Carissimi, non sono affatto sicuro che ci sarò nel 2050. Anzi… Peccato: è quello l’anno in cui si avrà il consumo zero di suolo. Ma io appartengo, controvoglia, alla generazione dei consumatori.

E il consumo di suolo fino ad oggi nel Veneto c’è stato, massiccio. È avvenuto in base a un sistema fatto di piani – i PRG innanzitutto – e di costruzioni conformi ai piani. Con qualche variabile: gli accordi, ad esempio, che sono stati un modo per i Comuni per pianificare in base alle domande di chi ci teneva a costruire, in cambio di opere e cose utili.

Poi, in questo sistema, sono comparsi due oggetti anomali: il piano casa e il contenimento del consumo del suolo.

Il primo: la Regione – con legge – ha pensato di dare direttamente una possibilità di ampliamento a tutti gli edifici, passando sopra ai piani comunali. L’edilizia era in crisi e bisognava rilanciarla. Il secondo, è un percorso. Bisogna mettere un limite alla quantità totale di suolo consumabile. Lo fa la Regione, e la ripartisce tra i Comuni (che devono rivedere al ribasso quanto avevano pianificato di far costruire).

Le due cose sono di per sè contrastanti: una serve ad ampliare, l’altra a contenere. Ma in qualche modo vengono ora a contatto.

Il piano casa era una misura temporanea: durava già da dieci anni ed è infine scaduto il 31 marzo scorso. Ma, per effetto di una nuova legge regionale, dopo quella data è diventato perenne (con varie modifiche).

Ed è stato collegato al contenimento del consumo di suolo, in particolare con i crediti edilizi da “rinaturalizzazione”. Il nome suona un po’ strano: vuol dire che quando vorrete ampliare casa vostra, una parte dei metri cubi che vi servono li potrete andare a comprare da qualcuno che ce li ha per aver eliminato una costruzione “sbagliata” da qualche altra parte. Tutto ciò pare una cosa buona ma, insieme, piuttosto complicata.

Certo, non basta. Provare a ripulire il territorio – rinaturalizzare, appunto – va bene.

Ma il problema più grosso sono le città (periferie comprese), sono le zone già costruite. Lì bisogna intervenire su ciò che esiste già. Spesso per demolire, ma non per tornare alla natura: non è possibile. Piuttosto, per riaprire gli spazi occupati da costruzioni che non meritano di essere tenute. E questo è utile se si ha un’idea su come possano essere meglio usati quegli spazi: o per costruirvi qualcos’altro, o a servizio delle aree intorno. Ma, in ogni caso, perché corrispondano alle esigenze di chi vivrà e lavorerà lì, in una situazione sociale che chissà quale sarà.

È un problema culturale. Ma anche economico: intervenire sull’esistente è più costoso. Come convincere a farlo? (perché, appunto, si tratta di convincere; espropriare, richiede mezzi economici che non ci sono).

Si possono ad esempio dare dei metri cubi in più. Sembra facile, ma aggiungere volumi è cosa da fare con cautela: ci si ritrova poi con una situazione più pesante.

E quindi: non può essere automatico, e non ogni demolizione deve essere seguita dalla ricostruzione ingrandita di ciò che c’era prima. È importante invece uno sguardo più ampio, che dall’edificio si sposti alla città. Insomma: la città è fatta di edifici, d’accordo. Ma non è applicando edificio per edificio le percentuali di ampliamento date per legge che si rinnova una città.

Le regole quantitative, per chi deve decidere, sembrano una difesa dai rischi (e dagli avvocati): se le rispetti, non si dirà che fai preferenze. Ma non bastano, serve una progettualità più ampia. Serve la competenza, la capacità, il coraggio dei funzionari, degli amministratori, degli operatori. E la consapevolezza dei cittadini.

Tante cose: ma al 2050 ci si arriva partendo da oggi.

Stefano Bigolaro

 

* Si tratta di un tentativo di dare qualche indicazione sul tema nel modo più semplice, cercando di rendere le cose comprensibili anche ai non addetti ai lavori senza perderne il senso complessivo. Ci si prova, specie se questioni pur piuttosto tecniche incidono su tutti noi e sul nostro futuro.

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