Da lungo tempo e, in particolare, dopo la riforma operata dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 (quella stessa che avrebbe dato delega per la compilazione del codice del processo amministrativo), è diffuso parlare di una progressiva giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario.

In ragione di tutto ciò,  si applicano allo stesso rimedio alcuni istituti propri dei rimedi giurisdizionali: per l’esecuzione delle relative decisioni è ammesso il ricorso di ottemperanza, esperibile davanti al Consiglio di Stato; le stesse decisioni sono suscettibili di impugnazione in Corte di cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione; in seno al procedimento di decisione si ammette, giurisdizionalmente, che possa essere sollevata questione interpretativa in Corte di Giustizia, mentre la possibilità di sollevare le questioni di legittimità costituzionale è prevista dallo stesso art. 13, riformato, d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199.

È piuttosto dubbio, tuttavia, ipotizzare che tale indirizzo possa giungere a pieno compimento, sino ad affermare la natura effettivamente giurisdizionale del rimedio. A un tale esito mi pare che si oppongano l’art. 102, 2 comma e la VI disposizione transitoria e finale della Costituzione, concernenti rispettivamente il divieto della istituzione di nuovi giudici speciali e la revisione dei medesimi giudici che, nel 1948, erano già esistenti.

Una volta superata la tesi (alla quale anche la giurisprudenza non sembra conformarsi) secondo la quale il ricorso straordinario avrebbe rivestito carattere giurisdizionale da sempre (e quindi già da prima del 1948), un argomento utile a superare detti limiti costituzionali potrebbe, forse, essere avanzato, se si sostenesse che, in realtà, con la giurisdizionalizzazione del ricorso straordinario non si costituirebbe un nuovo giudice speciale, dal momento che la controversia sarebbe sostanzialmente decisa da un giudice che già esiste nel sistema italiano.

Esso, in realtà, sarebbe lo stesso giudice amministrativo, che ivi interviene per il tramite del parere vincolante reso dal Consiglio di Stato.

Se si avanzasse tale rilievo – l’unico a mio modo di vedere che potrebbe essere effettivamente  utilizzato contro le obiezioni di costituzionalità e che escluderebbe  l’insorgenza di un nuovo giudice speciale – si dovrebbe però riconoscere, a questo punto, che il ricorso straordinario – più che esprimere un rimedio autonomo – darebbe luogo, in realtà, a  una sorta di rito alternativo di svolgimento dell’ordinario processo amministrativo, a cui le parti deciderebbero volontariamente di aderire, rispettivamente con adesione espressa, da parte del ricorrente, all’atto della proposizione del gravame e, dalle altre parti, con l’omessa  opposizione nel termine di sessanta giorni dalla ricevuta notificazione del ricorso stesso.

Se così fosse, l’alternatività, dunque, non riguarderebbe l’esperimento di due rimedi per loro natura diversi e concettualmente autonomi (il ricorso giurisdizionale e il ricorso straordinario), ma riguarderebbe, invece, due diversi modi di svolgimento del processo amministrativo, unitariamente inteso, e del quale medesimo processo il rimedio straordinario costituirebbe una particolare forma di espressione.

Questa conclusione, tuttavia, sarebbe essa stessa foriera di ulteriori conseguenze, tali da mettere in evidenza alcune incongruenze.

 

La prima attiene al termine di impugnazione: se il ricorso straordinario fosse una sorta di rito alternativo – scelto volontariamente dalle parti – non si capirebbe, allora, perché debba valere un termine più lungo che per l’esperimento del ricorso ordinario. Il termine di impugnazione, infatti, attiene ai presupposti di ricevibilità della lite e questi non dovrebbero mutare per il semplice fatto che, nell’unitario processo amministrativo, le parti optino per un tipo di rito anziché per un altro. Tanto più ciò mi sembra che debba essere sostenuto perché il sindacato sulla tempestività del gravame è affidato al giudice che può esercitarlo d’ufficio, cosicché la relativa questione deve ritenersi sottratta alla disponibilità delle parti.

In secondo luogo, l’acquisizione di una effettiva natura giurisdizionale del ricorso straordinario porterebbe ad interrogarsi (ma forse già adesso sarebbe lecito farlo) sull’utilità di conservare il rimedio, visto che esso assolverebbe agli stessi scopi a cui attende il ricorso giurisdizionale ordinario.

Tanto più che la conservazione dell’istituto viene, per così dire, sostenuta e, si perdoni il termine, pagata attraverso la previsione di un più lungo termine di impugnazione, che, dunque, è tale da differire il raggiungimento dell’inoppugnabilità del provvedimento amministrativo e, quindi, la stabilizzazione dei suoi effetti.

Né, se davvero dovessimo intendere il ricorso straordinario alla stregua di un rito alternativo interno dal processo amministrativo, non si capirebbe perché mai questo dovrebbe essere previsto per i soli provvedimenti definitivi (quasi che il preventivo esperimento dei ricorsi amministrativi ordinari, ove previsto, debba svolgere una funzione sostitutiva del giudizio di primo grado al T.A.R.) ed anzi escluso in alcune parti del territorio nazionale (art. 7, d.P.R. 6 aprile 1984, n. 426: “Nelle materie di competenza della sezione autonoma di Bolzano [del Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa] non è ammesso il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica”).

Soprattutto, però –a parte la questione del termine di impugnazione (che porta a riconoscere nel ricorso straordinario il refugium peccatorum di chi si sia lasciato scadere il termine previsto dall’art. 29 c.p.a.) – l’utilità sostanziale del ricorso straordinario, verosimilmente, muterebbe e porterebbe a constatare che detto ricorso costituirebbe uno rito alternativo attraverso il quale le parti possono concordemente decidere di far dirimere la lite direttamente al Consiglio di Stato.

In un certo senso, perciò, il ricorso straordinario sarebbe una sorta d’impugnazione diretta al Consiglio di Stato, operata per saltum del giudizio che altrimenti dovrebbe essere ordinariamente celebrato davanti al Tribunale amministrativo in primo grado e, solo in un successivo momento, affidato, in grado di appello al Consiglio di Stato stesso.

Ma anche questa ricostruzione di quella che potrebbe essere l’effettiva funzione del ricorso straordinario (e che a me pare aderente alla realtà) non sarebbe priva di inconvenienti.

Nell’aderire al rito alternativo per saltum, le parti rinunciano, innanzitutto, all’udienza di discussione; il processo, in generale, vede una minore attività delle parti; vede una minore istruttoria e una ridotta effettività di contraddittorio.

Infine, la stessa tutela cautelare, benché oggi prevista (art. 3, comma 4, legge 21 luglio 2000, n. 205), è assai più complicata e in ogni caso meno tempestiva di quanto, per sua natura, dovrebbe essere (cosa che, unitamente alla più rallentata fase introduttiva, ha portato ad escludere il rimedio nelle controversie elettorali e in quelle sugli appalti).

Un ulteriore inconveniente di questa ricostruzione, tale da ricadere sui tempi della lite (prolungandoli), andrebbe poi riscontrata nei mezzi posti a tutela dei terzi pretermessi dal procedimento (che pur rivestano la qualità di parti necessarie). Costoro, infatti, contro una sentenza del Consiglio di Stato pronunciata all’esito del rito ordinario godrebbero del potere di agire in opposizione ex art. 108 c.p.a.  davanti al Consiglio di Stato stesso, proponendo una impugnazione in cui, accanto ad una autonoma fase rescindente, sarebbe tuttavia presente e ben definita anche una successiva fase rescissoria.

Di contro, ai medesimi soggetti terzi che volessero contestare la decisione del ricorso straordinario è, oggi, consentita l’impugnazione della decisione stessa davanti al giudice amministrativo di primo grado, ex art. 29 c.p.a. (e similmente a quanto previsto dall’art. 104 c.p.a. per i provvedimenti assunti in sede di giudizio di ottemperanza), così da allungare di un grado il corso del giudizio e così, per altro verso, da costringere a travisare da vizio di violazione di legge della decisione quello che, se fatto valere contro una sentenza, sarebbe più correttamente qualificabile come un vero e proprio error in iudicando.

Se, perciò, quella tratteggiata (vale a dire la sostanziale esperibilità di un ricorso diretto al Consiglio di Stato) fosse davvero l’unico motivo per mantenere l’istituto del ricorso straordinario, forse si potrebbe allora suggerire una diversa soluzione ricostruttiva, che mi permetto di esporre de iure condendo, nell’auspicio che possa essere tenuta in considerazione.

Propongo, cioè, che si abbandoni effettivamente il rimedio straordinario con tutti gli inconvenienti che esso per sua natura trascina con sé e di cui ho fatto un solo sommario cenno e propongo che lo si sostituisca con l’effettiva facoltà, per le parti necessarie del processo amministrativo e che sul punto siano tutte concordi, di poter far decidere direttamente la questione dal Consiglio di Stato, omettendo lo svolgimento del giudizio di primo grado.

Un tale risultato potrebbe essere ottenuto prevedendo un termine, decorrente  dalla notificazione del ricorso in primo grado, in cui alla parte resistente e controinteressata (a cui sia stato notificato il gravame) sia data la facoltà di aderire alla richiesta formulata dal ricorrente principale di trasferire la controversia direttamente al grado superiore; con la conseguenza che, per il caso in cui tale adesione fosse resa, il Tribunale, in camera di consiglio sarebbe chiamato a spogliarsi della competenza e a fissare un termine per la riassunzione del giudizio in Consiglio di Stato (con conservazione di una limitata efficacia temporale dei provvedimenti cautelari eventualmente assunti nel frattempo, similmente a quanto avviene per i casi di translatio iudicii e per i casi di riassunzione della lite all’esito di un’ordinanza del Tribunale che neghi la propria competenza).

In effetti, è comune constatare che vi sono determinate liti che, per il loro valore, per la loro importanza o per il grado di incertezza di cui sono rivestite, appaiono destinate sin dall’inizio al secondo grado, qualunque sia la sorte del giudizio di primo grado.

Per questa tipologia di liti, lo svolgimento del primo grado può talora sembrare, alle parti, come una sorta di tappa obbligata, ma solo relativamente utile, perché la lite comunque dovrebbe essere decisa in secondo grado.

Il che comporta, da un punto di vista dell’economia del sistema processuale nel suo complesso, che anche i Tribunali vengono chiamati a rendere una sentenza che è essa stessa scarsamente utile (per di più in materia verosimilmente complessa), sì da sottrarre tempo e energie che potrebbero, invece, essere dedicati alla trattazione di altre controversie.

Per altro verso, va aggiunto che (a differenza di quanto vale per il processo civile in cui l’impugnazione per cassazione omisso medio implica che tutte le parti siano concordi sul modo con cui il giudice di primo  grado abbia accertato i fatti) il Consiglio di Stato è pienamente signore dei fatti della causa e che il suo sindacato – nell’attuale struttura dell’appello – è di tipo essenzialmente devolutivo, pur con alcune particolarità legate al fatto che il giudizio amministrativo nasce come giudizio di impugnazione ancorato all’esposizione di capitolati motivi di gravame. In effetti, i casi in cui il giudizio di appello  è privo di tale carattere (art. 105 c.p.a.) attengono proprio all’eventualità che siano incorsi vizi nel processo di primo grado: ipotesi, pertanto, che, nel caso di una impugnazione diretta al Consiglio di Stato, neppure si potrebbero prospettare.

La soluzione che qui si suggerisce, d’altro canto, avrebbe ulteriori riflessi positivi: eliminando un grado di giudizio, essa renderebbe più sollecita la definizione della lite e, conseguentemente, accelererebbe anche la definizione di quale debba essere la futura azione amministrativa: cosa che, almeno in certe controversie (ad esempio quelle relative alle procedure di gara o all’esecuzione di opere pubbliche), non sarebbe di trascurabile rilievo.

Anzi, la riconduzione del giudizio alla sola valutazione del Consiglio di Stato sortirebbe, a giudizio di chi scrive, l’ulteriore beneficio di evitare che i tempi del processo possano allungarsi proprio a causa di quegli eventuali incidenti di percorso che, ai sensi dello stesso art. 105 c.p.a., imporrebbero il rinvio al giudice di primo grado. Incidenti che, ove ricorrono, rivelano attualmente forme di inerzialità (se non di vere e proprie preclusioni sostanziali), il cui costo non è indifferente nell’economia complessiva del processo.

Qualcuno potrebbe obiettare che, in tal modo, si potrebbe verificare anche un effetto peggiorativo, perché una soluzione del tipo di quella oggi tratteggiata potrebbe causare una sorta di intasamento del contenzioso presso il Consiglio di Stato stesso.

Reputo tuttavia che questa eventualità possa essere scongiurata facendo sì che il ricorso diretto in Consiglio di Stato sia riservato effettivamente a quelle controversie che sarebbero comunque destinate al giudizio di secondo grado.

In tal senso, le leve al legislatore non mancherebbero e, verosimilmente, quella più semplice sarebbe proprio quella fiscale, di cui ci si potrebbe servire prevedendo che questa forma di rito alternativo richieda la corresponsione (in capo al ricorrente o a tutte le parti, come sembrerebbe invero più corretto) di un contributo unificato più elevato.

Consegno, a questo punto, la mia proposta a chi eventualmente vorrà valutarla, auspicando che possa essere di qualche utilità e permettendomi, tuttavia, di sottolineare che la sua attuazione non potrebbe procedere che dal presupposto di una unanime adesione al rito alternativo resa da tutte le parti intimate e da tutte le parti volontariamente intervenute.

Francesco Volpe

image_pdfStampa in PDF