(Lettera aperta all’Avv. Remo Danovi)

Caro Remo,

facendo seguito ai nostri ultimi e accorati colloqui telefonici, Ti rassegno quelle prime osservazioni che mi hai chiesto di trasmetterTi “a caldo” sull’insano disegno di legge in discussione in Parlamento (trasmesso dalla Camera al Senato il 5 maggio scorso), “Legge annuale per la concorrenza e il mercato”, il cui articolo 41 è dedicato all’Avvocatura (“Misure per la concorrenza nella professione forense”) che introduce nella legge 247/2012 un articolo 4 bis di disciplina dell’”esercizio della professione forense in forma societaria”, come scioglimento della delega attribuita al Governo dall’art. 5 della legge del 1012, che coerentemente viene abrogato.

Quell’articolo 4 bis sembra un concentrato di contraddizioni, foriero a mio parere della fine dell’Avvocatura come da sempre intesa.

La finalità perseguita, formalmente enunciata nell’alinea, è la “societarizzazione della professione forense” per “garantirne una maggiore concorrenzialità”.

Il punto riprende il tema dello “studio legale-impresa” (e del CNF consorzio d’imprese ex art. 2602 c.c.) sulla scorta della sentenza CdS.VI, 1164/2016, che nella mia nota in GiustAmm, CNF associazione d’imprese? ho definito infame. Sentenza semplicemente sbagliata (sia stata inadeguatezza della difesa o prevenzione del Collegio giudicante) alla luce proprio della giurisprudenza della Corte di Giustizia, ivi analiticamente esaminata con dimostrazione per tabulas che il CdS ha veramente preso fischi per fiaschi!

Qui non s’è capito (o non si vuol capire) che nel nostro ordinamento il diritto del lavoro segue la tripartizione di fondo: impresa, lavoro autonomo/professionale e lavoro dipendente.

La concorrenza è propria dell’impresa che opera nel mercato; solo fermandosi alla catalogazione di Vichipedia,“affinché si possa parlare di concorrenza, si devono verificare i seguenti requisiti:

a) numerosità degli operatori, sia per quanto riguarda i venditori che per quanto riguarda gli acquirenti;

b) libertà di ingresso e assenza di barriere. Se manca questo requisito, si parla di concorrenza imperfetta;

c) omogeneità del prodotto. Se manca questo requisito, si parla di concorrenza monopolistica:

d) perfetta informazione e trasparenza del mercato;

e) simultaneità delle contrattazioni, in seguito a una fase di trattative che permetta a tutti gli operatori di ottenere il medesimo prodotto”.

Nella mia citata Nota di GiustAmm ho trattato il tema della “concorrenza nelle professioni”; totalmente diversa da quella della concorrenza d’impresa; ragguagliando la prima alla seconda, nel lavoro autonomo/professionale mancano necessariamente i requisiti b, c, ed e, propri solo della concorrenza d’impresa; e mancano perché sono ontologicamente incompatibili con la stessa struttura del lavoro autonomo/professionale.

Elemento essenziale della concorrenza è il prezzo del prodotto offerto. Per le prestazioni professionali l’art. 2233.2 cod. civ. stabilisce che, pur nella libertà della pattuizione, “in ogni caso la misura del compenso dev’essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”: due parametri legali ugualmente cogenti e vincolanti. Del primo, unici arbitri sono le parti contraenti, libere di determinarsi secondo valutazioni soggettive; mentre nella determinazione del secondo, per le prestazioni professionali riservate dalla legge a professioni protette (tipica quella dell’assistenza giudiziale dell’Avvocato), le parti contraenti non hanno alcun potere dispositivo, dal momento che la “tutela del decoro della professione” è funzione che spetta esclusivamente ai rappresentanti istituzionali della professione; come tale essa esula affatto dalla stessa legittimazione dispositiva delle parti del contratto d’opera.

Ben più rilevante agli effetti della tutela del “decoro della professione” è la disciplina della concorrenza nel rapporto con gli altri “concorrenti sul mercato”, per i quali il contratto “sotto tariffa” concluso dal “collega” col suo cliente (a) mette fuori gioco il professionista onesto, rispettoso della tariffa e quindi del decoro professionale; (b) espone il cliente che ha concluso un contratto sotto-tariffa al rischio che il discostamento dalla tariffa-tipo non dipenda dalla sua eccezionale genialità, ma da altri motivi condizionanti la qualità della prestazione pattuita (non escluso quello che al “poco richiesto”  corrisponda la pochezza della prestazione fornita).

Non parliamo poi del “prodotto” del lavoro autonomo forense, dove oggetto del contratto d’opera concluso col cliente non è tanto il singolo atto del processo (il ricorso, la comparsa, la difesa giudiziale), ma il loro contenuto. Compiuto il LX anno di Toga, mi posso vantare d’aver passato tutti questi anni con penna e notes sul comodino, pronto a fissare qualche spunto che possa baluginare di notte pensando alle cause in corso; poi, fatto giorno, non sempre lo si segue, ma per l’Avvocato vero vale la regola propria dell’artigliere, che deve sempre “stare sul pezzo”. Ora, in un’Avvocatura societarizzata, non vedo l’Avvocato-socio, che di notte si fissa un’intuizione professionale per vincere la causa della Società.

Addirittura grottesco trovo poi il VI comma dell’art. 4 bis, secondo cui “le società sono in ogni caso tenute al rispetto del codice deontologico”, rapportato al disposto del III comma, secondo cui ”resta fermo il principio della personalità della prestazione professionale”: in quanti “rispondono”? Senza porsi il problema dell’applicazione della sanzione interdittiva dell’esercizio della professione che venga irrogata alla società.

M’aggrapperei con la forza della disperazione all’ipotesi da Te ventilata d’un convegno sullo specifico tema anche limitato alle Avvocature del Nord, non foss’altro che per verificare se esista ancora un CNF che s’interessi anche dell’assetto istituzionale dell’Avvocatura.

Fu il Collega Marco Tullio a rilevare qualche tempo fa che mala tempora currunt, ma ora currunt con velocità decisamente eccessiva; vediamo se si riesce a rallentarne un po’ la corsa.

Cordialmente.

Ivone Cacciavillani

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