I. Con ricorso notificato il 12 dicembre 2003, L.A., V.P. e V.G. invocavano l’annullamento dell’atto d’obbligo imposto dal Comune di V. quale condizione per il rilascio del permesso di costruire in sanatoria per l’esecuzione di opere di risanamento conservativo nell’immobile catastalmente censito nella sezione di Mestre, foglio 22, mappale 231, sub 4. Segnatamente, con la sua sottoscrizione i ricorrenti si erano impegnati a cedere l’immobile, nell’ipotesi di espropriazione, al prezzo determinato sulla scorta dell’art. 86, comma 2, del P.R.G., e della deliberazione consiliare n. 171 del 1999.

I ricorrenti, inoltre, chiedevano la declaratoria di nullità della surricordata condizione apposta al titolo edilizio, illegittima per assenza di causa ai sensi degli artt. 1324, 1325, n. 2 e 1418, comma 2, c.c.
Nell’incardinato giudizio, allibrato all’r.g. n. 61/2004, si costituiva il Comune di V., chiedendo il rigetto del ricorso.
Successivamente, con ordinanza n. 782/2017 il Presidente invitava l’amministrazione resistente a depositare una relazione sulla vicenda controversa, integrandola con gli sviluppi nel frattempo occorsi.
Nuovamente interveniva il Presidente con ordinanza n. 762/2018, invitando parte ricorrente a depositare una memoria sulla persistenza dell’interesse ad una decisione nel merito, sollecitazione tempestivamente riscontrata l’11 dicembre 2018.
In vista dell’udienza di discussione, la difesa dell’ente locale deduceva il venir meno dell’interesse ad una definizione della controversia in ragione all’intervenuta decadenza del vincolo preordinato all’esproprio – non reiterato – comportante la definitiva inefficacia della clausola stipulata con la sottoscrizione dell’impugnato atto d’obbligo. Replicava parte ricorrente che l’avvenuta trascrizione dell’atto d’obbligo nella Conservatoria dei registri immobiliari imponeva una pronuncia di merito che dichiarasse la nullità della prefata clausola, onde consentirne la cancellazione, manifestando altresì – circostanza di notevole importanza per quanto si andrà a dire nel proseguo – la sussistenza di un interesse di natura risarcitoria.

II. Secondo il giudicante, l’intervenuta decadenza del vincolo espropriativo avrebbe vanificato l’interesse di parte ricorrente ad una pronuncia nel merito, dal momento che l’eventuale annullamento della condizione apposta al titolo edilizio, e riferita ad un vincolo non più esistente, non importerebbe alcuna utilità per i proprietari dell’immobile, e avrebbe altresì determinato la
sopravvenuta inefficacia dell’impugnato atto d’obbligo, destinato a non riprende vigore nemmeno nell’ipotesi di nuova apposizione di analogo vincolo, stante l’assenza di un collegamento causale con l’ipotetica nuova procedura ablatoria.
Tanto più, che l’attuale quadro normativo non legittimerebbe una previsione indennitaria inferiore al valore venale del bene espropriato.
Di tal che, con l’epigrafato provvedimento il giudicante dichiara l’improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse, disponendone però la trascrizione presso la Conservatoria dei registri immobiliari per la constatata inefficacia del trascritto atto d’obbligo.
Un tanto è avvenuto nonostante parte ricorrente avesse manifestato la permanenza di un interesse di natura risarcitoria a conseguire una pronuncia sulle lamentate illegittimità, stante l’adesione a quell’orientamento giurisprudenziale deponente per una applicazione restrittiva dell’art. 34, comma 3, c.p.a., secondo cui “si può accertare l’illegittimità degli atti ai fini risarcitori soltanto laddove la relativa domanda (di risarcimento) sia stata proposta nello stesso giudizio, oppure quando la parte ricorrente dimostri di aver già incardinato un separato giudizio di risarcimento o che è in procinto di farlo; in mancanza di tali adempimenti il ricorso deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse (cfr., ex multis, T.A.R. Lombardia, Milano, II, 2 maggio 2018, n. 1191; 15 marzo 2018, n. 731; 30 giugno 2017, n. 1471; 14 marzo 2017, n. 621; 26 luglio 2016, n. 1501)” (così il punto 4).

III. L’orientamento giurisprudenziale1 sposato dalla II – al pari della III – Sezione di Palazzo Gussoni poggia sulle seguenti argomentazioni:
a) la mancata pronuncia sull’asserita illegittimità non arreca alcuna lesione al destinatario del provvedimento, in quanto legittimato a proporre una domanda risarcitoria autonoma, evitando così di limitare la cognizione del giudicante di quest’ultima sopra un elemento essenziale per conseguire il risarcimento (cfr. TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 14.12.2015, n. 2635);
b) un astratto interesse risarcitorio, anche a seguito dell’avvenuta valorizzazione del danno non patrimoniale, sarebbe configurabile nella quasi totalità delle controversie, con conseguente eliminazione delle pronunce di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, espressamente contemplate dall’art. 35, comma 1, lett. c., c.p.a.;
c) il principio dell’autonomia dell’azione risarcitoria è positivizzato nell’art. 30 c.p.a. (cfr. Ad. plen. 23.03.2011, n. 3);
d) la declaratoria di illegittimità dell’atto costituirebbe “di per sé un risultato svantaggioso per l’amministrazione, perché compressivo del principio di stabilità degli atti amministrativi, e potenzialmente idoneo a determinare l’insorgere di obblighi conformativi” (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 14.03.2017, n. 621), ingiustificata afflizione allorquando manchi una utilità
concreta e attuale per il ricorrente alla relativa pronuncia;
e) la definizione nel merito della controversia – sempre, senza alcuna eccezione – potrebbe rivelarsi inutile, dal momento che parte ricorrente potrebbe non proporre successivamente alcuna domanda risarcitoria (TAR Lombardia, Milano, Sez. III, 14.12.2015, n. 2635; TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 27.06.2016, n. 199);
f) se in seguito ad una generica indicazione di parte ricorrente il giudice dovesse verificare la sussistenza di un interesse ai fini risarcitori verrebbe svalutato anche il principio dispositivo, che informa anche il giudizio amministrativo, “precludente la mutabilità ex officio del giudizio di annullamento, una volta azionato (Consiglio di Stato, sez. V, 28/02/2018 n. 1214; Cons. Stato, Ad. plen., 13 aprile 2015, n. 4)” (C.d.S., Sez. III, 8.10.2018, n. 5771);
g) infine, il mancato accertamento dell’illegittimità ai fini risarcitori, in mancanza della presentazione formale di una specifica domanda, potrebbe giovare anche al ricorrente, che potrebbe far valere nel successivo giudizio ulteriori e diversi profili di illegittimità non lamentati in precedenza (cfr. TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 11.01.2012, n. 5).

IV. Col che, ritornando alla fattispecie concreta, se il ricorrente avesse segnalato genericamente la permanenza dell’interesse di natura risarcitoria soltanto con la memoria ex art. 73 c.p.a., la dichiarata improcedibilità sembrerebbe – nonostante affiori qualche dubbio rammentando le parole dell’Adunanza plenaria n. 4/2015, secondo cui “(anche se in vero, essa [la domanda risarcitoria] potrebbe solo essere annunciata e proposta in sede successiva)” – quasi allineata con l’illustrata interpretazione restrittiva dell’art. 34, comma 3, c.p.a.
Sennonché, è verosimile che parte ricorrente avesse manifestato un tanto anche nella memoria depositata l’11.12.2018, aderendo all’invito di cui all’ordinanza presidenziale n. 762/2018 di riferire sulla permanenza dell’interesse alla decisione di merito, circostanza della quale non si rinviene traccia nella commentanda pronuncia, ma tutt’altro che irrilevante, in quanto conferente maggior “concretezza” all’annunciato interesse.
Né si potrebbe desumere una progressiva dissolvenza dell’interesse in ragione al tempo trascorso dall’instaurazione del giudizio: diversamente opinando, infatti, “verrebbe violato un fondamentale principio che governa i rapporti tra processo e scorrere del tempo, quello secondo cui il tempo necessario alla definizione del giudizio non può tradursi in un pregiudizio al ricorrente che ha ragione” (C.d.S., Sez. VI, 15.09.2015, n. 4281): e ciò, senza dimenticare che l’incertezza protrattasi per oltre tre lustri costituisce già di per sé una lesione della sfera giuridica soggettiva del privato. Lungaggine del procedimento giudiziale non imputabile al privato istante, evitabile solamente con la richiesta di misure cautelari, oppure la presentazione di istanze di prelievo, ma soltanto nelle stringenti ipotesi in cui sussistano le ragioni che giustifichino, rispettivamente, la loro concessione ovvero la sollecita fissazione dell’udienza di trattazione.
La formulazione letterale dell’art. 34, comma 3, c.p.a., del resto, preclude al Collegio di compiere un giudizio prognostico sulla probabile, o anche solo presumibile, fondatezza dell’adombrata futura domanda risarcitoria, ostandovi il fondamentale principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato racchiuso nell’art. 112 c.p.c., non derogabile nemmeno per esigenze di economia processuale (2).
Tanto più, che nella fattispecie concreta non sembrerebbe potersi escludere radicalmente che la parte privata non abbia conseguito un pregiudizio risarcibile, considerando che l’apposizione dell’avversata clausola ha certamente limitato la commerciabilità dell’immobile, nonché ridotto la sua idoneità a costituire una garanzia patrimoniale spendibile con gli istituti di
credito, stante la costante minaccia dell’espropriazione per un indennizzo inferiore al valore di mercato.

V. Alla luce delle peculiarità del caso concreto, in ragione alla chiara, tangibile e non equivoca dimostrazione della permanenza dell’interesse ad una pronuncia ai fini risarcitori, il giudicante avrebbe dovuto propendere per la lettura meno restrittiva della prefatta disposizione, aderendo a quell’orientamento giurisprudenziale valorizzante la circostanza che l’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato è parte integrante nel petitum di annullamento, rappresentandone un antecedente necessario (cfr. C.d.S., Sez. IV, 18.05.2012, n. 2916): di tal che, per l’applicazione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. sarebbe sufficiente che la parte dimostri “in termini dispositivi (impegnativi) e inequivoci3, il proprio perdurante interesse ad avere comunque
una decisione di merito sulla legittimità o illegittimità degli atti impugnati, fornendo in proposito un’adeguata motivazione che consenta alle controparti di contraddire sul punto e al giudice di formarsi in proposito un adeguato convincimento” (TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 4.05.2018, n. 181, e la giurisprudenza ivi citata, ricognitiva dei diversi orientamenti). Secondo la
lettura più ampia, la previsione dell’art. 34, comma 3, c.p.a. sarebbe addirittura una conseguenza fisiologica della sopravvenuta inutilità dell’annullamento, automatica riduzione del petitum che non necessita di una specifica istanza dell’interessato (4) (cfr. C.d.S., Sez V, 12.05.2011, n. 2817; Sez. VI, 18.07.2014, n. 3848; Sez. V, 28.07.2014, n. 39975).

Orbene, al di là di quest’ultima lettura che ravvede un automatismo nella littera legis che, tuttavia, sembra distanziarsi eccessivamente dal principio dispositivo, appare preferibile l’interpretazione che rinviene nella discutenda disposizione codicistica l’avallo “ad una sorta di conversione dell’azione, da quella costitutiva di annullamento (ex art. 2908 del codice civile) a quella di accertamento (secondo il meccanismo processuale noto tradizionalmente come “emendatio libelli”), seppure ad istanza di parte”, (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 16.03.2015, n. 720; cfr. TAR Molise, Campobasso, Sez. I, 13.03.2015, n. 97), eventualmente prodromica ad una futura azione di risarcitoria.

E ciò, a ben vedere, appare anche più coerente con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, dal quale discende l’ammissibilità di azioni di accertamento anche atipiche (cfr. Ad. Plen. 28.07.2011, n. 15).
Del resto, l’accertamento ex art. 34, comma 3, c.p.a. non condurrebbe mai all’automatico accoglimento della futura azione risarcitoria, in quanto l’illegittimità “non fonda una forma di responsabilità oggettiva che prescinda dall’accertamento della colpevolezza” (C.d.S., Sez. IV, 3.09.2019, n. 6076), ergo non pregiudicherebbe la pubblica difesa; all’incontro, potrebbe rappresentare anche una mera utilità strumentale o morale per parte ricorrente6, per la quale appare spesse volte difficile comprendere che la successiva azione dell’amministrazione, provocando l’inutilità di una pronuncia nel merito, possa vanificare totalmente la spiccata azione (7).
VI. Prima di avviarsi verso le conclusioni, è bene accennare ad un ulteriore profilo della commentanda sentenza che ingenera perplessità.

La mancata reiterazione del vincolo espropriativo avrebbe determinato la sopravvenuta inefficacia dell’atto d’obbligo impugnato, cessazione degli effetti da pubblicizzare con la trascrizione della pronuncia giudiziale presso la Conservatoria dei registri immobiliari a margine del prefato atto d’obbligo.
Sennonché, se all’effetto pratico il risultato conseguito è il medesimo, la sopravvenuta inefficacia dell’atto d’obbligo non equivale alla sua dichiarazione di nullità ovvero all’annullamento – aventi efficacia ex nunc – dal momento che salvifica la sua efficacia dall’adozione sino alla trascrizione della epigrafata pronuncia. E ciò, induce addirittura a dubitare della dichiarata
improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, non essendo venuta meno qualsiasi residua utilità della pronuncia sulle domande azionate (cfr.
C.d.S., Sez. V, 23.06.2014, n. 3138).

VII. Tirando le fila del discorso, la dichiarata improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse non appare condivisibile, laddove penalizza eccessivamente parte ricorrente dimostrante, in modo chiaro e inequivoco, più volte per iscritto ed in sede di discussione, la sussistenza dell’interesse all’accertamento dell’illegittimità ai fini risarcitori.
Ciò detto, l’esistenza di tre diversi orientamenti giurisprudenziali, sorretti da argomentazioni parimenti persuasive e ragionevoli, dovrebbe sospingere il legislatore ad intervenire sulla formulazione letterale dell’art. 34, comma 3, c.p.a., per esempio introducendo l’espressione “una dichiarazione di” prima di “interesse ai fini risarcitori”, aderendo così alla sopra illustrata posizione intermedia, che appare avere il pregio di coniugare, da un lato, l’esigenza di ridurre i tempi del giudizio, evitando che l’attività processuale svolta venga vanificata e, dall’altro, di non gravare inutilmente il giudice amministrativo con attività fine a se stessa.

Sergio Antoniazzi

Sentenza T.A.R. Veneto 1095_2019

 

1 Per l’elencazione dei più recenti pronunciamenti conformi si veda TAR Lombardia, Milano, 1.07.2019, n. 1516.

2 Un tanto induce a far dubitare di alcuni pronunciamenti che onerano parte ricorrente di prospettare “almeno per sommi capi il danno di cui intende chiedere il ristoro in separato giudizio, deducendo, quantomeno in nuce, gli elementi strutturali della fattispecie di danno ingiusto, sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo” (TAR Veneto, Sez. III, 26.03.2018, n. 341),
pretendendo così di saggiare il presumibile esito della non ancora incardinata azione risarcitoria.
Nel medesimo senso, TAR Toscana, Firenze, Sez. III, 24.08.2015, n. 1184, che non procede ai sensi dell’art. 34, comma 3, c.p.a., in quanto “l’interesse risarcitorio che dovrebbe sorreggere la pronuncia di accertamento è stato manifestato in termini del tutto generici che non consentono al Collegio di vagliarne l’effettiva sussistenza e plausibilità”.
E, ancora, C.d.S., Sez. V, 28.02.2018, n. 1214, secondo cui, oltre ad una esplicita riserva, occorre che il ricorrente “abbia allegato compiutamente i presupposti per la successiva proposizione dell’azione risarcitoria od abbia, almeno, comprovato, sulla base di elementi concreti, il danno ingiustamente subito (in termini, tra le tante, Cons. Stato, V, 15 marzo 2016, n. 1023)”.

3 Sul punto, è d’uopo richiamare anche C.d.S., Sez. V, 24.07.2014, n. 3939, secondo cui “condizione imprescindibile per rendere operativa la norma in argomento è che emerga la reale e inequivoca intenzione del ricorrente di ottenere una pronuncia di accertamento della sola illegittimità del provvedimento, anche se non tradotta in formule sacramentali e perché ciò accada è sufficiente che il ricorrente manifesti una tale intenzione in qualunque fase del processo, anche in appello”.
4 Secondo autorevole dottrina, nell’ipotesi di mancata richiesta espressa di parte ricorrente, l’art. 34, comma 3, c.p.a. sarebbe applicabile “se si ritiene che tale norma contempli un potere officioso del giudice”; non applicabile “se si ritiene che la norma contempli una autonoma azione di accertamento, subordinata al principio della domanda” R. DE NICTOLIS, Processo Amministrativo, Formulario Commentato, 2019, p. 1419.
5 Dirimente sarebbe la scelta semantica del nomeoteta, in quanto “Impiegando una locuzione di natura vincolante (“accerta”) e non già potenziale, il legislatore ha lasciato senz’altro intendere che la scelta sulla conversionedella domanda proposta da domanda di annullamento a domanda di accertamento non presupponga l’istanza di parte, costituendo la seconda
(domanda di accertamento) un minus rispetto alla prima (domanda di annullamento) e, come tale, una richiesta già implicitamente formulata”.
6 Cfr. C.d.S., Sez. V, 14.04.2016, n. 1490.
7 I cui costi non potranno certamente essere addossati all’amministrazione resistente, considerando che il mancato esame del merito del giudizio impedisce di identificare una parte soccombente.

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