I. In fatto
La sentenza in commento affronta il tema del divieto di detenzione di armi previsto dall’art. 39 T.U.L.P.S.
Il ricorrente – in servizio presso Forze armate – esponeva di essere stato raggiunto da un provvedimento con cui il Prefetto gli confermava il divieto di detenere armi, munizioni e materie esplodenti.
Rappresentava di aver chiesto la revoca del divieto citato, allegando puntuale documentazione.
La Prefettura esperiva accertamenti, cui si aggiungeva una comunicazione del Tiro a Segno Nazionale.
Veniva notificata la comunicazione di avvio del procedimento amministrativo di conferma del divieto e il ricorrente
presentava memoria difensiva.
Anche la Questura faceva recapitare il proprio parere con cui informava il Prefetto di essersi determinata per la revoca delle licenze di polizia, prendendo altresì atto che il direttivo del Tiro a Segno Nazionale aveva disposto l’impedimento dell’accesso al ricorrente presso i locali della Sezione atteso il grave mancato rispetto delle norme di sicurezza.
Il decreto prefettizio, alla luce di tanto, confermava il divieto di detenzione di armi.
Il ricorrente adiva il T.A.R. Veneto.
Il Ministero dell’Interno si costituiva in giudizio contestando le deduzioni avversarie e chiedendo la reiezione del gravame.
Dopo la discussione in udienza pubblica, il Collegio si riservava e tratteneva la causa in decisione.
Con la sentenza in esame, il T.A.R. rigettava il ricorso, compensando, però, le spese, per la peculiarità della vicenda.

II. Le principali questioni giuridiche – art. 39 T.U.L.P.S. in relazione agli artt. 11 e 43 del Testo Unico
La sentenza appare di particolare significato perché affronta le principali questioni giuridiche sottese al rilascio, alla revoca del porto d’armi e al divieto di detenerne, fornendo una motivazione puntuale, in fatto, e articolata, in diritto, e attraversando i più recenti approdi giurisprudenziali in materia.
Ai sensi dell’art. 39 T.U.L.P.S. il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, assegnando all’interessato un termine di 150 giorni per l’eventuale cessione a terzi, che, se non operata, comporta la confisca. Nel medesimo termine l’interessato deve comunicare al Prefetto l’avvenuta cessione. Nei casi di urgenza, vi è un ritiro immediato delle armi, in via cautelare.
L’articolo 39 del T.U.L.P.S. non specifica le ragioni per le quali il Prefetto può adottare il provvedimento di divieto di talché, per rinvenirle, è necessaria un’analisi complessiva e sistematica dell’intero apparato normativo.
I parametri di riferimento diventano, quindi, gli articoli 11 e 43 T.U.L.P.
L’art. 11 elenca tutta una serie di ipotesi in cui le autorizzazioni di polizia (tra cui il porto d’armi) devono o possono essere negate. Tra le prime si annoverano le condanne a pena detentive superiori a tre anni per delitto non colposo e la dichiarazione di delinquente abituale, professionale o per tendenza. Tra le seconde troviamo le condanne per delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico, ovvero per delitti caratterizzati da violenza contro le persone (ad esempio lesioni, rapina, estorsione, sequestro di persona).
A queste specifiche ipotesi – distanti da apprezzamenti di merito – se ne aggiungono altre che invece consentono, e al contempo abbisognano, di un giudizio discrezionale da parte dell’Amministrazione.
Infatti, il terzo comma dell’art. 11 T.U.L.P.S. stabilisce che “le autorizzazioni devono essere revocate quando nella persona autorizzata vengono a mancare, in tutto o in parte, le condizioni alle quali sono subordinate, e possono essere revocate quando sopraggiungono o vengono a risultare circostanze che avrebbero imposto o consentito il diniego della autorizzazione”.
Le due ipotesi evidenziano l’ampio potere in capo alle Autorità di Pubblica Sicurezza nell’adozione degli atti di rilascio e di revoca in materia di armi e, pur essendo state oggetto di plurime eccezioni di incostituzionalità, sono rimaste pressoché indenni dal 1931 ad oggi[1]

L’ultima parte del secondo comma dell’art. 11 è stata dichiarata illegittima laddove poneva a carico dell’interessato provare la sua buona condotta2, diversamente, per il terzo comma succitato, la Consulta si è espressa per l’infondatezza delle questioni sollevate, sollecitando i magistrati ad una lettura costituzionalmente orientata.
Stesso dicasi per l’art. 43 T.U.L.P.S. che completa l’art. 11, prevedendo le ulteriori circostanze in cui non può essere concessa la licenza di portare armi, con l’aggiunta di altre condanne ostative (es. resistenza o violenza a pubblico ufficiale).
Interessante, anche in questo articolo, è il comma di chiusura perché introduce il pericolo di abuso delle armi e il concetto di inaffidabilità, concetti nettamente discrezionali.
Delineato il quadro, si comprende che il provvedimento di cui all’art. 39 T.U.L.P.S. potrà essere adottato qualora ricorrano una o più delle ipotesi stabilite dal combinato disposto degli
articoli 11 e 43 del medesimo Testo Unico.
Nulla quaestio in ipotesi di condanna per uno dei delitti menzionati dalle norme.
I problemi sorgono quando, come nella specie, il Prefetto si avvalga delle formule discrezionali del venir meno dei requisiti (art. 11 ultimo co.) o del possibile uso improprio del titolo (art. 43 ultimo co.). Ebbene, l’Amministrazione, per compensare l’ampio margine valutativo concessole, nell’elaborazione del proprio giudizio prognostico sfavorevole, è tenuta a specificare gli elementi fattuali raccolti nella propria istruttoria e il loro preciso peso nell’emissione della determinazione preclusiva.

L’esposizione dell’iter logico-giuridico è parte integrante del provvedimento onde consentire, all’interessato, l’esercizio del proprio diritto di difesa e, al giudice amministrativo, l’eventuale vaglio giudiziario.
La pronuncia esaminata non muove nessuna censura al percorso motivazionale del provvedimento impugnato, poiché in esso erano ravvisabili tutti gli elementi fattuali rilevanti al fine del
decidere, emersi dall’istruttoria.

III. L’attualità del pericolo di abuso di armi – l’obbligo motivazionale in ipotesi di delitti commessi senza armi
Al contrario, secondo il T.A.R., il provvedimento peccava in punto di attualità del possibile abuso delle armi, riferendosi solo ad episodi risalenti ad oltre dieci anni prima.
Ricordava il Collegio che, secondo consolidata giurisprudenza, un ragionevole dubbio di abusare degli strumenti di offesa è sufficiente per vietarne la detenzione, ma questo deve pur sempre fondarsi su circostanze attuali, qui insussistenti.
Il T.A.R., facendo proprio un costante orientamento di merito, rileva che non tutti i fatti puniti penalmente sono alla pari significativi ai fini dell’applicazione dell’art. 39 del Regio decreto 18 giugno 1931, n. 773. E’ evidente che un reato commesso con l’uso (o l’abuso) di armi denota un’inaffidabilità del soggetto ictu oculi, mentre, quanto più ci si allontana da detta ipotesi, tanto più risulterà stringente l’obbligo motivazionale del provvedimento.
Nel caso analizzato, il Prefetto aveva addotto una motivazione deficitaria, sia nell’individuazione delle situazioni, sia nella declinazione delle fonti di accertamento.

Tuttavia, la fondatezza delle due critiche articolate dal
ricorrente non gli hanno permesso di ottenere l’annullamento
del decreto di divieto impugnato.

IV. L’interesse pubblico e l’insussistenza di un diritto soggettivo alla detenzione e al porto d’armi
La ragione del rigetto del ricorso risiede nella valorizzazione di ulteriori elementi indicati dal resistente, quali la violazione del dovere di correttezza e il preminente interesse pubblico, registrate nel provvedimento avversato.
Rileva il Collegio che l’Autorità di Pubblica Sicurezza persegue la finalità di prevenire la commissione di reati o anche solo di fatti lesivi dell’ordine pubblico e gode di un’ampia discrezionalità nel valutare se una persona sia affidabile nel fare buon uso delle armi.
Nel nostro ordinamento, infatti, non è contemplato un diritto soggettivo con riguardo alla detenzione e al porto di armi, che rappresentano delle eccezioni al generale divieto di cui all’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, L. 110/1975.
La facoltà di detenere e portare strumenti di offesa, ricorda il T.A.R. nella sentenza analizzata, corrisponde ad un interesse del privato ritenuto cedevole di fronte al ragionevole sospetto di un uso improprio della facoltà medesima. L’esigenza di prevenire rischi per l’incolumità collettiva prevale sulla richiesta del singolo.
Questa è la ratio che impone al beneficiario di essere al di sopra di ogni sospetto e, al contempo, consente all’Amministrazione di negare la detenzione e il porto d’armi anche in presenza di segni di pericolosità o di semplici indici di inaffidabilità.

Nel caso in esame, il T.A.R., con argomentazione logica e giuridicamente condivisibile, ha ritenuto incensurabile il provvedimento prefettizio, che aveva fatto divieto di detenzione di armi ad un soggetto appartenente alle forze armate, per il quale, quindi, si ponevano esigenze massime di affidabilità per motivi connessi al delicato ruolo ricoperto.

V. Problematiche connesse all’ampia discrezionalità di cui gode l’Autorità di Pubblica Sicurezza in materia di armi
Semplificando, il sillogismo che vige nel settore è il seguente: l’Amministrazione preserva il preminente bene della sicurezza pubblica; il porto d’armi non è un diritto soggettivo, ma solo un interesse soggettivo; ne deriva che, in situazioni di rischio, l’esigenza del singolo possa essere legittimamente limitata e financo negata dall’Autorità di Pubblica Sicurezza cui è riservata “l’individuazione della soglia di emersione delle ragioni impeditive della detenzione degli strumenti di offesa” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 22 agosto 2018 n. 5015).
L’ampia discrezionalità dell’Amministrazione e la sua autoindividuazione dei limiti trova fondate ragioni di esistere negli ambiti professionali, rispondendo alla precipua esigenza pubblica che un soggetto operante con strumenti di offesa fornisca protezione alla collettività e non rappresenti esso stesso un pericolo per gli altri consociati.
Come ribadito dal Consiglio di Stato (III sez., sent. 2.7.2014, n. 3341), per revocare una licenza in materia di armi o disporre il divieto di detenzione, “non occorre un oggettivo ed accertato abuso, bastando una erosione anche minima del requisito della totale affidabilità del soggetto”.

Il tema delle armi, però, non si esaurisce nell’ambito delle Forze dell’Ordine e nell’utilizzo per ragioni di servizio, ma si estende anche all’uso venatorio e a quello sportivo.
In tali settori, margini di accertamento e di verifica così ampi e penetranti in capo all’Autorità di Pubblica Sicurezza possono talvolta confinare con l’arbitrio.
Potrebbero profilarsi violazioni dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione perché l’assenza di specifiche indicazioni legislative sull’affidabilità del soggetto richiedente comporta che la determinazione di tale requisito sia demandata alla sola Autorità di Pubblica Sicurezza.
Di conseguenza, per quanto possano e si siano consolidati filoni interpretativi giurisprudenziali di tipizzazione del requisito di affidamento nell’uso delle armi, residuano zone di assoluta incertezza sui parametri utilizzati dalla Amministrazione per valutare la sussistenza di tale requisito.
Il rischio è quello di impedire al privato di esercitare appieno il proprio diritto di difesa nel procedimento amministrativo causa la varietà dei parametri di verifica dai quali può scaturire la decisione preclusiva.

VI. Conclusioni
La sentenza in esame ha permesso di analizzare l’istituto del divieto di detenzione delle armi anche nelle sue declinazioni alternative e parallele di revoca del titolo.
E’ stata l’occasione per riscontrare nuovamente che il privato non è titolare di un diritto soggettivo e che le preminenti esigenze di salvaguardia dell’ordine pubblico e della tranquilla convivenza della collettività, da un lato, riconoscono alle Autorità di Pubblica Sicurezza un ampio potere discrezionale e, dall’altro, impongono al beneficiario di assicurare, con la propria condotta, una completa sicurezza circa il “buon uso” delle armi.
In questo settore – e a fortiori nell’ambito venatorio e sportivo, ove il rischio di abuso dell’arma appare astrattamente inferiore rispetto ad un contatto costante insito nell’utilizzo lavorativo – le decisioni dell’Amministrazione di tipo preclusivo devono presentare un’adeguata motivazione.
E’ pur vero che permane il baluardo del vaglio giudiziale di ogni provvedimento, tuttavia l’esistenza di un indirizzo giurisprudenziale e dottrinale non ha sempre effetti concreti sulla prassi amministrativa di larga scala, permanendo in capo alle Autorità di Pubblica Sicurezza il compito – lasciato loro dall’indeterminatezza del dettato normativo – di riempire di contenuto i presupposti quali l’affidamento nell’uso delle armi. E’ evidente, infatti, che nel nostro apparato legislativo non vi siano né canoni predeterminati cui la Pubblica Autorità debba uniformarsi, né modalità specifiche con cui il privato possa ricondurre a proprio favore la decisione amministrativa.
Ciò ha gravi ripercussioni sull’onere probatorio che incombe sul privato poiché contrastare una situazione fondata su criteri generici e indefiniti può, appunto, neutralizzare un controllo effettivo sulla motivazione amministrativa.
Fin tanto che non vi sarà un intervento legislativo in materia, è dunque indispensabile che si consolidino indirizzi giurisprudenziali incisivi e capaci di limitare o meglio delimitare il potere ampiamente discrezionale riconosciuto alle Autorità di Pubblica Sicurezza.
L’Amministrazione, sotto questa spinta, dovrà emettere provvedimenti con motivazioni non solo logiche, ma anche congrue, verificando la presenza o meno sia di requisiti negativi, sia di ragioni positive, mai trascurando lo scopo di prevenire abusi dei titoli di polizia, a tutela della privata e pubblica incolumità.
Pur non essendo necessario che l’Autorità di P. S. accerti un abuso delle armi, né esprima un giudizio di pericolosità sociale, è comunque indispensabile che consideri l’attualità della circostanza ritenuta rilevante, così come che argomenti in maniera tanto più esauriente quanto più ci si allontana da reati commessi con l’uso (o l’abuso) delle armi.
Non va mai dimenticato, infatti, che l’accertamento operato dalla Pubblica Autorità per un divieto di detenzione o una revoca del porto d’armi deve soddisfare uno specifico fine cautelare e di prevenzione e non può trasmodare in attività sanzionatoria o punitiva, pena lo sconfinamento nell’arbitrio.
In caso contrario, considerato che il Legislatore utilizza formule generiche, come quelle che compaiono agli artt. 11 e 43 del T.U.L.P.S., qualora le Autorità Giudiziarie si fermassero a
una mera verifica della non irrazionalità o arbitrarietà del provvedimento, senza approfondirne le ragioni sottese, si rischierebbe di far rientrare dalla finestra ciò che era uscito
dalla porta, ossia onerare l’interessato della prova della sua buona condotta sotto le mentite spoglie dell’inaffidabilità nell’uso delle armi. Uno scenario che gli operatori del diritto sapranno evitare, promuovendo un proficuo dialogo con l’Autorità di Pubblica Sicurezza per l’applicazione, eventualmente anche in sede giudiziaria, dei più illuminati orientamenti giurisprudenziali.

Valentina Mazzucco

Sentenza n. 1014_2019

 

[1] La Corte Costituzionale, con ord. 13-21 novembre 1997, n. 361, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 11 e 43, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 97 Cost. La Consulta, con sent. 10-17 luglio 1995, n. 326 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 11, III c., e 138, I c., numero 4, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. Con sentenza 10-17 dicembre 1997, n. 405, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 11, ultimo c., e 138, I co., numero 4, sollevata in riferimento agli artt. 3, 4 e 35 Cost.

[2]  Sentenza Corte Costituzionale 2-16 dicembre 1993, n. 440 anche per l’art. 43 T.U.L.P.S.

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