Già la Costituzione, nel 1948, all’art. 44, aveva previsto la necessità di “conseguire il razionale sfruttamento del suolo”.

Ma la stessa disciplina della Legge Urbanistica del 1942 e, quindi, le necessità correlate ai post eventi bellici (“piani di ricostruzione”), la mancanza, a lungo, in molti Comuni di strumenti di pianificazione (specie “seri”) ed il c.d. “boom” edilizio –correlato a quello economico- degli anni ‘60 e ‘70  dello scorso secolo, vuoi sotto il profilo residenziale che produttivo, avevano, quantomeno di fatto, spinto sempre a nuove edificazioni, di sovente disordinatamente, senza pensare che così il suolo andava –spesso malamente- consumandosi.

Solo con molto ritardo ci si è resi conto di ciò: ed esattamente 40 anni fa vi è stato un primo, timido segnale positivo in senso diverso.

Infatti, un anno dopo che con la legge n.10 del 1977 (c.d. legge Bucalossi, dal nome del Ministro dei Lavori pubblici, illustre cardiologo) si era stabilito il principio per cui –con l’eccezione delle opere di manutenzione ordinaria- “ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e l’esecuzione delle opere è subordinata a concessione” onerosa, venne stabilita una prima eccezione, mirante a favorire taluni interventi sugli immobili già esistenti.

Invero, con l’art. 48 della legge 5 agosto 1978, n. 457, per gli interventi di manutenzione straordinaria la concessione fu sostituita da una autorizzazione –gratuita e non onerosa-, per ottenere la quale la procedura fu semplificata e si previde il silenzio assenso.

Quindi, con l’art. 7 del D.L. n.9 del 1982, convertito nella legge 94/1982 (c.d. legge Nicolazzi, dal nome del Ministro), il favor non già per le nuove costruzioni ma per gli interventi sulle esistenti si manifestò con la previsione che “sono altresì soggette ad autorizzazione gratuita…le opere costituenti pertinenze od impianti tecnologici al servizio di edifici già esistenti;…le occupazioni di suolo mediante deposito di materiale o esposizioni di merci a cielo libero;… le opere di demolizione, i reinterri e  gli scavi che non riguardino la coltivazione di cave e torbiere” : il tutto con una riduzione dei tempi necessari, che, se non rispettati, facevano ottenere il silenzio assenso.

Non solo. Con la stessa disposizione si previde che neppure autorizzazione era prevista per “le opere temporanee per attività di ricerca nel sottosuolo che abbiano carattere geognostico o siano eseguite in aree esterne al centro edificato”.

Ma v’è di più: perché l’art. 10 della legge n. 47 del 1985 previde poi che, qualora le opere per cui era richiesta autorizzazione fossero state eseguite senza la stessa, ferma restando una sanzione pecuniaria (sempre che l’intervento non fosse stato effettuato in dipendenza di calamità naturali o di avversità atmosferiche eccezionali), non v’erano conseguenze penali.

E l’art. 26 della medesima legge stabilì che per l’effettuazione di opere interne alle costruzioni fosse sufficiente una comunicazione al Sindaco.

Nello stesso anno la legge urbanistica veneta, la L.R. n.61, all’art. 76, estese l’autorizzazione gratuita anche agli interventi di restauro e risanamento conservativo.

Poi, come noto, col T.U. dell’edilizia (il DPR n.380 del 2001) e con le successive leggi via via succedutesi, facilitazioni, esenzioni da titoli abilitativi, nuovi titoli edilizi più “semplici”, anche per interventi significativi, ed aumento della mera necessità di comunicazioni sono cresciuti a dismisura: e dapprima la DIA, poi la SCIA, la CIL, la CILA, ecc., hanno cominciato a farla da padroni.

Ma si è sempre trattato di modalità per interventi –sostanzialmente e per lo più di natura edilizia- da effettuare (e, quindi, di espansione). Anche se, a partire dal 1992, con i varii programmi miranti alla riqualificazione urbana, si iniziò a pensare seriamente, sotto il profilo urbanistico, ad interventi che, inevitabilmente, oltre a migliorare le città, avrebbero comportato un risparmio nel consumo del suolo (anche se ancora non lo si diceva e non rientrava quindi tra le finalità nominatim indicate dalla norma).

Eppure, in Veneto, vuoi la prima legge urbanistica regionale, la L.R. n.40 del 1980, vuoi la seconda, la L.R. n.61 del 1985, all’art. 1, dove venivano fissate le “finalità” delle leggi, già tra gli “obiettivi” delle stesse  indicavano quello dell’ “equilibrato sviluppo della comunità regionale attraverso il controllo pubblico degli insediamenti produttivi e residenziali secondo criteri di economia nell’utilizzazione del suolo e delle sue risorse” (anche se questo era sostanzialmente un auspicio e si era ancora ben lungi da quanto indicato poi dall’art.2 della terza legge urbanistica veneta, la vigente e più volte modificata ed integrata L.R. n.11 del 2004, che, all’art. 2, tra le finalità da raggiungere ha previsto quella dell’ “utilizzo di nuove risorse territoriali solo quando non esistano alternative alla riorganizzazione e riqualificazione del tessuto insediativo esistente”).

Nello stesso anno in cui entrò in vigore l’attuale disciplina urbanistica veneta (“Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio”), per la prima volta, in una legge, si parlò di “consumo” del territorio. Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D. Lgs. n.42 del 2004), invero, e non a caso in quella sede, all’art. 135, 4° comma, lett. c), stabilì che, per ciascun ambito, i piani paesaggistici definiscano apposite prescrizioni e previsioni ordinate in particolare “alla salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche degli altri ambiti territoriali, assicurando, al contempo, il minor consumo del territorio”.

E con l’art. 6, secondo comma, della legge n. 10 del 2013 (“Norme per lo sviluppo degli spazi verdi urbani”), si precisò che “ ai fini del risparmio del suolo e della salvaguardia delle aree comunali non urbanizzate, i Comuni possono…prevedere particolari misure di vantaggio volte a favorire il riuso e la riorganizzazione degli insediamenti residenziali e produttivi esistenti, rispetto alla concessione di aree non urbanizzate, ai fini dei suddetti insediamenti”.

Il termine “risparmio” si è usato anche a livello regionale: e basti pensare, ad esempio, alla L.R. 28 dicembre 2012, n.50, contenente “Politiche per lo sviluppo del sistema commerciale nella Regione del Veneto” (ed ai conseguenti indirizzi dettati dal Regolamento regionale n.1 del 2013). In essa (artt. 2 e 4) si parla, infatti, della necessità –sia pur ai fini propri della legge in questione- di “risparmio di suolo, incentivando il recupero e la riqualificazione urbanistica di aree e strutture dismesse e degradate”.

Ma tutte tali previsioni –che poi hanno avuto sistemazione, organizzazione e razionalizzazione nella L.R. veneta 6 giugno 2017, n.14 (appunto, con “disposizioni per il contenimento del consumo di suolo”): ma che già avevano avuto un’anticipazione amministrativa con la variante parziale con attribuzione della valenza paesistica apportata nel 2013 al P.T.R.C.  adottato nel 2009, laddove all’art. 6, comma 1 bis, si stabiliva che “per il monitoraggio del consumo di suolo la Giunta regionale predispone strumenti atti a realizzare un sistema informativo coerente e condiviso, sulla base di dati e definizioni confrontabili per misurare con indicatori e indici, il consumo di suolo” e “predispone criteri e metodologie per il contenimento del consumo di suolo al fine di adottare le opportune misure che limitino il consumo di territorio non urbanizzato”-  non si sarebbero, almeno in questi termini così compiuti, avute senza il previo intervento e la spinta delle istituzioni europee.

Dopo che già nel 1972 “la Carta Europea del suolo” aveva chiarito che “Il suolo è una risorsa limitata che si distrugge facilmente”, invero, in una Comunicazione del 2011 e nel Documento di lavoro dei servizi della Commissione Europea del 15 maggio 2012, contenente “Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l’impermealizzazione del suolo”, si è indicato, come obiettivo per il consumo dello stesso, quello di giungere a “quota zero entro il 2050”.

Ed a questo orientamento il legislatore italiano ha deciso di adeguarsi. Talchè nel 2016 la Camera dei Deputati approvò un disegno di legge (il n. 2383) proprio in ordine al “contenimento del consumo di suolo e riuso del suolo edificato”. Lo stesso, pur trasmesso al Senato della Repubblica, è, però, decaduto per la fine della legislatura parlamentare. Ma alcune Regioni (Lombardia, Umbria ed Emilia Romagna) ne hanno ripreso, sia pur in modo assai diverso tra di loro, taluni contenuti. Così ha ora fatto anche il Veneto con la L.R. n.14 del 2017: che, con la successiva Deliberazione della Giunta Regionale n. 668 del 15 maggio 2018, ha, tra l’altro, fissato “la quantità massima di consumo di suolo ammesso” (nel tempo e con la gradualità stabiliti, da verificare almeno ogni 5 anni) nel territorio regionale, “in coerenza con l’obiettivo comunitario di azzerarlo entro il 2050”, (limitandolo agli “ambiti di urbanizzazione consolidata”) e stabilito “la sua ripartizione per ambiti comunali e sovracomunali omogenei”. Ed i Comuni dovranno, entro 18 mesi dalla pubblicazione della testè citata DGR, adeguarsi alla stessa, fissando anche gli interventi di riqualificazione e di rigenerazione urbana.

L’obiettivo è ambizioso: ed è presumibile che, per raggiungerlo, dovranno –basandosi sull’andamento in concreto di quanto previsto- apportarsi modifiche alla legge: che, allo stato, “brilla” un po’ troppo di deroghe ed eccezioni.

Certo, l’impegno del legislatore regionale c’è stato ed è significativo: ma le difficoltà sono tutt’altro che trascurabili. E lo evidenzia il “Dossier dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) sul consumo di suolo” (ISPRA con il quale, giusta l’art. 17 della legge regionale sul consumo di suolo, che ha in tal senso modificato l’art. 8 della L.R. 11/2004, l’Osservatorio della pianificazione territoriale ed urbanistica “promuove la più ampia collaborazione”: concetto ribadito dall’art. 3 per “la Regione”, che a tal fine  “disciplina l’acquisizione, l’elaborazione, la condivisione e l’aggiornamento di tutti i dati utili per il governo del territorio regionale”) per il 2017, reso pubblico nel luglio 2018, e quindi dopo l’entrata in vigore della legge e della DGR venete, che chiarisce come, nello scorso anno, il Veneto -con l’ulteriore aumento avutosi del 12,35% del consumo di suolo, rispetto all’anno precedente, Regione in questo seconda in Italia solo alla Lombardia- abbisogna davvero che la L.R. 14 del 2017, sia pur con le modifiche del caso, vada al più presto a regime.

Ed a questo va ora aggiunto –ovviamente in relazione all’an., al quando e, soprattutto, al quomodo della sua trasformazione in legge – il disegno di legge n.43, approvato dalla Giunta regionale veneta l’8 ottobre 2018, contenente “Politiche per la riqualificazione urbana e l’incentivazione alla rinaturalizzazione del territorio veneto”.

Si tratta, invero, di una proposta -con cui significativamente viene, tra l’altro, messo a regime il c.d. Piano Casa- sotto certi profili “rivoluzionaria”: in primis per quanto attiene  ai “crediti edilizi da rinaturalizzazione”, (così vengono definiti: precisandosi, peraltro, che “le premialità” previste “sono alternative e non cumulabili con quelle di cui al capo I della legge regionale 6 giugno 2017, n.14”).

I crediti sono determinati dalla demolizione dei manufatti incongrui e –appunto- dalla rinaturalizzazione del suolo dagli stessi occupato e –fermo restando che saranno liberamente commerciabili- la loro disciplina in concreto sarà specificata con il provvedimento con cui la Giunta regionale, ai sensi dell’art. 4, 2° comma, lett. d), della legge sul consumo del suolo, già deve fissare “le regole e le misure applicative ed organizzative per la determinazione, registrazione e circolazione dei crediti edilizi”.

Il DDL contiene previsioni che si collegano strettamente a quanto previsto dalla legge regionale n.14 del 2017. E ciò è evidenziato fin dal suo articolo 1, che subito chiarisce come il Disegno di legge veda il previsto impegno della Regione “nell’ambito delle finalità di contenimento del consumo di suolo”, “nonchè di rigenerazione e riqualificazione del patrimonio immobiliare”: ed a tal fine vengono disciplinati gli interventi –per edifici di qualsivoglia destinazione d’uso- di “demolizione e ricostruzione, densificazione, creazione e riqualizicazione di spazi e strutture pubbliche e private, con incremento degli spazi verdi, da realizzare negli ambiti di urbanizzazione consolidata di cui all’art. 2, comma 1, lett e), della L.R. n.14 del 2017”. E va ricordato che già ex articolo 3, 2° comma, della legge in oggetto, “ la pianificazione territoriale e urbanistica privilegia gli interventi di trasformazione urbanistico-edilizia all’interno degli ambiti di urbanizzazione consolidata”, definiti dall’art. 2, 1° comma, lett. e), “che non comportano consumo di suolo”)

Non solo. Si stabilisce altresì (art. 7)  -e qui è da ritenere che i dibattiti non mancheranno-, “nell’ambito delle misure di riqualificazione”, che i previsti interventi di ampliamento e –appunto- riqualificazione del patrimonio edilizio esistente siano ammessi anche in deroga ai parametri edilizi di superficie e volume previsti dagli strumenti urbanistici comunali “a condizione che la capacità edificatoria riconosciuta dallo strumento urbanistico comunale sia stata previamente consumata”!

Staremo a vedere.

Le premesse ci sono.

 

Certo per ovvi motivi anagrafici, nel 2050 io non potrò constatare di persona se l’obiettivo dello “zero consumo di suolo” sarà raggiunto. Ma confido –e ne sono, da inguaribile ottimista, certo- che ciò non significherà che non vi sarà più consumo di suolo solo perché lo stesso sarà già ridotto a zero e non ve ne sarà più da consumare!

Spes ultima dea.

Marino Breganze de Capnist

 

*Introduzione al convegno “Le nuove prospettive della urbanistica veneta l.r. 14/2017 sul consumo del suolo” organizzato dal Centro studi amministrativi della Marca Trevigiana e tenutosi in Treviso il 15 ottobre 2018.

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