È un mito, quello che vi possa essere una formazione professionale comune per accedere alla magistratura, all’avvocatura e al notariato. La Scuola di specializzazione per le professioni legali è un frutto di questo mito. Ma, così com’è, sconta un equivoco: chi la frequenta, per ragioni oggettive legate alla normativa sull’accesso alla magistratura, normalmente ambisce a superare il concorso di magistratura; mentre, appunto, la Scuola specializza in “professioni legali”. Ma quali professioni legali? Tutte? E allora che specializzazione è, una specializzazione in tutto? È una non-specializzazione (il che è una contraddizione in termini): e dunque, a che serve? A chi interessa davvero, una Scuola fatta così? Specie quando sono disponibili alternative che paiono più funzionali al vero obbiettivo (scuole private per la preparazione al concorso) o più “vicine” ad esso (il tirocinio presso gli uffici giudiziari); e a parte poi che per l’accesso all’avvocatura e al notariato esistono specifiche scuole e percorsi.

Tutto ciò è vero, ma solo in parte. La realtà è sempre più varia degli inquadramenti che le diamo.  Il concorso di magistratura non può essere l’unico obbiettivo: la vita di una persona non può dipendere da un fatto che ha una rilevante componente aleatoria, quale il superamento di quel concorso. (In realtà, dipendiamo tutti dal caso, più di quanto siamo disposti ad ammettere, però cerchiamo di sottrarci a questa tirannia).

Quello di accedere alla magistratura è, in ogni caso, un tentativo che va fatto con cura. Prepararsi a quel concorso è un investimento: di attività, di energia, di tempo. Come ogni investimento, deve essere attento, e, possibilmente, deve avere un ritorno. E dunque la Scuola di specializzazione per le professioni legali deve operare per dare un senso a questo investimento, e cercare costantemente di migliorare su questo piano.

Dentro la Scuola insegno, da ormai numerosi anni, “esercitazioni di diritto amministrativo”. È un insegnamento che mi piace, perché consente ampia libertà nel cercare temi di attualità e di interesse, e nel cercare il modo di trattarli insieme con i frequentanti. Beninteso, non so se ci riesco. Ma il tentativo è quello di passare da una fase in cui si insegna ciò che si sa a un’altra in cui chi vuole imparare lo fa, cogliendo ciò che gli interessa in un ambiente in cui si cerca insieme (come diceva Roland Barthes).

Ma, in un certo senso, ogni materia deve essere trattata nella forma di esercitazione. Alla Scuola, si deve venire per esercitarsi. Approfondire i temi specifici, fare e rifare le prove. Deve esserci una regia complessiva, attenta agli obbiettivi dei partecipanti, se no si perde il collegamento con loro. Ma non può essere un luogo solo per la caccia alle tracce (cercando di capire quali saranno, con una ricerca metodica sui modi della loro definizione e sui modi in cui saranno corretti i compiti). Non solo questo. Perché non si può puntare tutto, nella vita, su una cosa solo, su un concorso soltanto. Serve una certa elasticità, serve apertura (riguardo al concorso, riguardo al proprio futuro professionale). Non vorrei sembrare lezioso: serve una cosa chiamata “serendipity”. La capacità di vedere qualcosa di interessante quando ti ci imbatti per caso mentre stai cercando qualcos’altro.

Non posso non accennare qui a una storia. C’era un giudice, un consigliere di Stato, certamente bravo e competente. Teneva una scuola di preparazione al concorso di magistratura (credo la tenga ancora). Con un certo successo, sia economico sia di percentuali di superamento del concorso da parte dei frequentanti. Ma – non racconterò i dettagli – pare ci fosse qualcosa di squilibrato, sia in lui sia nella scuola, ed è stato destituito dalla magistratura.

Questa storia ha tre livelli. Quello personale, dell’abuso della posizione di supremazia di cui chi insegna, avendo un certo ruolo, può rendersi responsabile. Quello del rapporto tra magistratura (amministrativa) e attività di insegnamento per l’accesso alla magistratura, specie se svolta con criterio imprenditoriale. E infine quello, che ci interessa in questa sede, del senso di una scuola.

Una scuola può sforzarsi di essere utile, aiutando chi la frequenta a passare le prove di un certo concorso e fermarsi lì. Le scuole private, normalmente, hanno questa logica, e, in un certo senso, è una logica che funziona (le percentuali di superamento delle prove di concorso che spesso vengono esibite hanno il loro peso). Però è possibile una scuola che non si appiattisca solo su quello.

In questo quadro, certo l’avvocatura non può essere un ripiego, qualcosa che si fa solo perché non si riesce a superare un concorso e a intraprendere l’unica professione che davvero si voleva fare. Anche perché fare l’avvocato non è solo un lavoro, significa svolgere una funzione indispensabile a garantire un diritto inviolabile, quello alla difesa. E poi, oltretutto, come avvocati siamo già troppi, condannati alle difficoltà che ci derivano dai nostri numeri impressionanti. E dunque, non possiamo essere una professione che funziona come un serbatoio.

Però, e ritorno al punto, la vita umana è dominata dal caso. E le passioni possono nascere per caso, inaspettate, in corso d’opera.  Se a un giovane capita di vedere come si fa l’avvocato, o anche di farlo – magari tra un concorso e l’altro – e scocca una scintilla, se trova che la cosa gli piace, che è adatta a lui, avrà trovato la sua via per realizzare la vocazione al meglio di sè stesso (quella di cui ci parlava Feliciano Benvenuti rivolgendosi, tanti anni fa, ai giovani praticanti dell’epoca).

Se la Scuola di specializzazione per le professioni legali avrà dato occasione a questo, sarà servita, e nel migliore dei modi; e quel giovane non sentirà di aver fatto un investimento sbagliato.

Stefano Bigolaro

 

*Lo scritto espone i contenuti di un intervento tenuto al convegno “Le professioni legali, oggi”, svoltosi presso l’Università di Padova, palazzo del Bo’, il 31 maggio 2019 e organizzato dalla Scuola di specializzazione per le professioni legali delle Università di Ferrara, Padova, Trieste e Venezia Ca’ Foscari

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