Con la legge 24 dicembre 2012, n. 228 (art. 1, comma 137), il legislatore ha sottoposto al pagamento del sovracanone idroelettrico tutti gli impianti di produzione in concessione “superiori a 220 kW di potenza nominale media, le cui opere di presa ricadano in tutto o in parte nei territori dei comuni compresi in un bacino imbrifero montano già delimitato”. La novella – estensiva del disposto del’art. 1, comma 8, della legge n. 959/1953 – ha sortito la ferma opposizione dei concessionari di media potenza, secondo i quali la sopravvenienza di una prestazione patrimoniale imposta andrebbe a squilibrare l’assetto economico della produzione idroelettrica, imponendo di rideterminarne le prospettive di redditività sul medio termine, al punto da rendere non più conveniente l’esercizio della derivazione.

Ai sensi della disciplina istitutiva, il sovracanone ha una natura ibrida, che per lungo tempo ne ha reso controversa la qualificazione. L’imposizione finanziaria aspira a connettere la redditività dell’attività d’impresa (parametrando in quantum debeatur alla potenza nominale media di energia elettrica autorizzata nell’atto di concessione) all’origine della risorsa sfruttata (ponendo i Comuni rivieraschi dal lato attivo dell’obbligazione).

La Corte costituzionale ha storicamente obliterato la legittimità del sovracanone, a titolo di prestazione patrimoniale imposta ai sensi dell’art. 23 Cost., sussumendola tra le provvidenze riservate alle zone montane di cui all’art. 44 Cost. La specialità della finanza pubblica montana è stata infatti considerata un idoneo termine di bilanciamento finanche rispetto al principio di eguaglianza tributaria, portando la Consulta ad affermare che “è innegabile” che con la riserva dei sovracanoni a favore degli impianti di captazione ubicati entro i confini del bacino imbrifero montano il legislatore avesse “creato una disparità di trattamento tra concessionari che godevano ugualmente della esenzione del canone, imponendo un nuovo obbligo ai soli concessionari dei bacini montani”. Tuttavia “legge ha conferito ai Comuni montani un diritto nei confronti di tutti coloro che, qualunque fosse la loro situazione rispetto allo Stato, ritraevano una utilità dalla montagna, trasformandola in ricchezza nelle zone di pianura, senza che alle popolazioni della montagna ne risultasse un apprezzabile beneficio[1]. L’apparente discriminazione si spiega quindi con una ratio redistributiva, in conformità alla quale il legislatore ha riequilibrato i flussi economici, avendo “ragionevolmente posto a carico dei concessionari dei bacini montani un concorso per l’approntamento degli aiuti da portare alle popolazioni di quei territori dalle cui risorse i concessionari traggono beneficio[2]. Se, quindi, il canone idroelettrico costituisce il corrispettivo da versare all’ente concedente in quanto proprietario dell’acqua pubblica ceduta per le finalità private, il sovracanone mira a compensare per la distrazione del flusso le comunità locali rivierasche che, pur non vantando specifici diritti reali sul bene acqua, partecipano all’ecosistema idrico mediante beni giuridici costituzionalmente protetti (il paesaggio, l’ambiente e l’iniziativa economica privata).

La finalità restorativa legata all’emungimento dell’acqua emerge in maniera chiara dalla successiva legislazione integrativa. In via di interpretazione autentica, infatti, il legislatore ha sottolineato che ai fini della debenza dei sovracanoni non deve aversi riguardo all’ubicazione dell’impianto di lavorazione delle acque, né a quella delle opere di presa ad esso strettamente pertinenti: ciò che conta è la provenienza dell’acqua e, in particolare, lo sfruttamento di una risorsa sottratta al suo corso naturale nel bacino imbrifero montano. Pertanto, in presenza di più opere di captazione, derivazione e diramazione, “in sequenza” o “a cascata”, dovrà aversi riguardo all’approvvigionamento della rete nel suo complesso: “Tutti   i   concessionari  di  grandi  derivazioni  di  acqua  per produzione  di  forza  motrice, quando le opere di presa o di prima presa, nel caso di impianti a catena o in serie, anche se appartenenti a  più concessionari, o il massimo rigurgito a monte determinato dalla  presa stessa ricadano in tutto o in parte nel perimetro dei bacini imbriferi montani, sono tenuti al pagamento del sovracanone annuo di lire 1300 per ogni Kw di potenza nominale media concessa”. Ne consegue che quand’anche il concessionario a valle della canalizzazione non sia lo stesso titolare della diga principale, che emunge l’acqua dal corso naturale ed alimenta la rete artificiale, il primo sarà comunque tenuto a corrispondere il sovracanone in proporzione allo sfruttamento (quand’anche indiretto o intermediato da un secondo concessionario) dell’acqua proveniente dal BIM.

Sennonché, l’impatto del principio di concorrenza di matrice europea (oggi codificato nell’art. 101 T.F.U.E.) ha favorito una serie di interventi di riforma della governance complessiva delle acque, che hanno indirettamente finito per allontanare l’istituto del sovracanone dalla sua originaria legittimazione nell’art. 44 Cost. Non solo, infatti, la perimetrazione del bacino imbrifero montano prescinde dall’effettiva morfologia del territorio, includendo tutti i Comuni rivieraschi, dalla sorgente alla foce, ma – seguito della riforma introdotta dalla legge n. 228/2012 – ha perso ogni rilevanza il discrimine altimetrico[3]. La questione è stata efficacemente fotografata da una pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui il sovracanone è divenuta un’obbligazione pubblicista di rilevanza generale, in quanto “i soggetti beneficiari del sovracanone sono i Comuni facenti parte di « bacini imbriferi montani » (BIM), la cui perimetrazione montana è demandata ad appositi D.M., nonché quelli rivieraschi, ovverosia situati nel tratto compreso tra il punto ove ha termine praticamente il rigurgito a monte della presa ed il punto di restituzione”, cosicché finiscono per essere considerati “giuridicamente montani tutti gli impianti generatori di sovracanoni per i concessionari, mentre possono non esserlo i Comuni beneficiari e consorziati[4].

Pur mantenendo una finalità di indennizzo, conseguente alla necessità di “rimediare alla alterazione del corso naturale delle acque causata dalla loro regimazione artificiale”, ristorando i Comuni del bacino imbrifero per la captazione dell’acqua pubblica ai fini dell’assoggettamento all’uso privato[5], la natura giuridica dell’obbligazione è stata progressivamente assimilata alla fiscalità generale, che individua nella potenza autorizzata dalla concessione di derivazione un indice indiretto di capacità contributiva dell’esercente.  L’arresto è stato dapprima formalizzato ai fini dell’allocazione della potestà legislativa[6] e, successivamente, ha trovato stabile sistematizzazione per la valutazione sostanziale di conformità della relativa disciplina ai dettami dell’art. 53 Cost.[7]

Proprio a quest’ultimo riguardo, nonostante l’alluvionale germinazione di vertenze volte ad ottenere una censura di legittimità costituzionale della legge n. 228/2012, le Corti acquifere – confortate dalla giurisprudenza costituzionale – hanno stabilmente convalidato la congruità costituzionale della disciplina del sovracanone. In riferimento all’art. 3 Cost., “non v’è alcuna discriminazione, essendo le imprese idroelettriche tutte sullo stesso piano nel mercato interno e non essendovi armonizzazione eurounitaria dell’imposizione fiscale sul punto. Così come sono rispettati quei principi di ragionevolezza, laddove la legge di stabilità 2013 – estendendo il sovracanone a tutti gli impianti di produzione superiori a una determinata potenza nominale media, le cui opere di presa ricadano in tutto o in parte nei territori di Comuni compresi in un bacino imbrifero montano, indipendentemente dalla quota altimetrica – razionalizza la disciplina nazionale, riprende e rielabora gli originari principi informatori del testo unico de 1933 ed elimina le criticità insite nella pregressa legislazione del 1953[8].

In riferimento all’art. 23 Cost., “ricorrono i criteri stabiliti dalla giurisprudenza per qualificare come tributari alcuni prelievi: a) doverosità della prestazione; b) mancanza di un rapporto sinallagmatico tra le parti; c) collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante. L’obbligo di pagamento del sovracanone […] sorge da presupposti interamente regolati dalla legge, senza che siano riservati alla p.a. spazi di discrezionalità circa la concreta individuazione dei soggetti obbligati, i presupposti oggettivi o il quantum del corrispettivo[9].

In riferimento all’art. 41 Cost., non è chiaro il parametro che consentirebbe all’esercente di mantenere costanti gli oneri fiscale per tutto il periodo di svolgimento dell’attività economica, considerato che “non è infatti precluso al legislatore di modificare la ratio e l’ambito di applicazione di una prestazione patrimoniale imposta qualora – come nel caso di specie – la modifica non sia manifestamente arbitraria, ma anzi ispirata all’esigenza costituzionalmente rilevante di finanziare l’autonomia locale[10].

In riferimento all’art. 53 Cost., manifestamente “infondata è la questione di legittimità costituzionale del medesimo comma 137, sollevata dalla ricorrente con riferimento alla presunta violazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. Esattamente il TSAP solleva che non sussiste la dedotta violazione, atteso che lo svolgimento di attività d’impresa sulla base di una concessione di derivazione sia di per se stessa sintomatica di capacità contributiva. Né l’aumento dei costi fiscali per il concessionario rileva in sé, posto che sono rimesse alla discrezionalità del legislatore sia l’individuazione delle situazioni significative della capacità contributiva, sia la determinazione dell’entità dell’onere tributario, con il limite della non arbitrarietà o irrazionalità della scelta legislativa (Corte cost., 19/01/2005, n. 23). E tale irrazionalità non è di certo ravvisabile nella specie, laddove il comma 137, come si è visto, reintroduce, in fin dei conti, l’originario sistema del testo unico, onerando del pagamento del sovracanone tutti gli impianti senza discrimine altimetrico (ovverosia tutti quelli siti nei bacini imbriferi montani compresi quelli siti nei Comuni sì rivieraschi ma posti al di fuori del perimetro montano) e, in ultima analisi, rende omogenee le posizioni di tutti i Comuni e di tutti gli impianti del bacino[11]. Ed infatti, ribadiva il Tribunale Superiore della Acque Pubbliche “la violazione dell’art. 53 Cost. risulta del tutto infondata, atteso che non appare dubitabile che lo svolgimento di attività di impresa sulla base sulla base di una concessione di derivazione sia di per sé sintomatica di capacità contributiva; né potrebbe predicarsi la immodificabilità delle condizioni della concessione per rendere omogeneo il trattamento riservato a impianti ubicati nell’ambito di comuni il cui territorio sia solo in parte rientrante nell’area del Consorzio BIM[12].

Non esiste, infatti, alcuna previsione costituzionale che imponga al legislatore – a fronte dell’applicazione di una soglia minima di applicabilità del tributo – di prevedere una corrispondente franchigia, di pari importo, a favore di coloro che superino i minimi esenti. Si tratta di una tecnica di calcolo che è stata talora utilizzata nella legislazione tributaria per la disciplina di singole fattispecie, la quale – tuttavia – non può considerarsi principio generale dell’ordinamento tributario né, tantomeno, costituzionalmente necessaria, al punto da legittimare la rimessione della questione alla Corte. Ne è testimonianza la difficoltà incontrata da controparte nell’assicurare alle proprie argomentazioni un raccordo nell’articolato costituzionale. Stando al consolidato insegnamento della Consulta, infatti, l’art. 53, comma 2°, “riguarda il sistema tributario in genere, non i singoli tributi[13]. Pertanto, non solo “non è quindi vietato che i singoli tributi siano ispirati a criteri diversi”, ma “è difficile immaginare che venga dichiarata incostituzionale per contrarietà al principio di progressività[14].

Coerentemente ha statuito sul punto dal Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, la pretesa “violazione [ad opera dell’art. 1, comma 137, della legge n. 228/2012, n.d.a.] dell’art. 53 Cost. risulta del tutto infondata, atteso che non appare dubitabile che lo svolgimento attività d’impresa sulla base di una concessione di derivazione sia di per sé sintomatica di capacità contributiva[15]. Soddisfatto tale presupposto spetta quindi alla discrezionalità del legislatore graduare l’aggravio contributivo ed individuare le franchigie entro le quali la modesta entità dell’attività derivativa determina un impatto ambientale trascurabile, utili economici contenuti e giustifica l’esenzione dagli obblighi impositivi.

Francesco Dalla Balla

 

[1] Corte cost. sent. 31 maggio 1965, n. 38.

[2] Idem.

[3] Cass. Civ. Sez. Un., sentenza 29 luglio 2020, n. 16261

[4] Cass. civ., Sez. Un., sent. 11 luglio 2019, n. 18669

[5] Cass. civ. Sez. Un. sentt. 19 giugno 2018, nn. 16157-16158-16159; sent. 29 luglio 2020, n. 16261.

[6] Corte cost. sentt. n. 533/2002. 261/2004

[7] Corte cost. sent. n. 64/2014.

[8] Cass. civ., Sez. Un., sent. 19 giugno, 2018, n. 16157/2018). In termini analoghi cfr. T.S.A.P., sent. 10 dicembre 2014, n. 164; T.S.A.P., sent. 11 aprile 2016, n. 108; T.S.A.P., sent. 11 maggio 2016, n. 160; T.R.A.P Milano, sent. 4542/2013.

[9] Cass. civ., Sez. Un., sent. 19 giugno, 2018, n. 16157/2018. Nei medesimi termini, T.S.A.P., sent. 10 dicembre 2014, n. 164; T.S.A.P., sent. 11 aprile 2016, n. 108.

[10] T.S.A.P. sent. 10 dicembre 2014, n. 164.

[11] Cass. civ., Sez. Un., sent. 19 giugno, 2018, n. 16157/2018. In termini analoghi, cfr. T.S.A.P., sent. 10 dicembre 2014, n. 164; T.S.A.P.  sent. 11 maggio 2016, n. 160; T.R.A.P Milano, sent. 4542/2013.

[12] T.S.A.P., sent. 10 dicembre 2014, n. 164. In termini analoghi T.S.A.P. sent. 13 maggio 2016, n. 163 e T.S.A.P., sent. 11 aprile 2016, n. 108.

[13] Corte cost. sent. 23 marzo 1960, n. 12.

[14] Tesauro, Istituzioni di diritto tributario, 2014, pag. 80 vol. I.

[15] Tribunale superiore delle Acque Pubbliche, sentenza 10 dicembre 2014, n. 164.

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