli fa l’abate Ludovico Antonio Muratori che, nel suo celeberrimo “Dei difetti della giurisprudenza”, pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1742, osservava inter alia che, fra le pessime abitudini nel “Giure” dell’epoca, “più rilevante si è quella d’altri litiganti, che s’imbattono in Giudici, i quali al primo comparir d’una lite sentenziano in loro mente in favore dell’una delle parti; e per quante ragioni possa o sappia giammai addurre l’altra, stan più che torre fissi nel primiero lor sentimento; anzi fanno essi in loro cuore, se non anche apertamente, da Avvocati alla sentenza già da loro adottata”[2].

Non credo, in effetti, si esageri se la sensazione del giurista oggi, e ancor più del comune cittadino, sia quella di trovarsi di fronte ad una mancanza di rispetto della funzione giurisdizionale talora sbalorditiva, ad un vero e proprio smarrimento del senso della medesima (da così lungo tempo poi da potersi definire “strutturale”), vizio diffuso equanimemente fra i giudici del nostro Paese, dal più modesto e tristemente noto “Pretore di Canicattì” o Giudice di pace di Vattelapesca, fino ad arrivare ai Giudici supremi, ordinari o amministrativi che siano.

La recente vicenda del Giudice Palamara[3] ha scoperchiato un autentico “vaso di Pandora” che un po’ tutti sospettavamo, avendo letto, come conviene, Corruzione a palazzo di giustizia, opera drammaturgica di un grande giudice-scrittore, Ugo Betti[4].

E’ stato autorevolmente osservato, e certo non in tempi sospetti, che, in Italia, “la pratica ha dimostrato come l’autogoverno della magistratura, se ha eliminato la dipendenza di questa verso l’esterno, ne ha dato vita ad una interna, che, specie nell’attuale regime di politicizzazione del consiglio, può pregiudicare non meno dell’altra le esigenze alle quali vuole soddisfare”[5].

Come osservava poi V.E. Orlando, che fu l’ideatore della prima legge d’istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura[6], se era corretto rivendicare l’indipendenza del giudice dal potere esecutivo, non pareva altrettanto ragionevole concepire l’ordine giudiziario come un corpo totalmente separato, come una sorta di casta in sé chiusa, che ne avrebbe fatto, secondo la sua icastica espressione, “un clero borghese”[7].

Il tema dell’“ingiustizia della giustizia” -non va sottaciuto- è molto complesso e le sue cause sono molteplici[8]: a volerle considerarle tutte insieme, certamente insormontabili. Una fatica di Sisifo !

E pur tuttavia pare sufficiente in questa sede indicare due aspetti che, a ben vedere, dovrebbero essere tenuti a mente in una prospettiva di riforma che voglia dirsi tale: l’eccessiva durata dei processi e la responsabilità del giudice.

Sulla lentezza dei processi, va da sé, non occorre neppure esprimersi più di tanto e si confida che la nuova riforma trovi quanto meno delle “mitigazioni”, dal momento che una giustizia lenta è già, come usa dire, un diniego di giustizia.

E’ certo, tuttavia, che le doglianze che a tal riguardo giungono alla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, nonostante l’orpello procedurale (che altro potrebbe essere !) della Legge Pinto, sono ancora molte ed è altrettanto scontato che quest’ultima legge, nei suoi plurimi “ritocchi”, alcuni palesemente incostituzionali[9], non possa certo definirsi un “rimedio satisfattivo”.

Il tema della responsabilità poi è altrettanto decisivo perché, come ebbe a ricordare il grande giudice inglese Lord Denning, i giudici (ma a ben vedere vale per ogni detentore di potere) dovrebbero tenere sempre a mente le parole di Thomas Fuller: “Be ye never so high, the law is above you[10].

A tal proposito, la pronuncia Köbler del 2003 della Corte di giustizia (cui sono seguite Traghetti del Mediterraneo c/ Repubblica italiana del 2006 e Commissione c/ Repubblica italiana del 2011) ha certo prodotto qualche frutto[11], ma, nella sostanza, ovvero fintantoché la composizione del Collegio del giudizio di responsabilità sarà di soli giudici, si tratterà di una mera apparenza di diritto, di una sorta “lip-service” ai dicta della Corte[12]. E, ne siamo tutti consapevoli, una siffatta modifica, stante l’art. 102 2° alinea della Carta cost., dovrebbe passare attraverso una riforma costituzionale, iniziativa difficilissima da realizzare.

In ogni caso, l’idea-proposta che qui si intende avanzare potrebbe dare origine di certo ad una “piccola” ma effettiva e sostanziale riforma, a costo zero, foriera di benefici enormi, vuoi nel breve che nel medio-lungo termine.

L’intento sarebbe quello di introdurre in tutti i codici di procedura -civile, penale, amministrativo e contabile- una norma del seguente semplice tenore:

Prima del deposito della sentenza o, a seconda dei casi, del dispositivo, il Giudice o il Collegio depositano un preavviso di sentenza che sinteticamente illustri le ragioni di diritto e di fatto a sostegno della stessa, in particolare con l’indicazione delle prove ritenute acquisite e quelle non ritenute tali.

Con il deposito di tale “preavviso di sentenza o di dispositivo” le parti hanno trenta giorni (o anche solo quindici giorni) di tempo per segnalare all’attenzione del Giudicante le ragioni di opposizione ovvero di adesione al medesimo preavviso.

Il Giudice o il Collegio, nel depositare la motivazione o il dispositivo, devono tenere conto delle osservazioni introdotte e darne preciso riscontro nella motivazione della sentenza[13].

Questo semplice accorgimento processuale migliorerebbe certamente la qualità della giurisdizione, assicurando la possibilità di “correggere” illico et immediate l’errore giudiziario, affinando efficacemente la qualità dell’eventuale gravame con sicuro effetto deflattivo, consentendo nel contempo l’emersione di fatti di responsabilità del Giudice in termini di dolo, colpa grave o di violazione grave e manifesta, anche e non solo del diritto dell’Unione europea.

Il contro-argomento secondo cui i magistrati “lavorerebbero troppo” o “si allungherebbero i tempi” è ictu oculi un falso problema: molti di essi, in qualunque settore e grado, hanno già dato prova di grande “solerzia” in tal senso, mostrando una naturale propensione a scrivere le sentenze prima della discussione, del dibattimento o del deposito delle memorie conclusionali delle parti !

E, comunque, non si può negare che, al netto di qualunque considerazione, sia di gran lunga migliore una pronuncia seria e meditata ancorché con due o tre mesi in più di attesa, che una pronuncia sciatta ed erronea -se non già dettata da poco commendevoli ragioni- emessa qualche settimana prima.

Si tratta finanche di un truismo.

Ça va sans dire, questa innovazione dovrebbe riguardare solo le controversie fra parti e quindi “lascerebbe fuori” la Corte costituzionale che è l’unico giudice che può decidere con il respiro ampio di una Costituzione, vero e proprio “living tree”.

In chiusa a questa breve annotazione, va ricordato per amor di verità che, anche per questa proposta, vale l’antica sapienza biblica dell’Ecclesiaste: “nihil sub sole novi”.

Nel già citato libro del Muratori, rinvengo quanto segue: “Finalmente si vuol avvertire, essere da lodare sommamente, e da praticarsi in ogni tribunale, ciò che spezialmente si usa dalla Ruota Romana. Cioè che i giudici hanno da motivare, cioè sinceramente esporre ne’ contraddittorj, o allorché i Giuristi vanno ad informarli, quelle difficultà, che loro occorrono contro le ragioni dell’una parte, e i motivi d’inclinare all’altra (…). Per altro non può non riconoscersi per giustissimo il sudetto costume di motivare, perch’esso non è meno utile alla coscienza del Giudice, che al bisogno de i litiganti. Allorché gli Avvocati o Proccuratori intendono dalla bocca stessa di chi dee giudicare, quali opposizioni gli bollano in capo, possono, se han ragione, rispondere quanto conviene per ispianare quelle difficultà, ed appagarlo. E dovendo, siccome altrove abbiamo detto, essere il Giudice fino all’ultimo docile, e disposto a mutar la conceputa opinione, qualora ne sopravenga una più forte e più ragionevole: resta speranza alla parte di far cambiare sentimento, e di guadagnare la causa. Per conto poi de’ medesimi Giudici, giacché essi altro onoratamente non desiderano, che la Verità e la Giustizia, assaissimo giova ad assicurar la loro coscienza quel palesare schiettamente ai contendenti le ragioni, che più li muovono in favor di questo, che di quello, a fine d’illuminarsi, se per avventura si vengano a sciogliere le palesate difficultà,  e si faccia conoscere salda più che mai la ragione di quella parte[14].

Insomma, si tratta in fondo di un suggerimento che viene dal passato per imparare a rispettare quella che oggi chiameremmo la Rule of Law[15], in tutte le sue declinazioni, facendola osservare anche a chi dovrebbe essere il primo, a ben vedere, ad averla a cuore.

Paolo Piva

 

[1] Si veda il testo del d.d.l. approvato dal Senato il 23 settembre 2021, d’iniziativa del Governo, e già approvato dalla Camera dei deputati.
[2] Da De i difetti della giurisprudenza. Trattato di Ludovico Antonio Muratori, prima edizione napoletana, 1743, p. 15.
[3] Si veda il libro-intervista di A. Sallusti, Il sistema. Potere, politica affari: storia segreta della magistratura italiana, Milano, 2021.
[4] In quell’opera, Betti si esprimeva così efficacemente: “Si tratta di un giudice, no ? Ebbene pensate alla grande quantità di parole con cui egli sostenne i suoi argomenti nelle sue relazioni, nelle sentenze, nelle discussioni. Tutte queste parole, ora, dormono là. L’archivio. Ognuna di esse era un peso gettato sulla bilancia che voi dite: ma un peso alterato! Una per una, pagina per pagina non vi direbbero nulla. Ma se voi le guarderete tutte insieme, per ferrea che sia stata la sua astuzia, non credete che qualche cosa dovrà pur tradirle? Un ritorno insistente di certe ambiguità e cavilli: il sapore della corruzione. Sarà quel sapore a distinguere le parole di quel giudice da quelle di tutti gli altri. L’unico filo è questo”.
[5] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, tomo II, Padova, 1976, p. 1290.
[6] Cfr. leggi del 14 luglio 1907, n. 511 e del 24 luglio 1908, n. 438.
[7] V. Frosini, Vittorio Emanuele Orlando e la nascita del diritto pubblico, in La coscienza giuridica: ritratti e ricordi, cap. IX, Torino, 2001, a cura di F. Riccobono.
[8] Se ne occupò, a suo modo, anche il noto professore americano R.H. Bork, in Coercing Virtue: The Worldwide Rule of Judges, del 2003.
[9] Cfr., fra l’altro, la recente sentenza della Corte cost. n. 88/2018 (ECLI:IT:COST:2018:88).
[10] Lord Denning, in una pronuncia della High Court contro l’ Attorney-General, gennaio 1977.
[11] Si vedano, ad es., le modifiche della L. 117/88 introdotte con L. 18/2015, il cui art. 2, comma 3 novellato recita: “Costituisce colpa grave la violazione manifesta della legge nonche’ del diritto dell’Unione europea, il travisamento del fatto o delle prove, ovvero l’affermazione di un fatto la cui esistenza e’ incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, ovvero l’emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione”.
[12] Per rendersene conto, basterebbe osservare il seguito della vicenda Traghetti del Mediterraneo come si può desumere dal nuovo pronunciamento della Corte in data del 23 gennaio 2019, Causa C-387/17, Presidenza del Consiglio dei Ministri contro Fallimento Traghetti del Mediterraneo SpA, ECLI:EU:C:2019:51.
[13]A ben vedere, questa innovazione potrebbe riguardare ugualmente, mutatis mutandis, anche il processo cautelare, stante il danno enorme e, tendenzialmente, irreparabile che la surrettizia concessione di provvedimenti interinali o, per converso, l’illegittimo diniego degli stessi può provocare a carico dei privati. E ciò anche nell’ottica della responsabilità ex art. 96 c.p.c.
[14] Dei Difetti della Giurisprudenza, op. cit., Napoli, 1743, pp. 118-119.
[15] A tal riguardo, va detto che l’Italia non si posiziona particolarmente bene nel WJP Rule of Law Index 2020, osservatorio internazionale indipendente che valuta il rispetto della Rule of Law all’interno di circa 130 Stati, e vi è anzi da credere che siano fin troppo generosi nell’attribuirci attorno alla trentesima posizione nel mondo negli ultimi tre/quattro anni (salvo che per la giustizia civile dove scendiamo clamorosamente ad oltre il cinquantesimo posto).
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