Sommario: § 1. Premessa di inquadramento. Breve analisi della situazione di fatto a livello procedimentale e processuale; § 2. L’evoluzione del processo amministrativo; § 3. Dal dialogo nel procedimento al dialogo nel processo: l’accesso alla camera di consiglio ed il suo possibile utilizzo, anche per favorire la composizione della lite anche in una prospettiva di conciliazione giudiziale a codice del processo amministrativo vigente.

 

1. Premessa di inquadramento. Breve analisi della situazione di fatto a livello procedimentale e processuale.

Il mio intervento vuole portare il contributo del Foro, in particolare del Foro specialistico, dopo i preziosi interventi della Curia e dell’Accademia.

Giova, quindi, principiare da una sintetica analisi del contesto procedimentale e processuale.

Sul piano del procedimento è indubbio che il vigente ordinamento giuridico contempli una serie di istituti sempre più volti a garantire non già la sola partecipazione attiva del privato al processo decisionale dell’amministrazione, ma financo la condivisione dell’esito finale del procedimento.

Certo, la partecipazione al procedimento non è una novità recente, essendo scolpita sin dall’esordio della l. n. 241/1990: partecipazione attiva dalla genesi del procedimento, ai sensi degli articoli 7 e 10, arricchita poi – dopo l’intervento della l. n. 15/2005 – dalla partecipazione anche in limine, ai sensi dell’art. 10-bis, norma che ha positivizzato l’<<ultima chiamata>> prima dell’adozione del provvedimento negativo.

È più recente l’utilizzo degli strumenti negoziali o consensuali nell’esercizio del potere amministrativo, aventi tutti il comune denominatore nell’art. 11 della l. n. 241/1990. Pur se il citato istituto, in realtà, risale al 1990, tuttavia è solo con la l. n. 15/2005 che l’accordo sostitutivo del provvedimento è divenuto fattispecie “aperta”, anziché tipica e limitata ai soli casi previsti dalla legge come nella versione primigenia dell’art. 11, comma 1, della l. n. 241/1990.

In generale, in settori nevralgici del diritto amministrativo – quali l’edilizia, l’urbanistica, il commercio, le espropriazioni, l’ambiente – al tradizionale modello del provvedimento imposto si tende a sostituire il modello del provvedimento concertato; certamente l’amministrazione continua ad essere detentrice del potere discrezionale e tutrice dell’interesse pubblico, ma il contemperamento tra l’interesse pubblico della collettività e l’interesse privato trova sempre più la propria sintesi all’interno del dialogo procedimentale. Esso è indubbiamente favorito dall’istituto generale di partecipazione per eccellenza, costituito dalla conferenza di servizi, che consente il dialogo non solo tra amministrazioni, ma anche tra esse e gli amministrati.

Il terreno elettivo di espressione dell’amministrazione negoziata è senz’altro l’urbanistica, laddove – senza tema di smentite – la stessa pianificazione è in profonda crisi, scalzata dalla contrattualizzazione della disciplina dei suoli, tanto che oggi si parla di urbanistica per accordi (in Veneto, ordinaria è ormai l’applicazione dell’art. 6 della l.r. n. 11/2004, disciplinante gli accordi urbanistici tra pubblico e privato). Sulla pianificazione tradizionalmente intesa prevale sempre più la sua deroga; si pensi al settore produttivo ed alle indubbie semplificazioni procedimentali, introdotte dal d.l. n. 112/2008, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 133/2008 e dal d.P.R. n. 160/2010 (c.d. sportello unico per le attività produttive), nonché al settore delle energie rinnovabili ed al marcato favor per i relativi impianti, secondo il d.lgs. n. 387/2003; si pensi anche alle deroghe introdotte dalle norme regionali in tema di Piano casa, in Veneto ora addirittura strutturali (in base alla l.r. n. 14/2019).

In modo meno marcato anche i provvedimenti valutativi ambientali (valutazione di impatto ambientale, valutazione di incidenza, valutazione ambientale strategica), nonché i provvedimenti ampliativi (autorizzazione unica ambientale, autorizzazione integrata ambientale) vedono un’ampia apertura partecipativa e, comunque, una sempre più stretta connessione con i procedimenti urbanistici ed edilizi, che vengono sovente assorbiti dal procedimento ambientale nella direzione dell’unicità del procedimento e del suo esito provvedimentale.

È indubbiamente cambiata la prospettiva: dall’atto al rapporto.

È cambiato anche il ruolo dell’avvocato, sempre più ingegnere del procedimento[1]: alla ricerca del giusto equilibrio tra gli interessi in gioco, del giusto procedimento e del legittimo provvedimento. Del resto a ciò conducono, come visto, da un lato, le norme sul procedimento (esso effettivamente semplificato), dall’altro, la straordinaria complessità del diritto sostanziale (esso per nulla semplificato, anzi, sempre più complicato).

A ciò s’aggiunga che la diabolica complessità del nostro ordinamento instilla sovente nel pubblico funzionario un innaturale (ma comprensibile) pavor rispetto all’assunzione delle decisioni, tale da delegare al giudice amministrativo un ruolo di supplenza non certo fisiologico. Spesso capita di assistere a vere e proprie scelte di amministrazione difensiva: sia poi il giudice amministrativo a sbrogliare l’intricata matassa. Senza alcun timore del giudice amministrativo, anzi straordinaria àncora di salvezza, ma nel timore di altri giudici.

Questo, in estrema sintesi, il procedimento visto dall’osservatorio del Foro.

Qual è, sempre dal medesimo osservatorio, la situazione del processo?

Il processo amministrativo viaggia oggi su binari nettamente separati: c’è l’alta velocità per i riti speciali (contratti pubblici, accesso, silenzio, ottemperanza, giudizio elettorale); c’è il traffico ordinario relativamente a materie per nulla secondarie, anzi: edilizia, urbanistica, ambiente, energie rinnovabili, commercio.

Mentre il treno dei riti speciali rappresenta, oggettivamente, un mezzo di straordinaria efficacia, giustizia venendo resa in termini assai ristretti – tanto che in tema di contratti pubblici spesso la fase cautelare rappresenta, nell’accordo tra le parti, un mero tramite per un merito ravvicinatissimo nel tempo – l’altro convoglio viaggia a velocità affatto diversa.

Il che rileva non tanto con riguardo alla tutela degli interessi oppositivi, per i quali appaiono comunque efficaci il pronunciamento giurisdizionale d’annullamento ed, in via interinale, i rimedi cautelari previsti dall’art. 55 c.p.a. – attivabili anche ante causam, ai sensi dell’art. 56 c.p.a. – quanto con riferimento alla tutela degli interessi pretensivi.

Con riguardo a questi ultimi, rimane salva l’efficacia dei rimedi giurisdizionali speciali: in materia di contratti pubblici all’annullamento del diniego di aggiudicazione della commessa (meglio, dell’aggiudicazione ad altro concorrente) può conseguire direttamente la stipula del contratto, anche se medio tempore con altri stipulato, potendo il giudice amministrativo dichiararne l’inefficacia. In materia di accesso agli atti, all’accertamento dell’illegittimità del diniego (anche se intervenuto per silentium) o del differimento, segue la necessaria ostensione degli atti richiesti. In tema di silenzio, all’accertamento dalla sua illegittimità consegue l’ordine del giudice di provvedere entro un termine; in difetto di provvedimento nel termine, scatta il commissariamento.

Mentre le disposizioni, che governano il procedimento amministrativo, sono sempre più improntate allo snellimento, all’efficacia, all’efficienza, alla concentrazione dei procedimenti, meno efficiente appare la tutela giurisdizionale offerta nell’ambito dei riti ordinari con particolare riferimento all’interesse pretensivo.

Ciò si apprezza non solo a livello strettamente processuale, posto che in linea generale l’accesso alla tutela cautelare è più difficile nell’ipotesi del diniego e che i tempi della decisione del merito non sono d’ordinario brevi, ma anche nel rapporto tra procedimento e processo. Il diniego giunge come esito del procedimento, accede al giudizio – cui segue una sentenza (in ipotesi) d’annullamento del provvedimento negativo – e si apre nuovamente il procedimento per la riedizione del potere amministrativo, salvo che il giudice – sempre in caso d’accoglimento del ricorso – disponga le misure idonee ad assicurare l’esecuzione del giudicato, ivi compresa la nomina del commissario ad acta, già in sede di cognizione, ai sensi dell’art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a.-

 

2. L’evoluzione del processo amministrativo.

Rispetto alla anzi accennata fragilità dell’efficacia della risposta giurisdizionale con riguardo agli interessi pretensivi nel rito ordinario, il codice del processo amministrativo ha introdotto alcune misure di riequilibrio del sistema, sovente, invero, codificanti la prassi giurisprudenziale.

Il <<nostro>> codice di rito appronta un sistema di tutele non tipiche. Esempio è la tutela cautelare, nell’ambito della quale il ricorrente, a mente dell’art. 55, comma 1, c.p.a., chiede <<l’emanazione di misure cautelari … che appaiono, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare interinalmente gli effetti della decisione sul ricorso>>, sulle quali il collegio si pronuncia con ordinanza emessa in camera di consiglio. A fianco di misure cautelari tipicamente individuate (la sospensione dell’atto gravato, l’ingiunzione di pagamento in via provvisoria), se ne riscontrano altre atipiche, quali le ammissioni con riserva ai concorsi pubblici, agli esami ed i provvedimenti propulsivi.

Si ritrae la sensazione che l’udienza cautelare si sia nel tempo modificata, assomigliando sempre più ad una sorta di udienza <<filtro>>, sede di indirizzo del processo verso approdi anche diversi rispetto alla mera sospensione del provvedimento impugnato.

Ciò, se certamente pregiudica la centralità dell’udienza pubblica, nondimeno rivela come – sul piano squisitamente fattuale – l’esigenza di effettività della tutela ruoti oggi attorno all’udienza cautelare.

La lettura unitaria degli articoli 55 e 60 c.p.a. svela come all’istanza cautelare possa seguire l’implicita ed automatica fissazione di un’udienza in camera di consiglio, il cui esito sia la definizione della causa in prime cura tramite sentenza in forma semplificata[2].

L’esito dell’udienza cautelare può essere l’assunzione di un’ordinanza propulsiva, che induce una sorta di meccanismo circolare, in forza del quale dal procedimento si giunge al processo, per tornare nuovamente al procedimento.

L’eventuale nuovo approdo al processo dipenderà ovviamente dall’amministrazione in sede di riedizione del potere, dal rinnovato confronto con il ricorrente in sede stragiudiziale e da quanto spazio di discrezionalità residui in relazione al grado di dettaglio dell’ordine del giudice. Può accadere che l’invito del giudice venga colto dall’amministrazione e l’istanza venga esitata favorevolmente, con il venir meno delle ragioni del contendere. Può accadere che l’inesauribilità del potere in capo all’amministrazione, nonché la conservazione di un elevato spazio di discrezionalità (tanto maggiore, quanto minore è il dettaglio dell’ordinanza propulsiva) conducano l’amministrazione ad un nuovo atto negativo sulla base di profili diversi, con il consequenziale ritorno al processo tramite la proposizione di motivi aggiunti.

L’esito dell’udienza cautelare, inoltre, può essere la fissazione dell’udienza di merito, ai sensi dell’art. 55, comma 10, c.p.a. tanto in primo grado, quanto in appello, con la particolarità che in sede di appello cautelare il Consiglio di Stato ben può accoglierlo, riformando l’ordinanza resa in prime cure, anche al solo fine di far disporre al T.A.R. la fissazione dell’udienza pubblica.

Può essere il transito immediato dall’udienza cautelare alla decisione di merito nella medesima camera di consiglio, sì che la conseguente sentenza semplificata definisca il primo grado di giudizio.

A ben vedere, però, se pure l’udienza cautelare ha nel tempo assunto la fisionomia, cui accennavo, l’accesso ad essa presuppone la sussistenza dei presupposti, che sorreggono l’invocata tutela cautelare, ossia fumus boni iuris e periculum in mora.

S’è visto, quindi, come il ventaglio delle soluzioni processuali, che possono gemmare dall’udienza cautelare, sia comunque ampio e tale da rappresentare un valido presidio per l’effettività della tutela.

Si ha la sensazione, però, che manchi qualcosa.

Tant’è vero che, tra le proposte di riforma del processo amministrativo, particolare interesse (ma anche dibattito, con voci non certo uniformi) desta la mediazione[3], declinata ora nella forma della mediazione stragiudiziale, ora nella forma della mediazione giudiziale.

L’indubbio merito della mediazione risiede nell’incontro tra le parti, nella prosecuzione del dialogo tra le stesse, evidentemente interrotto.

L’esperienza ci insegna che, ove normativamente prevista (in tema di contratti pubblici, ai sensi dell’art. 211, d.lgs. n. 50/2016), la mediazione stragiudiziale non ha incontrato grande seguito.

Forse la direzione più corretta è quella della mediazione giudiziale, sotto l’egida del collegio giudicante, anche, in prospettiva, del giudice monocratico, che peraltro costituisce altra proposta di modifica del nostro sistema processuale.

Qual è, in fondo, la ragione, che spinge ad insistere nel tentativo di far dialogare le parti?

La consapevolezza che la conciliazione tramite l’accordo sostitutivo del provvedimento o tramite la riedizione del potere in senso concertato tra le parti – laddove sussistano i presupposti – rappresenti invero la più efficace forma di tutela, specie per quanto attiene agli interessi pretensivi.

Oggi l’avvocato sovente si ritiene costretto a <<forzare>> l’istanza cautelare, perché è considerato l’unico mezzo, per giungere al cospetto del giudice, al di là dell’effettiva sussistenza dei presupposti per la tutela cautelare. Il cliente richiede una pronta tutela, magari di interessi pretensivi, aventi però straordinaria rilevanza ed urgenza: un diniego di un’autorizzazione commerciale per una grande struttura di vendita o un diniego di variante al Piano urbanistico per il raddoppio di una linea produttiva dell’opificio industriale, senza cui l’imprenditore perderebbe un’importante commessa.

Ma se non del tutto ortodosso appare il modo, per converso, del tutto comprensibile è il fine.

Quindi, cosa manca al processo amministrativo, perché l’interrotto dialogo nel procedimento possa riprendere dopo una parentesi processuale, non necessariamente a seguito di un’ordinanza propulsiva o di una sentenza?

Forse manca la possibilità di una conciliazione (o, quanto meno, di un tentativo di conciliazione) sotto la regia del giudice, manca una prima udienza, manca una camera di consiglio, che non sia necessariamente quella per la discussione dell’istanza cautelare.

Forse non è così vero che manchi; forse il <<nostro>> codice offre qualche spunto, per sostenere la possibilità che il dialogo interrotto nell’ambito del procedimento possa riprendere a seguito di un dialogo nel processo davanti al giudice terzo e senza che il collegio debba assumere un qualsivoglia provvedimento, limitandosi di contro a guidare il contraddittorio.

Per il vero, talora ciò già avviene nella prassi. Il tentativo è quello di comprendere se sussista una cornice normativa processuale, nella quale inscrivere tale prassi.

È quello che cercherò di fare.

Pienamente conscio, lo anticipo sin d’ora, della difficoltà di questo esperimento, nella constatazione che il processo amministrativo è comunque ancora di carattere impugnatorio (nonostante oggi il fulcro non sia più l’atto, ma il rapporto), che siamo ancora ostaggi delle categorie (forse da ripensare[4]) del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo, che sussistono l’inesauribilità del potere ed il riesercizio del potere discrezionale anche a seguito del provvedimento del giudice (sia esso ordinanza propulsiva o sentenza, che definisce la causa), che vi è l’indisponibilità dell’interesse pubblico e che è scolpito nel nostro ordinamento costituzionale il principio di separazione dei poteri.

 

3. Dal dialogo nel procedimento al dialogo nel processo: l’accesso alla camera di consiglio ed il suo possibile utilizzo, anche per favorire la composizione della lite in una prospettiva di conciliazione giudiziale a codice del processo amministrativo vigente.

Giova muovere dall’estrema duttilità, che viene oggi offerta da due riti speciali: sul silenzio (articoli 31 e 117 c.p.a) e sull’accesso, anche civico (art. 116 c.p.a.).

Comune denominatore dei due riti risiede nel fatto che entrambi vengono celebrati in camera di consiglio, come dispone l’art. 87, comma 2, lettere b) e c), c.p.a. e che entrambe le materie appartengono alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

Una prima constatazione, quindi: non è vero che il <<nostro>> processo non conosca alternative all’udienza cautelare ed alla pubblica udienza. Una seconda constatazione: non ci facciamo caso, ma d’ordinario nella medesima udienza fissata per gli incidenti cautelari, vengono chiamate anche le udienze in camera di consiglio sul silenzio e sull’accesso. L’udienza è la stessa, diversa è la natura dell’udienza cautelare e dell’udienza camerale per i riti speciali in parola.

È indubbio che la flessibilità della camera di consiglio, comune ai due riti speciali, come visto, consenta al giudice di provare a conciliare le opposte posizioni, ciò potendo fare, scevro da ogni obbligo di sindacare la sussistenza di qualsivoglia periculum in mora, ma non da un accertamento circa la fondatezza della posizione del ricorrente. Capita di assistere a questo tentativo da parte del giudice, per certo libero anche nel rinviare l’udienza – sempre in camera di consiglio – senza il problema di ricercare posto nei ruoli affollati delle pubbliche udienze. Sovente il tentativo raggiunge il risultato: dal processo si torna al procedimento e giunge il provvedimento o giungono gli atti richiesti e, quindi, si chiude il sipario processuale.

Va anche ricordato come in tema di silenzio il giudice, a mente dell’art. 31, comma 3, c.p.a., possa pronunciare anche sulla pretesa sostanziale dedotta in giudizio, quando si tratti di attività vincolata, non residuino margini di discrezionalità e non siano necessari adempimenti istruttori da parte dell’amministrazione. In tali ipotesi il giudice ha maggiore serenità nel guidare le parti verso una soluzione conciliativa.

La prospettiva tratteggiata, che muove dalla prassi pretoria nei due riti speciali in riferimento, si snoda, per il vero, attraverso due istituti: l’accertamento (quanto meno sommario, circa la fondatezza della domanda del ricorrente) e la conciliazione (la proposta del giudice alle parti, che, se accettata, potrebbe definire la lite).

Va però analizzato se gli istituti richiamati possano essere applicati al processo amministrativo, posto che il <<nostro>> codice espressamente non contempla né l’azione di accertamento, né la conciliazione su proposta del giudice; quindi, se la prassi possa trovare copertura di sistema.

Va anche analizzato se la conciliazione, ove si ritenga applicabile anche al giudizio amministrativo, possa essere applicata ed, in caso affermativo, quando, come ed in quale udienza il giudice possa espletare il tentativo di conciliazione e con quali modalità possa seguirne lo sviluppo.

Quanto all’accertamento, è ben vero che tale azione generale non trova formale collocazione nel codice del processo amministrativo, ma è anche vero che dottrina[5] e giurisprudenza[6] appaiono concordi nell’ammetterla. Come è vero che dietro ad ogni azione d’annullamento si celi un implicito accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato.

Quanto alla conciliazione, del pari essa non è espressamente prevista da alcuna norma del codice del processo amministrativo. All’interno del <<nostro>> codice, però, v’è una norma di chiusura, ossia l’art. 39, la quale codifica il rinvio esterno al codice del processo civile, stabilendo che: <<Per quanto non disciplinato dal presente codice si applicano le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili o espressione di principi generali>>.

Il tentativo di conciliazione ad opera del giudice è previsto in linea generale nel codice di procedura civile dall’art. 185 c.p.c., nonché dall’art. 185-bis: pur nella diversità delle norme, la sostanza è che il giudice può tentare la conciliazione.

La giurisprudenza[7] ha ritenuto applicabili le norme processualcivilistiche, anche prima dell’entrata in vigore del codice del processo amministrativo (quando ancora non vi era un’espressa norma di rinvio esterno al codice del processo civile), riconoscendo pur sempre al codice di procedura civile la funzione di integrazione dei principi generali, ivi contenuti, rispetto al processo amministrativo.

Questa prospettiva ermeneutica è stata confermata, successivamente all’entrata in vigore dell’art. 39 c.p.a., sia dalla dottrina[8], sia dalla giurisprudenza[9]; l’integrazione del codice del processo amministrativo con le disposizioni del codice di procedura civile avviene nel caso in cui la fattispecie non trovi alcuna disciplina nel c.p.a. e sia compatibile con i principi posti dal codice del processo amministrativo oppure sia espressione di principi generali.

Ora, la conciliazione è espressione di un principio generale, ossia del potere del giudice di esplorare eventuali prospettive conciliative per la definizione della lite e non appaiono ragioni di incompatibilità rispetto al codice del processo amministrativo.

È da ritenere, poi, che sia il quadro procedimentale, sia il quadro processuale siano nel corso del tempo mutati. Come visto, sul piano procedimentale sempre più trovano diffusione i modelli consensuali nell’azione amministrativa, tanto che il processo decisionale amministrativo è sempre più volto alla ricerca di un provvedimento condiviso, di un accordo provvedimentale a base quasi sinallagmatica[10]; v’è da chiedersi se, consentito l’accordo tra le parti nell’esercizio del potere, l’interesse legittimo sottostante davvero possa ancora ritenersi indisponibile[11], anche se, per il vero, addivenire all’accordo sostitutivo del provvedimento rappresenta in ultima analisi pur sempre una scelta discrezionale dell’amministrazione, assunta comunque nel perseguimento dell’interesse pubblico, del quale l’accordo è sintesi.

Sul piano processuale, il <<nostro>> codice prevede un sistema aperto di tutele, anziché azioni tipiche; il giudice amministrativo giudica sempre più sul rapporto tra amministrazione ed amministrato; l’azione del giudice amministrativo si spinge fino all’adozione di ordinanze atipiche di carattere propulsivo, con ordini più o meno dettagliati, ma pur sempre incidenti sull’azione della pubblica amministrazione. Quanto all’inesauribilità del potere, al riesercizio dello stesso a seguito di ordinanza propulsiva o di sentenza di merito, è vero che essi sono fatti salvi dalla giurisprudenza[12], ma continuano ad essere salvi, posto che l’eventuale adesione alla proposta conciliativa passa pur sempre attraverso una volizione in tal senso sia delle parti pubbliche (che devono tenere in considerazione l’interesse pubblico nel suo complesso), sia delle parti private. La volizione della parte pubblica rende salva la separazione del potere esecutivo dal potere giudiziario. Al riguardo, peraltro, non va dimenticato come il giudice amministrativo possa spingersi nell’ambito della sentenza di merito <<a disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, compresa la nomina di un commissario ad acta, che può avvenire anche in sede di cognizione con effetto dalla scadenza di un termine assegnato per l’ottemperanza>> (art. 34, comma 1, lett. e), c.p.a.). Infine, se, come appena visto, deve essere fatto salvo il principio di inesauribilità del potere amministrativo, da cui discende la riedizione della valutazione discrezionale a seguito di provvedimento del giudice amministrativo, è ben vero che – ricorrendo determinate condizioni – la stessa giurisprudenza[13] più recente arriva a svuotare del tutto l’amministrazione del proprio potere discrezionale, fino ad ordinare all’amministrazione già nel giudizio di cognizione di assumere il provvedimento negato, soddisfacendo così appieno l’interesse del ricorrente.

Non va dimenticato, poi, come il vizio di eccesso di potere abbia abbracciato nel corso degli anni – accanto alle tradizionali figure sintomatiche – figure nuove, quali la ragionevolezza, la proporzionalità ed adeguatezza, il legittimo affidamento, la leale collaborazione, evidentemente dilatando l’ambito di sindacabilità del potere esercitato dall’amministrazione.

Ritengo, quindi, che nel tratteggiato panorama procedimentale e processuale il tentativo di conciliazione da parte del giudice amministrativo, mutuato dagli articoli 185 e 185-bis, c.p.c., non rappresenti uno strumento di soluzione della controversia incompatibile con il processo amministrativo, bensì un ulteriore mezzo per l’effettività della tutela, nel caso in cui la sensibilità del giudice ravvisi la sussistenza delle condizioni per la composizione del conflitto.

Provocare e seguire la conciliazione delle parti non significa certo vulnerare il principio di separazione dei poteri o prevaricare la funzione amministrativa, posto che il giudice dovrebbe solamente verificare la sussistenza di margini per una soluzione conciliativa, che non impone, ma suggerisce, lasciando libere le parti di conciliare o di non conciliare[14]. In particolare, lasciando che la volizione conciliativa sia riservata alle parti, segnatamente all’amministrazione, sì che l’esercizio del potere rimanga confinato all’interno del potere esecutivo.

Non v’è dubbio che il giudice potrà intravedere la prospettiva conciliativa solo a seguito di un accurato studio della controversia, ma non dovrà pronunciarsi sull’affare tramite l’adozione di un provvedimento giurisdizionale, potendo limitarsi – nel dialogo processuale – a rappresentare i margini conciliativi, rimettendo la palla nel campo stragiudiziale del confronto tra le parti.

Invero, rispetto al tentativo di conciliazione, appaiono certamente più invasive con riguardo al potere amministrativo l’ordinanza propulsiva – che presuppone una compiuta valutazione su fumus e periculum e che formula un chiaro indirizzo all’amministrazione di riconsiderare il provvedimento, tanto più cogente quanto più dettagliato e preciso – e la sentenza di cognizione, laddove annulli non solo l’atto, ma anche la discrezionalità in capo all’amministrazione, costretta a rieditare il proprio potere a “discrezionalità zero”; il tentativo di conciliazione, infatti, si può basare su un primo convincimento del giudice circa la fondatezza della domanda, senza che ciò si traduca in un provvedimento giurisdizionale, ma in una restituzione dell’affare dal processo al procedimento, nel corso del quale le parti contrapposte possono trovare un accordo, atto a superare il provvedimento impugnato, quindi il contenzioso.

L’approdo della conciliazione può essere rappresentato da un accordo sostitutivo del provvedimento, come atto tra le parti, e l’accordo può formare anche oggetto di processo verbale avanti il giudice amministrativo. Tale ultima soluzione potrebbe essere gradita in particolare alle amministrazioni, specie in presenza di quelle situazioni di <<amministrazione difensiva>>, di cui dicevo.

Ultima annotazione riguarda la tutela dell’azione del giudice all’atto della proposta conciliativa, posto che l’ultimo comma dell’art. 185-bis c.p.c. prevede che detta proposta non possa costituire motivo di ricusazione o astensione, ipotesi non regolate dal codice del processo amministrativo, il quale fa rinvio espresso (rispettivamente negli articoli 18 e 17 c.p.a.) al codice di procedura civile.

Una volta concluso che il giudice amministrativo possa proporre e seguire la conciliazione, va compreso in quale fase processuale il tentativo di conciliazione possa essere espletato e come in concreto esso possa essere condotto dal giudice.

È relativamente facile nel caso dei riti speciali in esordio citati (silenzio ed accesso), perché la loro celebrazione avviene alla camera di consiglio fissata per la trattazione dell’affare.

Negli altri casi, in particolare nei riti ordinari, non c’è una camera di consiglio, salvo non venga introdotta l’istanza cautelare; non c’è neppure una prima udienza (l’udienza di merito, tendenzialmente, è la prima ed ultima udienza e potrebbe anche essere tardi – ma non sempre, come si vedrà infra – per verificare la sussistenza di margini di conciliazione, posto che non è facile giungere ad una sollecita fissazione della pubblica udienza); non è detto vi sia un’udienza per l’assunzione di mezzi istruttori.

Una prima ipotesi è quella di utilizzare il <<filtro>> della camera di consiglio fissata per la discussione dell’istanza cautelare, che, come visto, è utilizzata come <<contenitore>> omnibus.

Per il vero, molti dei tentativi di conciliazione giudiziale nascono in via di prassi proprio dalla camera di consiglio, fissata per la discussione dell’istanza cautelare, di modo che il giudice amministrativo – ove intraveda margini di composizione della lite – inviti le parti a ricercare la soluzione conciliativa, rinviando la trattazione ad una successiva camera di consiglio.

Questa strada, se può sembrare senz’altro comoda ed immediata, presuppone tuttavia un’istanza cautelare, che a sua volta presuppone la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 55, comma 1, c.p.a. (fumus e periculum), anche se, come visto, l’udienza cautelare rappresenta sempre meno il tipico contenitore della sola domanda di sospensione del provvedimento gravato e sempre più un’udienza <<filtro>>, che assicura un pronto, primo, contatto tra il giudice e le parti. V’è però un dato, che in qualche modo rende sperequato l’accesso all’udienza cautelare: esso è rappresentato dalla disponibilità dell’azione cautelare in capo al ricorrente, che è l’unica parte processuale a poter introdurre la domanda di sospensione.

Vi è quindi da chiedersi se si possa raggiungere la camera di consiglio anche senza la presentazione dell’istanza cautelare.

Una possibile strada di accesso all’udienza camerale può essere offerta dall’art. 71-bis c.p.a., il quale prevede che, a seguito della presentazione dell’istanza di prelievo di cui all’art. 71, comma 2, c.p.a., <<il giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata>>.

La norma in esame è stata introdotta dall’art. 1, comma 781, lett. b), della l. n. 208/2015 (legge di stabilità per l’anno 2016), per motivi in realtà di natura economica, di ragionevole durata del processo amministrativo (onde limitare il risarcimento dei danni, derivanti dall’applicazione della legge Pinto), ma rimane il fatto che essa consegna all’interprete sia l’accesso alla camera di consiglio, sia la possibilità di definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata, sia la necessità di sentire le parti costituite.

Ebbene, nel caso in cui l’interesse (in particolare, pretensivo) del ricorrente rivesta carattere d’urgenza, egli potrebbe pensare di non proporre l’istanza cautelare[15], in difetto della sussistenza del pregiudizio grave ed irreparabile, ma di notificare e depositare il ricorso senza istanza cautelare, per chiederne successivamente il prelievo, ai sensi dell’art. 71-bis c.p.a.-

Con il che si dovrebbero aprire le porte alla camera di consiglio, dove il ricorso potrebbe essere definito con sentenza resa in forma semplificata, ma potrebbe anche essere definito a seguito di conciliazione tra le parti, che necessariamente devono essere sentite. Ed, ancora, il giudice, che ritenesse di proporre e di seguire la conciliazione tra le parti, avrebbe agio di poter rinviare la camera di consiglio ad altra udienza, parimenti in camera di consiglio, senza dover incidere sui ruoli delle udienze pubbliche.

Va anche osservato come l’accesso alla camera di consiglio, ai sensi dell’art. 71-bis c.p.a. abbia il pregio di consentire l’accesso stesso non al solo ricorrente, ma anche alle altre parti in giudizio, tutte le volte in cui l’urgenza di decidere possa essere rappresentata, ad esempio, dal resistente.

In definitiva, l’accesso alla camera di consiglio nella delineata prospettiva potrebbe offrire a tutti gli attori del processo uno strumento in più, per garantire la pienezza e l’effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24, 103 e 113 Cost.; art. 1, c.p.a.), anche in una prospettiva conciliativa.

Può pure accadere che sia la fissazione dell’udienza di merito – specie se ravvicinata nel tempo – a stimolare prospettive di conciliazione, le quali vengano manifestate al collegio, con conseguente istanza di rinvio della trattazione.

In tal caso, v’è da chiedersi se – invece del rinvio dell’udienza di merito ad altra udienza pubblica, con ogni difficoltà in relazione al reperimento dello spazio nei ruoli ed in luogo della cancellazione della causa dal ruolo (che allenterebbe la <<tensione>> processuale tra le parti) – vi possa essere un’altra strada, in modo da non incidere sulla formazione dei ruoli delle pubbliche udienze ed, all’un tempo, da preservare la pressione processuale, per stimolare la conclusione di un’eventuale conciliazione.

La prima soluzione potrebbe essere il ricorso alla sospensione del processo su istanza delle parti, ai sensi dell’art. 296 c.p.c., da ritenersi applicabile in forza del rinvio esplicito operato dall’art. 79 c.p.a., che rimanda al codice di procedura civile l’intera disciplina della sospensione del processo, quindi non solo la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., ma anche la sospensione volontaria su istanza di parte ex art. 296 c.p.c.-

Ma, in disparte la necessaria motivazione dell’istanza di sospensione volontaria del processo, anche a voler ammettere che essa possa rinvenirsi nella seria prospettiva della conciliazione, la sospensione può essere concessa solo una volta e per un periodo non superiore a tre mesi. Il che renderebbe per certo difficile il dispiegarsi della conciliazione e la regia del giudice sul dipanarsi del percorso conciliativo.

V’è da chiedersi, allora, se il giudice possa far transitare la causa dal ruolo delle udienze pubbliche ad una udienza in camera di consiglio, ove vi sia ragionevole aspettativa che la causa possa essere conciliata. In tal modo non si graverebbe sul ruolo dell’udienza di merito e si manterrebbe la pressione processuale, consentendo pure che il giudice segua l’affare (tramite rinvii della camera di consiglio), affinché esso, tornato dal processo al procedimento, non ascenda nuovamente al processo, se non per la chiusura della lite.

L’uscita della causa dal ruolo delle udienze pubbliche è contemplata dal codice del processo amministrativo, posto che l’art. 71, comma 1, c.p.a. prevede l’istituto della cancellazione della causa dal ruolo[16], quale contrarius actus presidenziale rispetto alla fissazione dell’udienza[17].

Meno chiaro appare come la causa, uscita dal ruolo del merito, possa entrare nel ruolo camerale.

Si può sostenere, forse non a torto, che nei poteri del presidente del collegio vi sia anche il potere implicito di far transitare la causa dal ruolo del merito alla camera di consiglio.

Si potrebbe vantare ancora l’applicazione dell’art. 71-bis c.p.a., anche in sede di udienza pubblica potendo essere le parti a chiedere al giudice non già il rinvio dell’udienza di merito, ma la rimessione dell’affare in camera di consiglio (previa cancellazione della causa dal ruolo delle udienze pubbliche), ai soli fini dell’esperimento della conciliazione. Se essa sortirà esito positivo, cesserà la lite; diversamente, il giudice potrà decidere con sentenza resa in forma semplificata, sussistendone i presupposti, o – in difetto di essi – la causa continuerà a pendere per il merito come d’ordinario, nuovamente in attesa della fissazione dell’udienza pubblica.

In conclusione: c’è un nuovo rapporto tra amministrazione ed amministrato, teso sempre più alla condivisione del provvedimento, anziché all’imposizione dello stesso e ciò è reso possibile da un dialogo procedimentale aperto; ci può essere anche un nuovo rapporto tra procedimento e processo, in particolare tra giudice e parti nel quadro di un processo amministrativo sempre più concentrato a sindacare il rapporto, anziché l’atto.

Dal procedimento al processo e dal processo al procedimento, nella consapevolezza che il nostro rito costituisce “non già una rigorosa separazione ma un produttivo continuum tra giurisdizione e amministrazione[18].

In tale prospettiva, nell’estrema, oggettiva e patologica complessità del vigente ordinamento positivo, la composizione del conflitto amministrativo (sovente anche tra amministrazioni) stimolata e guidata dal giudice, quindi la conciliazione giudiziale o tramite il giudizio, ben può rappresentare uno strumento in più per l’effettività della tutela giurisdizionale nel <<nostro>> processo[19].

Infine, faccio mie alcune considerazioni, che bene si attagliano anche al tema della conciliazione: <<I rischi ci sono, ma non c’è da spaventarsi più di tanto. Valori e principi, se ancorati al sistema ordinamentale complessivo e in primis alla Costituzione, consentono di orientare il giudice verso un allargamento dell’area di tutela che costituisce pur sempre il proprium della giurisdizione. Occorre solo evitare il pericolo che dallo Stato di diritto (Rechtsstaat) si passi allo Stato dei giudici (Richterstaat): e ciò richiede in primo luogo un atteggiamento “responsabile” da parte di un giudice che faccia dell’”umiltà”, secondo il monito di Calamandrei, la virtù correttiva del potere a lui attribuito>>[20].

Senso di responsabilità, umiltà ed, aggiungo, passione, devono rappresentare anche il corredo di noi avvocati, chiamati sempre più – e per primi – a comporre i conflitti.

Alessandro Veronese

*Relazione tenutasi al convegno su “Dal processo al procedimento: ruolo e prospettive della tutela cautelare e del rito camerale nel rapporto tra giudice amministrativo e amministrazione” svoltosi a Venezia il 2 dicembre 2019, presso Cà Vendramin Calergi.

 

[1] Sia consentito il rinvio ad A. Veronese, L’avvocato ingegnere del procedimento in Scritti in onore di Ivone Cacciavillani, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, pag. 427.

[2] Come noto, introdotta dal “rito veneziano”, che, per il vero, non è stato esattamente codificato come da prassi, ma di ciò parlerà la Prof. Chiara Cacciavillani.

[3] Si veda in tal senso la proposta di riforma approvata dall’Unione nazionale degli avvocati amministrativa nel corso dell’ultimo congresso di Bologna (2018). Si veda anche la dottrina, che particolarmente si è spesa in tal senso: V. Caputi Jambrenghi, Per una sentenza sempre meno ingiusta: uscita di sicurezza dal processo amministrativo e mediazione giustiziale, in Giustamm, n. 11/2017; F. Martines, La giustizia informale nei rapporti di diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2017. Si veda anche la proposta di mediazione “regionalizzata”: I. Cacciavillani, Sulla possibile istituzione d’un “Ufficio regionale di mediazione amministrativa”, in www.amministrativistiveneti.it, 18 maggio 2018.

[4] F. Patroni Griffi, La giustizia amministrativa tra presente e futuro, relazione tenuta al Convegno Stato e diritto amministrativo tra presente e futuro, Parma, 4 ottobre 2019.

[5] M. Clarich, Le azioni nel processo amministrativo tra reticenze del Codice e apertura a nuove tutele, in www.giustamm.it, 2010. L’Autore osserva, in particolare, come in tema di azioni la disciplina codicistica non sia del tutto organica e completa, di talché può avvenire in soccorso il rinvio esterno al codice di procedura civile.

[6] Cons. St., Ad. Pl., nn. 3/2011 e 15/2011. L’ultimo degli arresti citati merita di essere ricordato, laddove ha statuito che: “Nell’ambito di un quadro normativo sensibile all’esigenza costituzionale di una piena protezione dell’interesse legittimo come posizione sostanziale correlata ad un bene della vita, la mancata previsione, nel testo finale del codice del processo, dell’azione generale di accertamento non precluda l’applicabilità di una tecnica di tutela, ammessa dai principali ordinamenti europei, che, ove necessaria al fine di colmare esigenze di tutela non suscettibili di essere soddisfatte in modo adeguato dalla azioni tipizzate, ha un fondamento nelle norme immediatamente precettive dettate dalla Carta fondamentale al fine di garantire la piena e completa protezione dell’interesse legittimo (artt. 24, 103 e 113)”.

[7] Cons. St., Ad. Pl., nn. 14/2004 e 15/2004.

[8] A. Pajno, Il codice del processo amministrativo ed il superamento del sistema della giustizia amministrativa. Una introduzione al libro I, in Diritto processuale amministrativo, 2011.

[9] Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez. giurisdiz., 27.7.2012, n. 721.

[10] M. S. Giannini, Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna, Il Mulino, 1986. L’Autore osservava già in allora come l’esercizio del potere pubblico fosse orientato a ricercare il consenso degli amministrati con l’adozione di modelli riconducibili ai principi dell’autonomia e del sinallagma contrattuale. Più recentemente, F. Trimarchi Banfi, Il diritto privato dell’amministrazione pubblica, in Dir. Amm., 2004, p. 689 sosteneva che in alcune ipotesi il ricorso allo strumento negoziale consente all’amministrazione di giungere al soddisfacimento del pubblico interesse con maggiore efficacia.

[11] C. Volpe, Mediazione e giudizio amministrativo, relazione tenuta nell’ambito del convegno su Qualità ed effettività nelle tutele extragiudiziali dei diritti, quali scelta condivise per migliorare la giustizia?, Cagliari, 27-29 settembre 2018.

[12] Cons. St., Ad. Pl., nn. 2/2013 e 11/2016.

[13] Cons. St., sez. VI, 25.2.2019, n. 1321. Pur se la fattispecie era certamente peculiare (reiterate riedizioni del potere amministrativo confermative del diniego all’abilitazione scientifica nazionale), il Consiglio di Stato ha annullato – in sede di cognizione, non di ottemperanza – non solo il provvedimento, ma anche ogni margine di discrezionalità in capo all’amministrazione, ordinando al Ministero competente il rilascio dell’abilitazione scientifica nazionale richiesta. La sentenza merita di essere letta per intero, siccome, pur muovendo dalla constatazione in base alla quale è stata <<ormai definitivamente accantonata l’opinione tradizionale che escludeva si potesse riconnettere alla sentenza amministrativa l’effetto di imporre una disciplina del rapporto tra amministrazione e cittadino “sostitutiva” della disciplina dettata dall’atto annullato>>, constata che: <<Resta il fatto che non sempre il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento consente una definizione della fattispecie sostanziale>>. La pronunzia, poi, ricostruisce il punto di equilibrio tra i principi di giustiziabilità delle pretese e di effettività della tutela (di cui agli artt. 24, 103 e 113 Cost. ed agli artt. 6 e 13 della CEDU) ed il principio di separazione dei poteri (artt. 1 e 97 Cost.), rivendica al giudice amministrativo il ruolo di ricerca dell’effettività della tutela e disegna il giudicato come un vincolo alla discrezionalità amministrativa operante come “fatto” e non come “atto”. Prosegue, infine, affermando <<l’esigenza di assicurare, sin dove possibile, una tutela piena anche all’interesse pretensivo (per il quale la pronuncia d’annullamento raramente si presenta autonomamente satisfattiva), tenuto conto delle specificità correlate al sindacato sul potere pubblico>>. Conclude, da ultimo, come segue: <<È compito precipuo della giustizia amministrativa approntare i mezzi che consentono di ridurre la distanza che spesso si annida tra l’efficacia delle regole e l’effettività della tutela. La tutela piena, del resto, risponde anche ad un obiettivo di efficienza complessiva del sistema, dal momento che lo sviluppo economico e sociale del Paese passa attraverso una risposta rapida e “conclusiva” delle ragioni di contrasto tra le Amministrazioni ed i cittadini>>.

[14] M. Giovannini, Amministrazioni pubbliche e risoluzione alternativa delle controversie, Bologna, BUP, 2007; l’Autore correttamente ricorda come la prospettiva di conciliazione ha un senso solo se fondata sulla volontà delle parti di raggiungere l’accordo finale destinato a dirimere la lite.

[15] Per il vero, in un’ottica di strategia difensiva va anche valutato con attenzione l’eventuale profilo del risarcimento del danno, prospettiva che potrebbe indurre il difensore, comunque, a presentare l’istanza cautelare, nell’ottica di provare in ogni modo ad attenuare il danno occorso al ricorrente-creditore, ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a., ossia esperendo ogni strumento di tutela previsto dall’ordinamento (TAR Emilia Romagna, Parma, sez. I, 30.7.2019, n. 206).

[16] Per il vero, il fatto che l’istituto della cancellazione dal ruolo non venga definito, né dalla norma stessa, né da altre disposizioni, fa dubitare alcuni dell’effettiva sopravvivenza dello stesso nel vigente codice del processo amministrativo. In tal senso, si veda: R. De Nictolis, Codice del processo amministrativo commentato, Ipsoa, 2017, pag. 1057.

[17] R. De Nictolis, ibidem.

[18] P. Stella Richter, Per l’introduzione dell’azione di mero accertamento nel giudizio amministrativo, in Studi in onore di Massimo Severo Giannini, Milano, 1988, pag. 875.

[19] C. Volpe, op. cit., laddove ricorda che: “Accanto al modello di giustizia informale precontenziosa, si potrebbe prospettare anche la possibilità che nel processo amministrativo si inserisca una parentesi destinata al tentativo di conciliazione della controversia prima che si giunga alla sua decisione. In tal modo attribuendo un ruolo attivo al giudice, che potrebbe anche essere monocratico (e non necessariamente collegiale)”.

[20] F. Patroni Griffi, Il metodo di decisione del giudice amministrativo, relazione al convegno su La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Castello di Modanella, Siena, 19 e 20 maggio 2017.

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