Recentemente il T.A.R. di Venezia si è più volte soffermato sulla decorrenza del termine per sottoporre a impugnativa l’esito di una gara, emanando una serie di sentenze tutte decisamente orientate nel ritenere prevalente l’interesse pubblico ad una sollecita definizione del giudizio, a discapito dell’interesse del privato di disporre di adeguati spazi di difesa.

Le statuizioni suddette si fondano sul presupposto per cui in materia di appalti il legislatore, introducendo un rito accelerato connotato da marcati tratti di specialità (impossibilità di impugnare gli atti con ricorso straordinario al Capo dello Stato; dimidiazione di tutti i termini processuali; svolgimento e definizione del giudizio improntati alla massima celerità; fissazione a breve dell’udienza di merito anche in caso di rigetto dell’istanza cautelare) ha inequivocabilmente optato per considerare che il “termine di impugnazione di cui all’art. 120, comma 5, c.p.a. decorra dalla data di conoscenza o conoscibilità dell’aggiudicazione e degli atti presupposti e non dalla data di effettiva conoscenza dei vizi” (sez. Terza, sentenza n. 1357 del 12.12.2016).

Quanto sopra è stato ulteriormente ribadito da successive pronunce rese nel primo semestre del corrente anno: “Ne deriva che il termine di 30 giorni per proporre ricorso deve essere fatto decorrere, al più tardi, da tale data … in cui tutti gli atti di gara sono stati resi conoscibili, rimanendo irrilevante la circostanza che l’accesso si sia o meno verificato in quel giorno…. così come resta ininfluente il fatto che l’estrazione di copia degli atti di gara sia stata consentita dal Comune solo il successivo …. in quanto, per consolidata giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato sez. V, 3 febbraio 2016 n. 408, 23 settembre 2015, n. 4443 e 13 marzo 2014, n. 1250) condivisa da questo Collegio, la conoscenza/conoscibilità utile ai fini della decorrenza del citato termine non si realizza necessariamente mediante l’estrazione di copie, essendo sufficiente la mera visione della documentazione” (sez. Prima, sentenza n. 422 del 28.04.2017).

In un successivo arresto, il Tribunale Amministrativo veneziano ha avuto modo di precisare, questa volta in senso favorevole al ricorrente, che “non può desumersi la “piena conoscenza” su mere supposizioni o deduzioni, pur sorrette da apprezzabili argomentazioni logiche, dovendo la stessa essere supportata da elementi oggettivi” (sez. Prima, sentenza n. 471 del 15.05.2017): nella fattispecie, oggetto di discussione non era se la conoscenza piena dell’esito della gara comprendesse tutti gli elementi dell’aggiudicazione – e, quindi, l’esistenza di validi motivi di ricorso da sollevare -, bensì se il ricorrente partecipante (e aggiudicatario uscente) avesse raggiunto la predetta condizione già quando un proprio addetto si era recato presso la P.A. per il cd. “ritiro degli scatoloni”, in momento antecedente a quello di formale comunicazione dell’esito della gara.

Nel caso dianzi esaminato, il T.A.R. ha ritenuto – e ci si permette di aggiungere, in maniera più che condivisibile – che al momento dell’accesso fisico del proprio addetto presso gli uffici della P.A. appaltante non poteva considerarsi raggiunta la “piena conoscenza”, giacché al massimo “l’Associazione ha avuto solo sentore del risultato della gara, ma senza poter acquisire cognizione degli elementi essenziali, né del contenuto dispositivo del provvedimento di aggiudicazione, per essa lesivo. Viste le peculiarità in fatto della vicenda … non appare plausibile imporre all’Associazione un onere di impugnativa “al buio” dell’esito della gara: ciò, tanto più per l’imprescindibile necessità – ove si ammettesse una simile opzione – della successiva proposizione di motivi aggiunti ad opera della stessa ricorrente, sicché la tutela giurisdizionale di questa sarebbe ab initio vulnerata dalla sua rilevante onerosità” (sentenza n. 471.2017 cit.)

Si segnala, da ultimo, la pronuncia dello scorso giugno, in asserito dissenso rispetto all’arresto testé esaminato, per cui “solo dalla piena conoscenza della aggiudicazione, quale atto conclusivo della procedura selettiva – piena conoscenza che nel caso di specie risulta acquisita dalla ricorrente soltanto a seguito della comunicazione (ex art. 76 del codice dei contratti) del provvedimento dirigenziale … adottato dalla stazione appaltante -, decorrono i termini per l’impugnazione dell’aggiudicazione. Non si concorda, dunque, con l’orientamento al quale sembra avere aderito TAR Veneto, I, 15.5.2017 n. 471 secondo cui “assume rilevanza l’effettiva piena conoscenza dei provvedimenti stessi, ancorché sia acquisita in fase di seduta pubblica o in un’altra circostanza”, anche prima che l’aggiudicazione sia formalizzata con provvedimento dell’organo competente” (sez. Terza, sentenza n. 584 del 20.06.2017).

Dal complessivo esame delle pronunce sopra richiamate, emerge con evidenza che in seno al T.A.R. per il Veneto sussiste, tutt’al più, un dibattito aperto circa il momento da ritenere rilevante per il privato perché possa ritenersi realizzata la condizione di piena conoscenza di “aver perso la gara”, tra un estremo di considerare potenzialmente rilevanti anche momenti antecedenti alla formale comunicazione dell’esito e la posizione, più moderata, ancorata alla rilevanza di quest’ultima.

Non risultano, invero, margini di discussione nel senso di ricondurre la “piena” conoscenza a tutti gli atti dell’aggiudicazione e, quindi, alla consapevolezza della regolarità e legittimità degli atti di gara, ossia di “averla persa legittimamente e/o giustamente”.

Se, da una parte, detto orientamento può garantire l’interesse pubblico alla sollecita definizione dei gravami (e, quindi, alla definitività degli esiti della gara), dall’altra sacrifica evidentemente il diritto di difesa del privato, consacrato (peraltro) dall’art. 24 della Costituzione.

Conseguenza ineluttabile di quanto sopra è, difatti, il costringere il privato a radicare ricorsi senza aver apprezzato adeguatamente la sussistenza di margini per un loro accoglimento, onde non sentirseli dichiarare irricevibili, e notificare successivamente motivi aggiunti sulla base dell’intero esame degli atti di gara (o alternativamente rinunciarvi, una volta effettivamente verificato che non vi erano vizi da censurare); chiaramente con ciò sobbarcandosi tutti i relativi e cospicui oneri, comprensivi dei considerevoli importi a titolo di contributo unificato previsti dalla legge.

Ci si permette di esaminare, quindi, le criticità emergenti da un siffatto quadro.

In primo luogo, non sembra pienamente coerente con la ratio legis di ridurre al minimo il contenzioso degli appalti pubblici ed i tempi per la definitività degli esiti delle gare, il costringere i partecipanti alla gara non aggiudicatari a esperire gravami senza conoscere se effettivamente vi sono elementi da censurare: in altre parole, si creano così le condizioni perché vengano depositati ricorsi sì tempestivi, ma anche tutti potenzialmente infondati, così nel frattempo rendendo comunque incerto l’esito della gara; senza considerare, altresì, il contestuale aggravamento dei ruoli dei Tribunali Amministrativi, già da tempo sovraccarichi di arretrati.

In secondo luogo, come accennato, viene evidentemente sacrificato il diritto del privato ad adire il Giudice Amministrativo, già da tempo provato nel settore di cui si discute.

Come giustamente osservato da altro orientamento della giurisprudenza amministrativa, “Non si può, infatti, esigere sempre che un concorrente abbia un quadro chiaro delle lacune tecniche dell’offerta vincitrice già al momento della comunicazione dell’aggiudicazione, e neppure che una tale chiarezza di visione si formi in pochi giorni. Quando si tratta di dettagli complessi il ritardo nella notifica del ricorso si può ritenere dipendente da un grave impedimento di fatto, con la conseguente rimessione in termini ex art. 37 cpa” (cfr., T.A.R. Lombardia, sez. distaccata di Brescia, sez. II, 18/03/2013, n. 268).

Questa, del resto, sembra essere anche la prospettiva fatta propria dalla giurisprudenza comunitaria: “47. Al fine di soddisfare i requisiti indicati nella risposta alla prima questione, il giudice nazionale adito deve interpretare, per quanto possibile, le disposizioni nazionali relative ai termini di ricorso in maniera tale da garantire che detto termine decorra solo dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della violazione della normativa applicabile all’aggiudicazione dell’appalto pubblico in questione. 48. Qualora le disposizioni nazionali in questione non si prestassero a una simile interpretazione, tale giudice sarebbe tenuto, esercitando il proprio potere discrezionale, a prorogare il termine di ricorso in maniera tale da garantire al ricorrente un termine pari a quello del quale avrebbe usufruito se il termine previsto dalla normativa nazionale applicabile fosse decorso dalla data in cui egli era venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della violazione della normativa in materia di aggiudicazione di appalti pubblici” (cfr. Corte di Giustizia, Sez. III 28 gennaio 2010 C-406/08, Uniplex).

Con sentenza recente il Consiglio di Stato (sez. III, n. 1212 del 17.3.2017) ha ribadito, poi, che: “..la conoscenza dell’atto, per essere idonea a comportare la decorrenza del termine decadenziale, deve essere necessariamente piena, di modo che non è sufficiente che l’interessato sappia soltanto dell’esistenza dell’atto, ma è altresì indispensabile che quest’ultimo sia accessibile e conoscibile nella sua interezza, ovvero anche con riguardo alle motivazioni che hanno portato all’adozione dell’atto“.

Nel contesto che emerge dall’orientamento oggetto di esame, riconoscere l’onere di notificare ricorsi “al buio”, si traduce, di fatto, nell’incostituzionale aggravamento dell’accesso alla tutela giurisdizionale, laddove, in particolare, le Stazioni Appaltanti assumano comportamenti ostruzionistici nel negare in tempi rapidi l’accesso agli atti di gara, come sovente avviene nella pratica.

Si riporta, infine, il seguente condivisibile arresto del T.A.R. Umbria, che considera il concreto rischio a carico del privato nel caso di rigetto di ricorso e condanna alla sanzione prevista dalla legge per lite temeraria in materia di appalti: “Ritiene dunque il Collegio doveroso, allo stato attuale, il ripudio della tesi della sufficienza in ogni caso dell’informativa di cui all’art. 79 del D.Lgs. n. 163 del 2006 essendo invero indefettibile, in casi invero non infrequenti come in quello di specie, la necessità dell’accesso postumo alla documentazione di gara al fine della percezione della concreta lesività del procedimento di aggiudicazione. E ciò tanto più ove si consideri che nella materia degli appalti, la prassi dei ricorsi “al buio” con conseguente proposizione di motivi aggiunti, espone il ricorrente al rischio di coltivare un’azione manifestamente infondata, con il rischio di subire una condanna per lite temeraria ai sensi dell’art. 26 c. 2 cod. proc. amm., recentemente resa ancor più rigorosa per effetto del recente D.L. 24 giugno 2014, n. 90 il cui art. 41, con norma ad hoc per il rito appalti, prevede il possibile aumento dell’importo della sanzione pecuniaria sino all’uno per cento del valore del contratto, ove superiore al limite di cui al comma 1” (T.A.R. Umbria Perugia Sez. I, Sentenza del 9.9.2014, n. 448).

Si auspica, pertanto, che i Giudici Amministrativi veneziani possano considerare gli aspetti critici sollevati con il presente contributo, atteso, peraltro, che il T.A.R. Veneto stesso ha dichiarato espressamente ed apprezzabilmente la necessità di non costringere il privato a ricorsi “al buio”, eventualità che lede dal principio il diritto di difesa (sentenza n. 471.2017 cit.) in ragione dei rilevanti oneri fissati dalla legge per l’accesso alla tutela giurisdizionale in materia di appalti.

Giorgio Nespoli

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