L’esistenza nello stesso ordinamento giuridico di più giudici che conoscono le relazioni fra le persone (fisiche o giuridiche che siano), fra queste e lo Stato, i loro atti e comportamenti, giudici preposti alla tutela degli interessi individuali e collettivi, comporta di per sé il rischio di sovrapposizioni (di giudici e di giudizi).

Se questo è un fenomeno quasi naturale, e presente in molti ordinamenti, aver previsto però un criterio di ripartizione delle controversie – fra il giudice “ naturale” dei diritti (il giudice civile) e quello, altrettanto naturale, degli atti dell’amministrazione pubblica (il giudice amministrativo) – fondato sulla distinzione teorica (e per ciò stesso opinabile e dunque variabile) della situazione giuridica soggettiva protetta dalla norma (diritto soggettivo o interesse legittimo), ha creato da sempre un grave  problema di giurisdizione. Problema risolto piuttosto bene – a mio avviso – dalla giurisdizione esclusiva del g.a., cresciuta enormemente negli ultimi 50 anni, anche se la “c.d. civilizzazione” del giudice amministrativo, cioè la dotazione del giudice amministrativo di tutte le azioni tipiche anche del giudice civile (azione di accertamento e di condanna, accanto alla tradizionale azione di annullamento) ha  paradossalmente mantenuto aree in cui le giurisdizioni civile e amministrativa ancora confliggono (soprattutto sul risarcimento del danno). E ciò nonostante il legislatore abbia cercato di sminare una delle principali aree di potenziale compresenza delle due giurisdizioni con l’attribuzione al g.a. anche del potere di privare di efficacia i contratti conseguenti all’annullamento delle aggiudicazioni.

Di ciò abbiamo sentito parlare stamane approfonditamente, con riferimento soprattutto al rapporto fra annullamento (dell’atto) e risarcimento (del danno) o al sindacato della Cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato. Un tema, quest’ultimo, da sempre aperto, che ha visto contrapporsi la Suprema Corte, come giudice della giurisdizione, al Consiglio di Stato sui c.d “limiti esterni” della giurisdizione: un confronto in cui si è inserita anche la Corte costituzionale con la nota sentenza n.6/2018, ma che è stato (forse improvvidamente) riaperto di recente dall’ordinanza delle S.U civili 19/9/2020 n. 19598 con riferimento alle violazioni di norme europee quali “motivi inerenti alla giurisdizione”. Ordinanza che tante discussioni ha generato nella dottrina che già se ne è occupata anche in recenti incontri, esprimendo perplessità sull’affidare alla Corte di giustizia la soluzione di problemi che potevano essere risolti in casa, senza esporci ad un potenziale conflitto (anche) fra la Corte europea e la nostra Corte costituzionale[1].

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Ma lasciamo questi brevi temi introduttivi nei quali però si inserisce anche quello di cui vorrei occuparmi: il tema dei rapporti fra giurisdizioni sotto il profilo dell’accertamento della validità degli atti amministrativi ad opera dei giudici diversi dal loro giudice naturale, il giudice amministrativo: e dunque ad opera del giudice civile, del giudice penale, del giudice erariale.

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Il giudice civile: quando può occuparsi degli atti dell’amministrazione?

L’esame “diretto” dell’atto amministrativo lesivo di diritti soggettivi è consentito al giudice civile sostanzialmente solo quando esso è nullo (emesso in carenza assoluta di potere, in difetto radicale di attribuzione, dei presupposti, o di forme essenziali, etc.) o considerato dal legislatore privo di imperatività degradatoria perché incontra diritti incomprimibili, non degradabili o non affievolibili a interessi legittimi: essenzialmente i diritti della persona; il diritto alla salute. O almeno così si è insegnato per molto tempo, anche se oggi non appare più così sicuro[2].

Prescindo dall’accertamento delle lesioni quando derivino da comportamenti materiali illeciti della p.a. anche se sappiamo quanto filo da torcere a dottrina e giurisprudenza abbia dato l’occupazione sine titulo (questione in qualche modo risolta anch’essa dalla giurisdizione esclusiva del g.a. ai sensi dell’art. 133, co. 1, lett.g c.p.a.). Né è possibile approfondire qui il tema del risarcimento del danno causato dall’annullamento dell’atto amministrativo favorevole (o in via di autotutela o ad opera del g.a.) o più in generale causato dalla lesione dell’affidamento ingenerato dalla p.a., azione che le S.U. riservano al g.o. (come ci ha ricordato la bella relazione della Presidente Filippi) anche quando la lesione sia conseguente a un comportamento dell’amministrazione non concretatosi in alcun provvedimento amministrativo (cfr. di recente S.U. 8236/2020).

Posizione che offre molte ragioni di perplessità nella distinzione fra affidamenti in violazione del dovere di prestazione o del dovere di protezione; perplessità che pure sorgono a proposito della cosiddetta “rinunzia abdicativa”, oggetto di un conflitto fra l’Adunanza plenaria (CdS. AP 20/1/2020 n. 2) e la Suprema Corte che, a differenza del massimo giudice amministrativo, riconosce alla rinuncia l’effetto traslativo della proprietà (cfr. Sez. I civ. 10/2/2020 n. 3035)[3].

Ma ben può giungere all’esame del giudice ordinario un atto amministrativo legittimo sotto il profilo del rispetto delle norme poste a tutela degli interessi pubblici (quelle che Guicciardi avrebbe chiamato norme di azione), ma lesivo di quelle poste a tutela dei diritti dei terzi (nome di relazione): esempio tipico il permesso di costruire lesivo delle distanze o del diritto di proprietà. In questo caso sappiamo che il giudice civile disapplica l’atto ex artt. 4-5, ALL. E e decide il caso prescindendo da esso[4].

Così come il giudice civile può disapplicare i regolamenti che reputa illegittimi, sulla scorta dei quali siano stati assunti determinati atti amministrativi, al pari di quando ormai può fare anche il g.a. ancorchè il regolamento sia stato formalmente impugnato in uno con l’atto che ne abbia fatto applicazione (anche se la giurisprudenza ondeggia fra la disapplicazione e l’annullamento erga omnes, eventualmente in parte qua).

Più di recente sono apparse però anche altre fattispecie con riferimento all’innesto del diritto commerciale/societario in quello amministrativo, nelle quali pure il giudice ordinario è chiamato a giudicare dell’esistenza e validità di atti dell’amministrazione.

Mi riferisco soprattutto al diritto delle società pubbliche (a partecipazione pubblica) che presenta molte ipotesi di necessaria valutazione da parte del giudice civile dell’esistenza e validità di atti amministrativi, in primis dei provvedimenti con cui gli azionisti pubblici abbiano previamente espresso la loro volontà con riferimento alle scelte che la società deve effettuare: ad es. un aumento di capitale deliberato dall’assemblea della società a capitale pubblico presuppone che anche i competenti organi degli enti pubblici l’abbiano legittimamente deliberato se non altro per imputare le somme nel relativo capitolo di bilancio.

Ma il giudice civile può valutare solo se la deliberazione amministrativa è stata assunta o anche se è stata assunta validamente e dunque se è legittima (alla luce delle norme che disciplinano il potere amministrativo)?  Per rimanere all’esempio, si ricordi che l’art. 7 TUSP (D.Lgs. 175/2016) disciplina la “competenza” a deliberare la partecipazione di un’amministrazione pubblica alla costituzione di una società (con DPCM se si tratta di partecipazione statale, con delib. C.C. se di partecipazione comunale etc.) e prevede anche il caso che l’atto deliberativo di partecipazione “sia dichiarato nullo o annullato”: ma se può annullarlo certamente il giudice amministrativo (su ricorso di chi vi abbia legittimazione e interesse) o la stessa amministrazione che l’ha assunto (in via di autotutela), quale altro giudice può dichiararlo nullo, se non il giudice civile (al quale è precluso invece il potere di annullarlo ex art. 4, ALL. E)?[5]

Nella stessa disposizione del TUSP, però, ci sono ipotesi tanto di “mancanza” quanto di “invalidità” dell’atto: ora se la mancanza può certo essere accertata anche dal g.o. ai fini di decidere sulla validità di una delibera della società che presupponga una deliberazione del socio pubblico[6], ciò vale anche per l’invalidità dell’atto deliberativo del socio pubblico?  Questione che potrebbe sorgere, senza dubbio, in una controversia fra soci nella quale la validità dell’atto deliberativo costituisca uno degli elementi da valutare per stabilire la validità della delibera societaria, voluta dagli uni e contrastata dagli altri, e decidere chi abbia ragione e chi torto.

Problemi che in una relazione introduttiva possono essere solo posti, ma non risolti, sia perché ciascuno di essi meriterebbe un esame specifico, sia perché molti potranno essere trattati dai prossimi relatori.

Lasciatemi solo dire che se l’atto deliberativo dell’azionista pubblico deve contenere in base al TUSP gli elementi essenziali dell’atto costitutivo previsti dagli artt. 2328 e 2463 del c.c., è evidente che la loro mancanza diventa un problema di validità dell’atto. Se poi tale invalidità sia radicale (nullità) o relativa (annullabilità) ripropone il problema di quale giudice possa sindacarla.

Di recente il nostro T.A.R. e il Consiglio di Stato si sono dovuti occupare del caso sollevato da un socio privato di minoranza di una società a prevalente partecipazione pubblica, il quale pretendeva di far liquidare le partecipazioni degli enti pubblici (in conseguenza della mancanza, ma anche dell’invalidità degli atti che questi ultimi avevano o meno assunto). Il privato nel caso si è rivolto ai giudici amministrativi impugnando gli atti deliberativi (o i rifiuti di assumerli) nei termini di decadenza (e il TAR e il Consiglio di Stato hanno ritenuto la loro giurisdizione), ma avrebbe potuto chiedere al g.o. di accertare l’obbligo degli enti pubblici azionisti di liquidare la partecipazione?

Sono solo alcuni esempi di possibili “interferenze” fra g.o. e g.a. ma moltissimi altri se non potrebbero fare.

Sebbene non sia dubbio, a mio avviso, che le deliberazioni illegittime debbano essere impugnate davanti al g.a. nei termini quando esse abbiano violato regole poste prevalentemente nell’interesse pubblico (ad es. le disposizioni degli artt. 4 e 24  del TUSP  che hanno imposto agli azionisti pubblici di deliberare entro certi termini se mantenere o meno le partecipazioni detenute in società , previa valutazione se la società svolgesse o meno servizi essenziali per la collettività di riferimento dell’ente pubblico titolare delle partecipazioni), può essere che tale regola possa essere superata, a vantaggio del g.o., quando la validità o meno dell’atto amministrativo si inserisca in una fattispecie nella quale la norma (che disciplina  l’atto) sia posta a tutela esclusiva dei soci e dunque dei loro diritti soggettivi?

Ma questi temi ci porterebbero lontano e dunque qui mi fermo,  anche se la questione dell’accertamento (incidentale) della legittimità dell’atto dell’amministrazione (anche a carattere provvedimentale) si pone tutte le volte che l’atto si inserisca in una controversia civilistica nella quale uno dei contendenti ponga l’atto dell’amministrazione come fondamento dell’azione o  dell’eccezione, o più in generale quando la violazione di norme pubblicistiche possa essere invocata come fonte della violazione anche di norme poste a tutela di altri interessi pubblici , come le norme sulla concorrenza .

Oltre ai casi cui già abbiamo accennato,  in cui la domanda specificamente riservata al g.o. (ad es. quella di indennità) poggi però sulla esistenza e/o inoppugnabilità del provvedimento (ad es. di espropriazione), non mancano casi in cui al g.a. ben può essere rivolta in via principale la domanda di accertamento della nullità del provvedimento (per rimanere nell’esempio del decreto di espropriazione, per difetto dei suoi requisiti essenziali)  con conseguente condanna al risarcimento del danno e solo in via subordinata quella di indennità ove la prima fosse respinta.

In definitiva “interferenze”, se così vogliamo chiamarle, fra il giudice civile e quello amministrativo con riferimento allo stesso episodio di vita in cui sia parte una pubblica amministrazione non mancano e sempre più ne avremo con l’innesto delle categorie civilistiche nel diritto amministrativo, ma anche con  la creazione di enti la cui natura pubblica o privata non è definibile a priori, oppure di cui è chiara la natura pubblicistica sostanziale  ma che pur tuttavia appartengono per statuto normativo (penso alla Cassa DD.PP.) alle “market unit” chiamate ad operare nel mercato secondo regole privatistiche.

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Veniamo ora al giudice penale e alle ipotesi nelle quali anche esso sia chiamato a valutare la legittimità o meno di un atto dell’amministrazione. Ipotesi alle quali, in una relazione introduttiva, potrò solo fare alcuni cenni data l’ampiezza del tema.

Nel giudizio penale l’atto amministrativo può infatti presentarsi in svariati modi: può essere il parametro di riferimento della condotta da valutare: ad es. nell’art. 650 c.p. l’accertamento della “legalità” dell’ordine dell’autorità è rimesso al giudice penale.  Così come l’atto amministrativo può integrare la fattispecie illecita nell’abuso d’ufficio (ex art. 323 c.p.); oppure costituire un presupposto (negativo) della condotta illecita: costruire senza permesso di costruzione o in difformità da esso (ex art. 44 T.U. 380/01); oppure ancora costituire una causa di giustificazione della condotta quando costituisce un’esimente (l’ordine legittimo dell’autorità ex art. 51 c.p.).

L’ipotesi più discussa in passato, nata nell’alveo della disciplina edilizia, è senz’altro quella della “costruzione in assenza di permesso di costruire” e da sempre sanzionata penalmente (oggi dall’art. 44, T.U. 380).

In quest’ultimo caso il problema si è posto da tempo in termini molto radicali per la pretesa del giudice penale di poter sindacare anche la validità del permesso edilizio, ritenendolo illegittimo e disapplicandolo, equiparando così la fattispecie penale della costruzione senza licenza a quello della costruzione sulla base di una licenza illegittima; giurisprudenza ancora attuale (cfr. Cass. penale, III n.12389/2017; 56678/2018 e 37475/2019), neppure più limitata alla “macroscopica” illegittimità del permesso di costruire sulla quale si era attestata per un certo periodo di tempo (vedi riassunto lo sviluppo della giurisprudenza in materia in Cass sez. III pen. 56678/2018 cit.) ancorché risulti necessario ravvisare in capo all’agente un elemento soggettivo quantomeno colposo, ovvero “l’esistenza di profili assolutamente eclatanti di illegalità che costituiscono significativo indice di riscontro dell’elemento soggettivo anche riguardo all’apprezzamento della colpa” (sentenza ult. cit.).

Tesi contrastata vivacemente in dottrina da chi[7] ha sostenuto che la fattispecie penale è integrata solo dall’assenza di un titolo, non dalla costruzione in presenza di titolo (legittimo o illegittimo) la cui valutazione di legittimità è rimessa al g.a., salvo le ipotesi di nullità del titolo edilizio per difetto assoluto del potere in capo all’autorità che lo ha emesso, o perché costituisca il frutto dell’attività criminosa dell’autore o del beneficiario del titolo stesso.

Diversi sono i casi dell’“esecuzione dei lavori in totale difformità dal permesso di costruzione” o della “inosservanza delle norme, prescrizioni o modalità esecutive previste… dagli strumenti urbanistici o dal permesso di costruire”… pure previste dall’art. 44 T.U..

Qui il giudice penale e il giudice amministrativo sono chiamati a lavorare nello stesso alveo e le loro giurisdizioni possono concorrere: ben potendo il provvedimento permissivo (il permesso di costruire) essere sub iudice amministrativo (perché avversato dal vicino o dall’associazione ambientalista), o essere sub iudice il provvedimento sanzionatorio emesso dal Comune (perché avversato dal destinatario). Ma ben potendo il giudice penale esercitare l’azione penale anche pendendo i giudizi amministrativi, con ovvie possibilità di conflitti di giudicato.

Situazioni analoghe potrebbero comunque presentarsi tutte le volte che la legge amministrativa subordina una certa attività ad un titolo permissivo (nulla osta, autorizzazione, concessione, etc.) sanzionando penalmente l’attività posta in essere in assenza o in difformità da esso. Tutto il diritto dell’ambiente è zeppo di simili fattispecie: dal TU beni ambientali e culturali 42/2004, al D.Lgs. 152/2006 (Norme in materia ambientale).

Solo alcuni esempi: l’art. 29 quattordecies del D.Lgs 152 sanziona “chiunque esercita una delle attività senza essere in possesso dell’autorizzazione ambientale integrata”; gli artt. 169, 175, 181 del T.U. 42/2004 chiunque esegua opere sui beni tutelati “in assenza di autorizzazione o in difformità da essa”.

Si pongono in questi casi gli stessi problemi che abbiamo accennato per l’ipotesi di costruzione senza licenza o in base a licenza ritenuta illegittima dal giudice penale che pretende di sindacare non l’assenza che è un fatto, ma la legittimità o meno del titolo rilasciato dalla p.a..

Tutti temi così noti che li accenno solo.

Veniamo però al tema di maggiore attualità che è la modifica dell’art. 323 c.p. (abuso d’ufficio) ad opera del decreto semplificazioni (art. 23, D.L. 76/2020 conv. in L. 120/2020). Tema che è sempre stato molto “caldo” perché, attraverso l’abuso d’ufficio, il giudice penale è stato sempre accusato di ingerirsi nell’attività amministrativa, inducendo l’amministrazione ad una vera e propria “fuga dalle responsabilità”; ingerenza che, unitamente al dilatarsi della responsabilità erariale (sul quale ci soffermeremo fra breve) ha finito per attribuire alla nostra amministrazione pubblica il carattere di un’amministrazione sulla difensiva, diretta piuttosto a proteggersi che a proteggere e servire i cittadini.

C’è del vero in questa ricostruzione, dal momento che già in precedenza (con la L. 234/1997, ma ancor prima con la L. 86/1990) il legislatore era stato indotto ad intervenire sul testo dell’art. 323 c.p. per evitare che il giudice penale si sentisse autorizzato a sindacare l’attività amministrativa sotto ogni profilo, così da poter configurare gli estremi del reato di abuso d’ufficio ogni qualvolta ravvisasse un’illegittimità nel comportamento dei funzionari e l’assunzione di provvedimenti illegittimi, qualsiasi fosse l’illegittimità rilevata. In particolare, ritenendosi autorizzato a sindacare non solo la violazione dei principi generalissimi che governano l’attività amministrativa (buon andamento, imparzialità), ma anche l’eccesso di potere, tipico vizio della discrezionalità amministrativa.  La riforma del 1997 introducendo la formula della “violazione di norma di legge o di regolamento” e del “dovere di astensione” già mirava a circoscrivere il sindacato penale sugli atti amministrativi, per ovviare alla genericità della formulazione previgente del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che “abusa del suo ufficio”, locuzione che consentiva al giudice penale di ingerirsi nei settori riservati alle decisioni amministrative. Con il riferimento alla sola “violazione di legge” il legislatore riteneva (sbagliando) di aver escluso l’incompetenza e soprattutto l’eccesso di potere dai vizi accertabili dal giudice penale.

Dopo una prima effettiva riduzione del sindacato sulla legittimità dell’atto da parte della giurisprudenza[8], la Cassazione è invero tornata a ravvisare nello sviamento (rispetto al fine tipico determinato dal legislatore per l’esercizio del potere) una possibile integrazione della fattispecie penale, se unita agli altri elementi della fattispecie (il beneficio o il danno indebito) spesso però presenti nello sviamento stesso. La Suprema Corte ha condotto questa “operazione” semplicemente facendo  rientrare anche l’eccesso di potere per sviamento fra le “violazioni di legge” (quantomeno dell’art. 97 della legge fondamentale), precisando però  che il sindacato penale della legittimità dell’atto amministrativo non ha niente a che fare  con il potere di disapplicazione di cui all’art. 5 ALL. E, in quanto non verrebbero in rilievo “gli effetti tipici” dell’atto amministrativo, ma la “valenza criminosa” dell’atto amministrativo in quanto tale.

Non è chi non veda in definitiva come la fattispecie dell’art. 323 c.p. si ponga veramente al centro del nostro tema, quello dei confini fra le giurisdizioni perché essendo un reato del pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio che nello svolgimento delle proprie funzioni o del servizio, abbia violato norme di legge o di regolamento, è evidente che stiamo parlando di atti amministrativi (esplicazione della funzione amministrativa) commissivi od omissivi il cui sindacato di legittimità (violazione di legge) è rimesso (anche) al giudice penale.

Certo l’accertamento della illegittimità non basta ad integrare il reato, perché la violazione deve essere diretta intenzionalmente (dolo intenzionale) a procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o ad arrecare ad altri un danno ingiusto, ma non è dubbio che valutare le finalità dell’atto amministrativo è pure tipico del sindacato giurisdizionale amministrativo nella figura dell’eccesso di potere quantomeno sub specie dello sviamento. Del resto, se il vaglio del giudice penale può riguardare il profilo finalistico, mediante un accertamento di carattere “soggettivo” dei motivi che hanno indotto il funzionario ad agire, è facile trascorrere dall’accertamento, per così dire “oggettivo”, della invalidità come mera difformità dell’atto dallo schema legale, all’accertamento giudiziale della “volontà deviata” dell’agente rispetto al fine per cui il potere gli è attribuito, secondo il “prudente” apprezzamento del giudice.

Tant’è che la Cassazione è tornata, come dicevo, ad allargare il suo sindacato anche alla figura sintomatica dello sviamento tutte le volte che la condotta, ancorché formalmente legittima sia stata diretta “alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito” (Cass. S.U. 155/2011 e nello stesso senso Cass. 19519/2018). Violazione di legge rilevante come abuso anche se l’atto sia giudicato in contrasto solo con i principi generali che regolano l’attività amministrativa (quella, per intenderci, dell’art. 97 Cost. come declinato dall’art. 1 della L. 241).

È vero che la Cassazione penale, percependo forse un clima progressivamente contrario a tale indirizzo – ancorché va detto che nel 90% dei casi i giudizi si concludono con assoluzioni, dato che comporterebbe però un altro genere di riflessioni – aveva recentemente mutato orientamento (Cass. V, 13/11/2019 n. 49485) ed escluso lo sviamento dai vizi di legittimità sindacabili, limitando così l’abuso d’ufficio alla violazione di disposizioni che prescrivono profili formali o sostanziali vincolati all’esercizio del potere. Un revirement ante legem, nel senso che la Corte ha in qualche modo anticipato la riforma di cui diremo subito.

Tuttavia, anche in questo caso, potremmo avere un atto giudicato legittimo dal g.a. o non impugnato da nessuno (inoppugnabile), ma portato all’attenzione del giudice penale da un esposto di chi si è sentito ingiustamente leso dall’atto (o da un’omissione) della p.a., oppure, essendo un reato perseguibile d’ufficio, anche accertato autonomamente dagli organi acquirenti.

E se si osservano i casi in cui l’art. 323 è stato applicato (anche dopo la riforma del 1997) troviamo un po’ di tutto, sia di atti giudicati penalmente illeciti perché affetti dai  vizi tipici dei provvedimenti amministrativi (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere), ma anche estranei a quella tipizzazione (e magari addirittura riconosciuti formalmente legittimi), ma egualmente considerati illeciti per “devianza” dalla loro causa tipica o da altri elementi essenziali previsti dal legislatore (o che il giudice abbia ritenuto tali).

In definitiva, poiché l’abuso d’ufficio viene ricondotto nell’alveo della tutela dell’imparzialità e del buon andamento (art. 97 cost.), consumato attraverso la mancata osservanza di norme dirette a perseguire dette finalità, capiamo subito che esistevano reali pericoli di sovrapposizione e contrasto fra i giudizi del giudice penale e di quello amministrativo, dal momento che anche i vizi sindacati dal g.a. configurano violazioni di tali principi. Ma allora, se il cuore dell’illecito penale è il medesimo del vizio di legittimità, sono (o dovrebbero allora essere) altre le circostanze che configurano il reato rispetto alla mera illegittimità amministrativa: circostanze che dimostrino la finalizzazione della volontà del funzionario o dell’organo amministrativo collegiale di produrre un ingiusto vantaggio o un ingiusto danno, deviando dalla causa tipica dell’atto che deve essere esclusivamente il perseguimento del pubblico interesse, come delineato dalla norma.

Deviazione che deve allora risultare aliunde: da particolari vantaggi personali dell’agente o viceversa da particolari danni procurati deliberatamente al destinatario dell’atto; da particolari rapporti personali esistenti fra l’agente e il beneficiato o danneggiato; insomma il risultato di una “doppia ingiustizia”, della condotta e del danno (o del beneficio).

Danni e vantaggi che dopo la riforma del 1997 devono essersi realmente realizzati (c.d. “reato di danno”).

Erano dunque rimasti, a dispetto della riforma, molti margini di sovrapposizione, cosicchè l’abuso d’ufficio era divenuto uno “spauracchio” che, come dicevo, consentendo “incursioni” del giudice penale nell’attività amministrativa anche discrezionale (quantomeno quando lo svolgimento della funzione oltrepassi ogni probabile scelta attribuita al funzionario: Cass. VI, 4140/2009), aveva creato un’ulteriore ragione di fuga dalla responsabilità dei pubblici funzionari. Ed invero, al di là degli approfondimenti che la ricca casistica dell’art. 323 consente di effettuare, gli è che, esaminando le diverse fattispecie, si constata che frequentemente era proprio l’adozione dell’atto amministrativo considerato illegittimo, a prescindere da altri elementi, ad integrare il reato: ad es. l’aver rilasciato un parere favorevole per la ricostruzione di un fabbricato in centro storico in quanto assunto in contrasto con il P.R.G. a prescindere dai rapporti intercorrenti fra il funzionario e l’istante; l’aver applicato o scomputato indebitamente oneri di urbanizzazione nella convenzione che accedono ai piani attuativi, aut similia.

Così il legislatore (art. 23 Decreto semplificazioni) ha ritenuto di dover tornare sull’art. 323 c.p. modificandolo nuovamente, espungendo la violazione delle norme regolamentari e restringendo il sindacato del giudice penale alla violazione di “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge e da altri aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”: una formula che specificherebbe ulteriormente quella della riforma del 1997 al fine di escludere definitivamente il sindacato penale sulla scelte discrezionali della p.a.

Ma di quale discrezionalità? Di quella squisitamente “amministrativa” (scelta fra più interessi pubblici rimessa all’amministrazione) o anche di quella “tecnica” (se vincolare o meno un certo bene, se considerare pericoloso un certo fabbricato, etc.)

Ed esistono veramente norme che escludono proprio qualsiasi margine di discrezionalità?

Certo l’obbiettivo della riforma è chiaro, come dicevo,  non dissimile da quello della precedente riforma del 1997: se anche l’art. 323 c.p. si inserisce nel novero delle norme dirette a consentire un efficace controllo dell’operato della p.a. ad opera del potere giurisdizionale, al pari delle norme che attribuiscono al giudice amministrativo il sindacato dei vizi degli atti amministrativi, il legislatore ha inteso preservare anche il valore della c.d. riserva di amministrazione (che si esprime essenzialmente nella discrezionalità). Un equilibrio non facile, peraltro, in una logica di diritto soggettivo, per cui il controllo giurisdizionale del g.a. è diretto sì alla tutela della legalità, ma attraverso la protezione delle situazioni giuridiche soggettive fatte valere in giudizio da soggetti che affermano di essere stati lesi dagli atti o dalle omissioni dell’amministrazione, soggetti che pretendono dunque un’attività legittima della p.a. per salvaguardare od ottenere però un bene della vita specificamente protetto dalle norme in capo ad essi (Corte Cost. 115/2001). Mentre il controllo giurisdizionale del giudice penale sulla p.a. è diretto esclusivamente alla tutela della legalità, a prescindere dalle lesioni di interessi individuali: controllo che però deve esercitarsi nel rispetto del principio di separazione fra giurisdizione e amministrazione e di quello di prevedibilità delle decisioni. Principi che l’invadenza del giudice penale spesso ha sacrificato.

Riuscirà la modifica or ora introdotta a porre quell’argine fra il potere giurisdizionale e quello amministrativo?

Certo ridurre il sindacato dal giudice penale ai profili dell’attività amministrativa “vincolati” dalla legge non gli consentirà di sindacare la direzione della volontà dell’agente, di sanzionare il fine dell’atto diverso da quello tipico, perché se l’atto è vincolato il fine lo ha determinato il legislatore; ma, come dicevo, esiste oggi veramente un atto totalmente vincolato in un ordinamento così complesso, in cui anche l’atto amministrativo più banale è soggetto a valutazioni di carattere tecnico, ma soprattutto di interpretazioni della norma regolatrice, tali per cui la scelta di un’opzione o di un’altra potrebbe consentire al funzionario di privilegiare o meno un interesse o un altro, un istante o un altro? Cosicché il giudice penale potrebbe essere indotto a mantenere sottoposti al suo giudizio e ritenere illegittimi elementi solo apparentemente vincolati del procedimento o della decisione amministrativa, sovrapponendo così il suo giudizio, la sua interpretazione delle norme regolative della funzione, a quello dell’amministrazione. E ciò a dispetto della volontà del legislatore di contenere la valutazione del giudice penale esclusivamente alla violazione di “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge… e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”.

Opzione peraltro già prospettata e finanche auspicata in dottrina da chi è preoccupato di un arretramento del controllo del giudice penale sul fronte della legalità amministrativa, controllo che verrebbe confinato ai reati bagatellari, mentre sfuggirebbero quelli più gravi connessi proprio all’uso della discrezionalità ove si anniderebbe l’abuso del potere[9].

Si potrebbe obiettare che se lo stesso giudice amministrativo arretra di fronte alle scelte discrezionali, quelle in cui l’amministrazione è chiamata a decidere sulle modalità di perseguimento dell’interesse pubblico (se non talvolta persino su quale l’interesse pubblico privilegiare) – consentendosi solo un apprezzamento  esterno, in pratica esclusivamente limitato alla manifesta razionalità o meno della scelta compiuta,  ma confinando il merito amministrativo al di fuori del suo apprezzamento – è ammissibile che la valutazione dell’interesse pubblico perseguito dall’amministrazione sia invece lasciato nelle mani del  giudice penale ? Non appare invece sufficiente che la tutela della legalità amministrativa sia lasciata a quelle esperte del giudice amministrativo su ricorso dei soggetti che ne lamentino la violazione, tanto più oggi che la legittimazione al ricorso giurisdizionale tanto si è ampliata anche a enti ed organismi portatori di interessi non esclusivamente individuali se non addirittura al quivis de populo quando si erga a tutore di interessi ambientali?

***

Per venire al terzo giudice dell’attività amministrativa – o meglio sarebbe dire della responsabilità dei funzionari pubblici ad essa conseguente – la Corte dei Conti, diciamo subito che anche la riforma operata dal decreto semplificazioni (art. 21) mira alla stessa finalità: quella di ridurre un ostacolo, o ritenuto tale dal legislatore, alla operatività della burocrazia, rendendo meno sindacabili le sue decisioni dal giudice contabile.

L’assunto posto a base della riforma è stato che anche la responsabilità erariale, come quella penale, era divenuta una forte remora alla capacità di assumere decisioni da parte dell’amministrazione, soprattutto quando comportino esercizio di discrezionalità. E in un momento come questo in cui l’amministrazione deve correre per assumere decisioni tempestive per affrontare la pandemia e la crisi economica che ne consegue, certo ridurre i rischi di responsabilità penale ed erariale appare un obbiettivo comprensibile e condivisibile, anche se ovviamente non esente da altri rischi, quelli che la maggiore libertà sempre comporta e cioè che se ne abusi.

E’ vero tuttavia che, come le Procure della Repubblica avevano esagerato nell’azione penale, visto che la grandissima parte dei giudizi per abuso d’ufficio si concludevano con assoluzioni, così anche le procure e i giudici erariali sono stati spesso messi sotto accusa di sottoporre l’operato dell’amministrazione ad un sindacato troppo stretto, ravvisando responsabilità erariali con criteri eccessivamente severi, aggirando spesso la volontà del legislatore che pretendeva che il danno erariale fosse causato da una colpa grave per integrare una fattispecie di responsabilità: “gravità” interpretata in modo talvolta effettivamente molto “largo” dalla magistratura contabile. Così il legislatore ha inciso, innanzitutto, su questo elemento soggettivo ancorché solo per le condotte attive e non per quelle omissive (ex art. 21, co. 2 ultima parte), richiedendo che la responsabilità possa discendere solo da una condotta “dolosa” (e non meramente “colposa”); ed inoltre, sempre per superare la giurisprudenza delle sezioni giurisdizionali della Corte, il legislatore pretende ora che sia la Procura a dare la dimostrazione tanto della volontà della condotta da parte del funzionario pubblico, quanto della “volontà dell’evento dannoso” (1° co. dell’art. 21 cit.).

Se dunque è comprensibile l’obbiettivo di rendere l’amministrazione meno timorosa così da indurla ad operare con maggior sicurezza, lascia perplessi la limitazione della responsabilità alla volontà della condotta e dell’intento dannoso prevista solo per le condotte attive e non per quelle omissive, perché evidentemente o si ritiene che l’omissione non possa che essere volontaria, mentre anch’essa può certo dipendere da distrazione o neghittosità colpevoli, o che sia opportuno continuare a colpire le omissioni gravemente colpevoli quando da esse derivi un danno alla p.a. o a terzi che poi si rivalgono sulla p.a.

Ma ciò non convince perché non sembra ragionevole il diverso giudizio di gravità delle due condotte.

Meno ancora convince la temporaneità della limitazione (ex art. 21, 2° co.) perché, se si ritiene che il sindacato della Corte dei conti fosse “fuori misura”, e costituisse una remora indebita all’azione della p.a., perché limitarla solo per un periodo (fino al 31/12/2021)? Come se trascorso questa data non fosse più necessario liberare la burocrazia da indebiti timori!

Ma tant’è, evidentemente questo è stato il frutto di un compromesso politico come del resto quello che ha circoscritto l’abuso d’ufficio anziché abrogarlo tout court, come pure era stato auspicato da molti anche in dottrina e nel foro, oltre che da appartenenti alla p.a..

Ma de hoc satis.

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Veniamo ora rapidamente ad altre ipotesi in cui ci possono essere sovrapposizioni o conflitti fra la giurisdizione erariale e le altre giurisdizioni (civile o penale).

Ora, mentre appare del tutto naturale che un atto illegittimo e perciò annullato dal g.a. possa essere considerato causativo di danno erariale (ad es. perché l’amministrazione soccombente è stata condannata al risarcimento del danno o anche solo alla rifusione delle spese di giudizio), il giudice erariale non è di regola affatto condizionato dal preventivo giudizio di legittimità del giudice amministrativo, essendo (il primo)  libero di valutare la validità degli atti dell’amministrazione dai quali ritenga che siano derivati danni materiali (o anche immateriali) all’amministrazione cui l’autore dell’atto appartiene.

Il tema non è dissimile da quello che abbiamo esaminato con riferimento ai rapporti fra giudice amministrativo e giudice penale quantomeno quando l’atto amministrativo sia l’elemento costitutivo dell’illecito (come nel caso dell’abuso d’ufficio).  Anche nella responsabilità erariale l’atto amministrativo illegittimo (come l’illegittimità dell’inadempimento, del silenzio o dell’omissione) può costituire uno degli elementi della fattispecie produttiva di responsabilità.  Se tuttavia non sembra facilmente ipotizzabile che un atto riconosciuto legittimo dal g.a. possa essere ritenuto (dal giudice contabile) causativo di un (ingiusto) danno erariale, per configurare una responsabilità erariale derivante da un atto dell’amministrazione bisogna ipotizzare allora o che  l’illegittimità non sia stata accertata  né dalla stessa amministrazione (per es. in via di autotutela) né dal g.a. (perché nessuno ha impugnato l’atto), cosicché il giudizio della Corte non deve considerare (né confrontarsi con il) il giudizio di legittimità già espresso da altre autorità (amministrative o giurisdizionali che siano). Anche se in taluni casi può essere proprio il mancato intervento in autotutela dell’Amministrazione, tanto più quando debitamente sollecitata, ad essere giudicato gravemente colpevole[10].

Non ho rintracciato, sebbene ad un esame non approfondito,  casi in cui la Corte si  dichiari  esplicitamente  non condizionata  nel suo giudizio dal preventivo giudizio di legittimità espresso da altri sull’atto amministrativo, anche se nelle complesse vicende portate all’esame dei giudici contabili  non escludo affatto che possano esserci, essendo a rigore vincolante per i giudici amministrativi  (ex art. 651 c.p.p.) solo i fatti oggetto di giudicato penale e non la loro qualificazione giuridica. Del resto, se la Cassazione ammette (cfr. S.U. 9680/2019 e Corte dei conti Sez. giurisd. Veneto 121/2009) che il sindacato della Corte dei conti sulla condotta del funzionario pubblico, il quale risulti aver operato per il perseguimento di finalità istituzionali dell’ente, possa estendersi anche “alle singole articolazioni dell’agire amministrativo” e dunque anche solo ai criteri di buona amministrazione, è evidente che la legittimità dell’atto amministrativo non costituisce più un discrimine per escludere il danno erariale e il relativo sindacato del giudice contabile.

Quanto invece al rapporto con il giudice penale è divenuto frequente che al giudizio di responsabilità penale segua o si aggiunga quello di responsabilità erariale, anche solo per i danni di immagine che il reato del dipendente infedele abbia procurato all’ente (Cass. pen. VI, 35205/2017).

Più complesso, come noto, è invece il rapporto con il giudice civile che si incentra sull’esclusività o meno in capo alla procura della Corte dei conti dell’azione di responsabilità erariale.

Tema un tempo molto discusso e oggetto di orientamenti giurisprudenziali ondivaghi, ma che appare oggi attestato sul principio dell’autonomia e indipendenza delle due azioni, civile ed erariale, cosicché si ritiene che la Procura della Corte dei conti non abbia l’esclusiva dell’azione, ben potendo (e fors’anche dovendo) l’ente di appartenenza agire in sede civile per il risarcimento del danno ad esso procurato dall’agente colpevole (cfr. recentemente anche S.U. 8634/2020 sull’indipendenza del giudizio risarcitorio in sede civile attivato dalla pubblica amministrazione nei confronti del proprio funzionario infedele nonostante la pendenza di un giudizio innanzi alla Corte dei conti in conseguenza di un peculato accertato dal giudice penale : un caso emblematico in cui operano tutti e tre i giudici e che qualche dubbio sulla funzionalità del sistema dovrebbe suscitare…) .

La possibile concorrenza delle due azioni viene giustificata con la “diversità” dell’azione erariale rispetto a quella civile: azione doverosa, la prima, da esercitarsi come funzione “obbiettiva e neutrale” a tutela degli interessi generali dell’ordinamento, con  un  carattere prevalentemente sanzionatorio e connesso potere riduttivo; esclusivamente “risarcitoria”, la seconda , diretta al “pieno ristoro” del danno subito dall’ente, da esercitarsi a tutela degli interessi particolari e concreti dell’ente (così recentemente, S.U. civili 19/2/2019 n.4883 e in termini, da ultimo, Trib. Milano, sez. XIV 16/4/2020 n. 2416). Tesi francamente non del tutto convincente, quantomeno dal punto di vista dogmatico, visto che gli enti pubblici tutelano gli interessi “specifici” loro affidati dell’ordinamento, ma che sono pur sempre interessi generali, in quanto intrinseci alla pubblicità dell’ente[11].

Quanto al pericolo che – in ragione di questa concorrenza –   per lo stesso danno il funzionario pubblico possa essere chiamato a rispondere due volte, esso viene superato sancendo che il danno erariale deve “scomputare” quanto il dipendente o l’amministratore sia stato eventualmente chiamato a risarcire l’ente in sede civile.

O, meglio,  affermando che la proponibilità dell’azione di responsabilità – o, viceversa, dell’azione di danno in sede civile o penale – trova come unico limite il fatto che l’ente danneggiato abbia già ottenuto il risarcimento di tutti i danni patiti; cosicché non si tratterebbe di una questione di giurisdizione  anche  quando i giudizi riguardino lo stesso fatto materiale , ma solo di una possibile “interferenza “ fra i giudizi in cui opera l’effetto preclusivo del giudicato formatosi in uno di essi quando costituisca titolo per l’integrale risarcimento dell’ente danneggiato[12].

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Anche con riferimento ai giudizi della Corte dei conti, l’innesto del diritto commerciale e societario è stato fonte di molte incertezze applicative soprattutto con riferimento alle società a partecipazione pubblica.

Sulla giurisdizione stessa della Corte dei conti sulle società pubbliche molto si è discusso in dottrina, con esiti diversi in giurisprudenza, con riferimento soprattutto all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, ancora una volta in bilico fra l’azione della Corte e quella ordinaria disciplinata dal codice civile. Oggi la querelle sembra composta (quantomeno dopo la sentenza delle S.U.13/4/2016 n. 7293)  anche ad opera del TUSP 175/2016 che all’art.12, co.1 riconosce la giurisdizione della Corte dei conti “per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house, in quanto in tale caso sarebbe “superata l’autonomia  della personalità giuridica” (della società rispetto all’ente pubblico socio),  essendo la società in questa prospettiva un organo indiretto, un’articolazione  dell’ente pubblico , socio totalitario, di tal che verrebbe meno anche l’alterità dei rispettivi patrimoni (così già  S.U. 26283/2013; e, più di recente, S.U. civili 13/9/2018 n. 22406 con ampi richiami allo sviluppo giurisprudenziale precedente,  che comunque non esclude il concorso anche della giurisdizione ordinaria in forza della diversità di oggetto e di funzione dei due giudizi, come abbiamo ricordato sopra); mentre nel caso di società miste spetta al giudice ordinario la giurisdizione in materia di risarcimento dei danni subiti dalla società per effetto di condotte illecite degli amministratori o dei dipendenti (così già S.U. 26806/2009, sentenza richiamata ma fatta  oggetto di ulteriori precisazioni da S.U. 28/6/2018 n.17188), mentre la Corte dei conti potrebbe occuparsi esclusivamente della responsabilità dei rappresentanti dell’ente nella società i quali abbiano  colpevolmente trascurato di esercitare i propri diritti di socio in tal modo pregiudicando il valore della partecipazione. Ma in tal senso ormai anche il TUSP, all’art. 12, 2 co., secondo cui costituisce “danno erariale il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito dagli enti partecipanti ivi compreso il danno conseguente alla condotta dei rappresentanti degli enti pubblici partecipanti o comunque dei titolari del potere di decidere per essi, che, nell’esercizio dei propri diritti di socio, abbiano con dolo o colpa grave pregiudicato il valore della partecipazione”, ad esempio non promuovendo l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori o dei sindaci così da compromettere gli interessi dell’ente e le risorse pubbliche investite nella società[13].

Poste così le premesse del riparto di giurisdizione fra giudice ordinario e giudice contabile, la Corte  di cassazione ha poi spesso riconosciuto la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti degli amministratori dell’ente (sindaco, consiglieri comunali e dirigente al bilancio), in fattispecie in cui sub iudice  erano finanziamenti degli enti pubblici soci a società partecipate che avevano comportato minori dividendi e dunque minori entrate per il bilancio pubblico (SU 4132/ 2019); un caso in cui presupposto dell’azione erano le deliberazioni amministrative riguardanti le società, come anche nell’azione proposta contro gli assessori che avevano deliberato finanziamenti a una società in odore di decozione (come quello deciso dalla Corte dei conti III 137/2014) . Ma le S.U. (n. 21962/2016) hanno  affermato la giurisdizione contabile anche nei confronti di due sindaci per il danno cagionato agli enti dalla sottoscrizione da parte dell’amministratore delegato della partecipata, su loro richiesta, di un contratto di sponsorizzazione per una manifestazione sportiva;  e la Corte dei conti, dal canto suo, ha ravvisato la responsabilità per danno del socio pubblico di maggioranza (rectius dei rappresentanti dell’ente nella società) per essere rimasto inerte per più anni di fronte a dei bilanci falsi,  fonte di danno erariale (Sez. giurisd. Lazio, n.  118 del 2015).

Come si capisce, non tutte le fattispecie rispettano veramente   la regola del riparto che le S. U. hanno definito, perché spesso sembra essere la concreta fattispecie a determinare il giudice e l’azione, piuttosto che la rigorosa applicazione della regola generale, ma anche per merito del TUSP del 2016 il riparto di competenze fra le giurisdizioni sembra essere in via di ricomposizione.

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Lascio ai relatori lo sviluppo di tutti questi temi, che ho forse troppo rapidamente affastellati insieme, nell’intento di fare un po’ di chiarezza, e sperando di non aver invece alimentato ulteriormente la confusione dei rapporti tra le diverse giurisdizioni che, nella loro compresenza in aree di intervento comune, ancora talvolta sembrano fatichino a rispettare i confini di ciascuna.

Ma sono certo che dopo aver sentito le specifiche relazioni di approfondimento, magari diversamente orientate rispetto a questa relazione introduttiva, l’amico Enrico Follieri saprà magistralmente trarre le conclusioni che metteranno al loro posto tutti i pezzi di quello che può apparire un puzzle ancora da comporre.

Vittorio Domenichelli

 

[1] Al tema sono stati dedicati i contributi apparsi nella sezione “diritto e processo amministrativo” della rivista www.giustiziainsieme.it di G. TROPEA, il Golem europeo e i motivi inerenti alla giurisdizione (nota a Cass. sez. un. ord. 18 settembre 2020, n. 19598 (ivi, 7/10/2020), F. FRANCARIO, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale, piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione) (ivi, 11/11/2020), M.A. SANDULLI, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020 (ivi 30/11/2020).

[2] Il tema è invero tutto ancora “da arare”, soprattutto dopo l’avvento della CEDU, come efficacemente ha scritto R. CONTI, Il mantenimento del ruolo della Corte di Cassazione fra unità della giurisdizione e unità dell’interpretazione, in Consulta on line 2015, fasc. III. Cfr. però, E. SCODITTI, I diritti fondamentali fra giudice ordinario e giudice amministrativo, in nota a Cass. S.U. 25/11/2019 n. 25011, in Foro it. 2015, III, p. 951 ss. e più recentemente M. NOCCELLI, Il giudice amministrativo e la tutela dei diritti fondamentali, in SIPOTRA, 20/2/2018.

[3] Incertezze che ancora sono presenti nell’individuazione della giurisdizione nel caso di risoluzione dei contratti pubblici o di recesso dagli stessi: sulla risoluzione cfr. Cass. sez. I 2295/2014 e TAR Milano 1981/2016 che riconoscono la giurisdizione del g.a.; mentre qualche incertezza sul recesso ex art. 109 D.Lgs. 50/2016 (ex art 340 L. 2248/1865 all. F) introduce C.d.S., V, 2/8/2019 n. 5498, mentre appare “distonica” Cass. civ. SS.UU. 5 ottobre 2014 n. 24441 che individua nel “momento in cui acquista efficacia l’aggiudicazione definitiva” quello oltre il quale opererebbe la giurisdizione del g.o. (esteso quindi anche alla decadenza dell’aggiudicazione).

[4] Sulla disapplicazione cfr. di recente A. TRAVI, Disapplicazione dell’atto amministrativo da parte del giudice amministrativo in alcuni recenti interventi della Cassazione, in Dir. proc. amm. n. 1/2020 p. 3 ss.

[5] Sul punto cfr. V. DONATIVI, Le società a partecipazione pubblica, Wolters/Kluver 2016, p. 363 ss..

[6] Ma ciò, a ben vedere, varrebbe anche se il socio fosse una persona giuridica privata di cui il giudice dovesse valutare i poteri del soggetto che la rappresenta in assemblea.

[7] Cfr. per tutti, R. VILLATA, “Disapplicazione dei provvedimenti amministrativi e processo penale”, Giuffrè 1980.

[8] Cfr. quella citata da S. MASSI, Parametri formali e “violazione di legge” nell’abuso d’ufficio, in Archivio penale n. 1/2019 spec. pag. 8.

[9] M. GAMBARDELLA, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, in Sistema penale, fasc. 7/2020 p. 133 ss..

[10] Cfr. per un caso di mancato esercizio di una “autotutela doverosa “il commento di A. VETRO, a Corte dei conti sez. giurisd. Sardegna n. 303/2011 “L’esercizio dell’autotutela da parte della pubblica amministrazione: riflessi sulla responsabilità amministrativa dei pubblici funzionari” in Contabilità Pubblica online, 16 gennaio 2012.

[11] Sul punto, tuttavia, cfr. F. GOJSIS, La giurisdizione contabile sulle società in mano pubblica: un presidio per la necessaria reddittività dell’investimento pubblico, in Dir. proc. amm. 1/2019 p. 41ss.

[12] Così, sui rapporti fra giudizio penale e contabile, Cass. pen. VI sez. 35205/2017. Sulla reciproca autonomia tra accertamento in sede penale della responsabilità civile del dipendente e giudizio di responsabilità amministrativa – contabile sotto il profilo del possibile divieto del ne bis in idem, cfr. anche Corte CEDU 13/10/2014 in ric. 20148/09  ancorché individuando alcuni limiti al riconoscimento de plano degli effetti del giudicato penale nel giudizio di responsabilità contabile, ai sensi dell’art. 651 c.p.p., per non violare la presunzione di innocenza sancita dall’art. 6, par.2 della CEDU.

[13] Sul tema specifico del TUSP e giurisdizione contabile, cfr. F. FIMMANO’, Si allarga la giurisdizione della Corte dei conti sulle società pubbliche, in Gazzetta Forense, nov.dic. 2018 p. 1132 ss..

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