Da lungo tempo auspico l’abolizione del giudice speciale e il trasferimento al giudice ordinario delle controversie contro la pubblica amministrazione, restando immutati i poteri decisori.

Le ragioni che ho addotto a favore di una tale impostazione sono state, sin qui, di carattere strettamente tecnico: indipendenza del giudice, funzionamento del sistema processuale, prevedibilità dell’esito del giudizio, effettività della tutela. Chi vorrà approfondire la cosa, non farà fatica ad andare a riprendersi quegli scritti, che non abiuro in nessun modo e della cui bontà continuo ad essere convinto.

Non sono il solo, del resto, a pensarla così.

Se torno sul tema è perché questa conclusione mi pare che oggi debba essere sostenuta anche sulla scorta di altre ragioni. Non più di sistema, non più tecniche, non più di effettività della tutela, ma di puro, mercantile, egoistico, interesse economico del ceto forense amministrativista.

Il quale, sia bene inteso, è uno scopo che ha una sua alta dignità sociale. Perché se un avvocato fa fatica a sopravvivere, difficilmente chi ne ha bisogno troverà chi lo difenda.

Bene, diciamoci le cose come stanno, senza far finta di essere più belli degli altri.

Io parlo per me, ma ho la consapevolezza e l’onestà di sostenere che quel che vale per me vale anche per la stragrande maggioranza degli altri studi. Individuali, associati, strutturati. A ognuno la sua crisi.

Bene, signori, la verità è questa: il contenzioso amministrativo è a tutti gli effetti morto e sta andando ad esaurimento.

Negli studi professionali, di fatto, non entra più nulla di nuovo.

Sì. Gente che gira per lo studio, c’è. Ma quanti dei nostri colloqui; quanti dei nostri ricevimenti si traducono in un ricorso, in una resistenza? Credo che sia ottimistica una percentuale di uno a dieci.

Non entra nulla dalla parte dei ricorrenti, perché nessuno fa più ricorso. Ma neppure dalla parte dei resistenti e dei controinteressati. Perché non si resiste a quel che non c’è. E quand’anche ci fosse, non è detto che si voglia affrontare la difesa.

Resta il contenzioso pregresso, su cui chiedere qualche integrazione di parcella.

E se già il discutere sul pregresso è cosa che fa impressione (c’è chi il pregresso non ce l’ha e ugualmente vorrebbe affacciarsi a questo ramo di professione), la cosa è aggravata dalle perenzioni ultraquinquennali che, più consone ad essere una misura straordinaria, sono diventate, invece, strumento ordinario. Estintivo di qualsiasi possibilità di ulteriore parcellazione.

Poi c’è la crisi, poi c’è stato il decreto Bersani, poi c’è stato il contributo unificato, poi i tagli alle amministrazioni pubbliche, poi c’è la fiscalità opprimente, le gare al ribasso per l’aggiudicazione di una difesa…

Siamo stati disavveduti.

In primo luogo, sono stati tali gli avvocati che difendono le amministrazioni, convinti di poter godere di una sorta di mercato riservato e inesauribile. Ma che adesso non è più palesemente tale.

Disavveduta, per non dire altro, è stata la generazione forense che ci ha preceduti (o parte di essa). Ben attenta a difendere il proprio, sulla scorta del principio: dopo di me potrà diluviare, ma non mi importa affatto.

Di fatto, il nostro ramo di attività vive oggi sullo stragiudiziale. Più che pareri, si tratta d’ingegneria procedimentale. In altri termini, siamo diventati dei paralegali.

Il che non è bene.

Innanzi tutto perché lo stragiudiziale è attività altrettanto impegnativa del contenzioso vero e proprio (in certo casi, anche maggiore), ma assai meno remunerata, almeno in una prospettiva di numeri diffusi.

Soprattutto, però, perché l’attività stragiudiziale è specchio del contenzioso. In tanto ha senso richiedere assistenza in un procedimento amministrativo, in quanto si intenda prevenire un futuro giudizio. Ma se si ha la probabile certezza che il contenzioso comunque mai ci sarà, perché chiedere l’assistenza di un legale? Questo è quel che accade.

Anche se si costruisse un procedimento “alla carlona”, chi mai eccepirebbe? E, dunque, perché spendere soldi per una consulenza?

Bene. La mia conclusione è una sola. Se vogliamo, come categoria professionale, sopravvivere, dobbiamo fare ripartire il contenzioso. Immediatamente. Di slancio.

Lo stato della crisi è tale che non è più possibile pensare a minime modifiche di maquillage. Che so? L’alleggerimento del contributo unificato, la riduzione dell’i.v.a. (che, di fatto, impedisce ai non possessori della stessa partita di introdurre la causa), l’eliminazione dello scorporo dell’i.v.a stessa quando siano clienti gli enti pubblici. Tutte misure che, se non assunte, avrebbero attenuato la crisi di sistema e che, se attualmente riformate, ormai nulla più potrebbero sortire.

No. Se vogliamo ripartire abbiamo bisogno di interventi strutturali, come si suole dire, e immediati.

Quindi, ben vengano. Siano anzi richieste a gran voce le misure fiscali e previdenziali che rendano l’introduzione del ricorso meno onerosa per i singoli e per gli imprenditori.

Ma quello che, prima di tutto, occorre dare, è una scossa importante al sistema.

Occorre “rompere” con quel che si è fatto finora.

Occorre far capire immediatamente ai nostro potenziali clienti che, da domani, le cose funzioneranno in modo diverso e occorre infondere a loro la fiducia che le cose possano andare in un modo migliore.

Occorre far sperare loro che, se impugni un appalto, forse puoi avere tutela cautelare; che se impugni un’espropriazione, forse puoi sperare in una sospensione o in un annullamento della stessa.

Occorre che le pubbliche amministrazioni accettino la possibilità, qualche volta, di perdere e, persino, di pagare.

Il che non può avvenire se non con il cambiamento degli uomini che decidono le cause amministrative.

Reputo – e ne sono profondamente persuaso – che, allo stato in cui siamo arrivati, qualsiasi misura di alleggerimento o di attenuazione del malfunzionamento attuale non possa sortire nessun effetto.

Come un blando farmaco nulla potrebbe nei confronti di un malato in fase terminale.

Francesco Volpe

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